Postcards From Hell: Stories by Massimo Alberizzi
STORIES by Massimo A. Alberizzi
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LA BATTAGLIA DEL PASTIFICIO (2 LUGLIO 1993)


39002 L'evacuazione da Mogadiscio del STen. Gianfranco Paglia, ferito il 2 luglio 1993, durante la battaglia al Pastificio

MOGADISCIO - Anche gli italiani ieri hanno versato il loro tributo di sangue in Somalia. Tre giovani militari sono stati uccisi durante una violenta battaglia alla periferia della città. Altri 21 sono stati feriti e quattro versano in gravi condizioni. Tutto comincia con un'operazione di routine all'alba. Un rastrellamento alla grande, 800 uomini e uno spiegamento imponente di mezzi corazzati, ma che non presenta pericoli apparenti: vengono invitati anche i giornalisti. Si tratta di setacciare un quartiere di villette e baracche vicino al cosidetto check-point della Pasta (nei pressi di una vecchia fabbrica di spaghetti) alla periferia nordorientale della città. I nostri sequestrano un buon numero di fucili e arrestano sette persone. E a questo punto che si ripete lo stesso copione già recitato il 5 giugno, quando furono massacrati 24 pachistani. I soldati vengono circondati da donne e ragazzini che cominciano a prenderli a sassate, per impedir loro di continuare. Nei giorni scorsi, in quella zona a casa di un certo Ahmed Duale, era stata segnalata la presenza notturna del ricercato numero 1 dell' Onu, il generale Aidid, capo della fazione Sna cui fa capo la tribù degli haber ghidir. Il generale Bruno Loi, che partecipa all'operazione, intorno alle 7 dà l'ordine di ritirarsi. Vuole evitare, spiegherà poi, che una sassaiola possa trasformarsi in una battaglia. Non ci riesce. Sono i somali a volere il combattimento. Quando una prima parte dei nostri soldati si allonta entrano in azione i cecchini. Tirano da tutte le parti, prima con kalashnikov e pistole poi armi pesanti, mitragliatrici, mortai e rpg, i razzi anticarro.
I nostri si arroccano all'interno dei reticolati del check-point riparandosi dietro i muretti fatti con sacchetti di sabbia. Nei loro occhi si legge soprattutto smarrimento. «I somali hanno detto di non avercela con noi, perchè ora ci tirano addosso?», mormora un soldato mentre cerca di rispondere al fuoco. Un razzo colpisce un carro armato, ma per fortuna lo ammacca soltanto. Sotto il fuoco dei cecchini cadono invece prima il sergente maggiore Stefano Paolicchi, quindi il paracadutista Pasquale Baccaro e infine il sottotenente Andrea Millevoi. Vengono soccorsi e portati fuori dal luogo della battaglia sui carri blindati. A un chilometro di distanza c'è l'appuntamento con un elicottero ma per loro la corsa in ospedale sarà purtroppo vana. Li seguono a ruota altri feriti Giampiero Monti, Alesandro Scanu, Donatello Sapone, Salvatore La Rocca, Cosimo Argese, Gabriele Sebastiano, Paolo Usiveri, Simone Torresani, Gianfranco Paglia, Massimiliano Zaniolo, Giorgio Vitaletti, Francesco Filogamo, Andrea Badioni, Roberto Sammaruga, Giuseppe Zivillica, Mauro Vicenzetto, Carmelo Mandolfo, Biagio Nunziante, Martino Gallo e Alessandro Puzzilli. Sono soldati, sottufficiali, ufficiali di leva e non e perfino, l'ultimo, un tenente colonnello.
Alle 10 la battaglia infuria ancora violenta, nonostente i nostri elicotteri mitraglino le posizioni avversarie. I somali mettono in azione anche alcune tecniche, la camionettte che montano sul cassone una mitragliatrice di grosso calibro. Dal check-point chiedono rinforzi, ma una colonna che sta muovendo in aiuto cade in un'imboscata lungo la strada, nei pressi dell'Hotel Guled. Dai tetti sparano all'impazzata. Cade con le gambe trafitte da una pallottola il sergente maggiore Stefano Ruaro. E' fortunato perchè il proiettile, diretto più in alto, colpisce prima la canna del suo fucile che la devia verso il basso. Urla di dolore. I compagni lo soccorrono e organizzano una battuta nei dintorni. Nulla, i cecchini sono scappati.
Implacabili i miliziani somali continuano a martellare le posizioni italiane a Pasta. Rescono a impadronirsi di un camion Vm lasciato un attimo incustodito e scappano. Un elicottero lo insegue e lo mitraglia. Muoiono due miliziani, un terzo riesce a fuggire, ma il mezzo è semidistrutto.
Si capisce che i nostri tentano di respingere l'attacco da soli. C'è la volontà precisa di non chiedere l'intervento di rinforzi da altri contingenti: proprio in quella zona il 17 giugno era scoppiata una violenta polemica con gli americani per un intervento (definito «improprio», cioè troppo violento) degli elicotteri Usa, ma poco prima di mezzoggiorno il generale Loi cede e chiama la forza di intervento rapido americana. Comincia il ritiro dal check-point della pasta. Alle 13,14 l'annuncio che l'area è libera e che gli elicotteri possono entrare in azione. I Cobra americani si alzano in volo. Mitragliano le posizioni e bombardano tre siti intorno alla zona. Una colonna di marines avanza per rastrellare una vasta area, ma viene bloccata da una richiesta precisa dal generale Loi. Spiegherà più tardi l'ufficiale italiano:«Non volevo rappresaglie, bisogna continuare sulla strada del dialogo».
Intanto mezzi e soldati ripiegano sulle loro basi, al porto vecchio e all'ambasciata, e viene lasciato un solo check-point quello del Ferro, all'angolo tra la strada delle Forze armate e la strada per Balad, un paio di chilometri dietro la fabbrica della Pasta. Resta il posto italiano più avanzato. A guardia una decina di soldati e due carri armati. Regna una calma irreale. Il bunker di sacchetti di sabbia è pieno di bottiglie d'acqua. In strada solo ragazzini, incoscienti del pericolo: credono che la guerra sia un gioco e non vogliono saperne di allontanarsi. I nostri sono in stato di massima allerta, fucile puntato colpo in canna. Sono calmissimi e sicuri.
A 500 metri la strada che porta alla fabbrica della pasta forma un dosso che impedisce la visuale. Da lì proviene una 124 verde scassatissima il cui autista chiede di vedere il capoposto. «Ragazzi - dice in un italiano stentato - attenzione sono dietro quella collina si stanno preparando a venir qui per catturare i vostri carri». Poi avvia veloce la sua macchina. Un contatto radio del Corriere della Sera in zona Aidid, segnala che un colonnello sta aizzando i somali per catturare la postazione: «I miliziani sono euforici: hanno cacciato gli italiani dalla Pasta, gli avevano catturato un autocarro, sostengono quindi di essere così potenti da poterli ricacciare in mare». L'effetto del chat (la droga locale) che hanno cominciato a masticare di prima mattina fa il resto. In lontananza parte una mitragliata. Il comando dell'esercito dà l'ordine per radio di evacuare la postazione. Mentre la lasciamo la gente comincia il saccheggio del niente che resta: il filo spinato, i sacchetti di sabbia, una vecchia sedia sgangherata bidoni arrugginiti segati a metà e le bottiglie d'acqua minerale. Si, quelle si che valgono! Il generale Loi spiegherà poi: «Stavo mandando rinforzi per rafforzare il check-point ma non credo valesse la pena rischiare altri uomini. per oggi ne abbiamo avuto abbastanza. Ora lasciamo calmare le acque e poi vedremo di riprendere le nostre posizioni».
Ma ancora una volta emerge una differenza di approccio alla situazione somala tra italiani e americani. Per il generale Loi l'attacco è stato portato da un gruppo di miliziani somali esagitati e fanatici che nessuno controlla mantre per gli americani gli assalitori hanno un'identità chiara: sono i miliziani dell'Sna del generale Aidid. C'è da attendersi quindi un braccio di ferro. L'ammiraglio Howe, inviato speciale di Butros Ghali in Somalia, chiederà una ritorsione e una rappresaglia per l'uccisione di tre caschi blu. I generale Loi, interprete della politica di Roma che chiede gradualismo e dialogo, cercherà di frenare, rivendicando il fatto che i tre soldati erano prima di tutto italiani.
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GLI ITALIANI RICONQUISTANO IL CHECKPOINT DEL PASTIFICIO
(9 LUGLIO 1993)
>Massimo A. Alberizzi
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39053 Un carro M-60 in azione al Pastificio, il 9 Luglio del 1993

MOGADISCIO - Loro, i ragazzi della boscaglia, i morian, miliziani di giorno e banditi di notte, ieri hanno vinto. Ma questa volta senza mitra e fucili. Hanno usato le armi della ragione, del dialogo, del colloquio, del buon senso. E poi la voglia di vita e la nausea della morte. Così gli italiani, senza sparare un colpo, sono potuti rientrare al chek-point Pasta, quel maledetto posto di blocco dove una settimana prima avevano perso tre uomini, uccisi durante la battaglia: Pasquale Baccaro, Stefano Paolicchi, Andrea Millevoi.
Gli umili combattenti somali hanno evitato un'altro scontro, altri morti, altri feriti. Loro, che chiedono solo una cosa, «toglieteci le armi ma fateci lavorare», hanno messo in scacco i notabili della loro tribù e i dirigenti della loro fazione politica, attestati su una linea più rigida, e beffato perfino gli americani che avevano deciso un'azione militare in nottata per chiudere comunque la partita entro questa mattina. Con i morian, gli uomini della guerra, ha vinto la pace. Certo a tessere la tela delle relazioni ci si sono messi anche gli italiani. Il maggiore Angelo Passafiume, è stato abilissimo a rassicurare i miliziani, convincerli ad accettare la pacificazione e ricucire le relazioni tra i somali (oltre i ragazzi, i notabili e i politici), deterioratesi più volte durante i negoziati rischiando di far precipitare la situazione.


39135 Il Magg. Angelo Passafiume

Alle 9 di ieri prima riunione. I combattenti, tutti della tribù haber-ghidir, fedeli al generale Aidid sono euforici. «E' fatta - racconta uno di essi, Abdi Shakur -. Fino a tarda sera abbiamo battuto il quartiere cercando di convincere la gente che l'arrivo degli italiani è un'ottima cosa, che la guerra deve finire, che le assicurazioni dei soldati sono soddisfacenti. Adesso lì ci sono i notabili e i politici. Stanno continuando il nostro lavoro». Più tardi si saprà che ieri mattina nessuno di loro si è fatto vedere al pastificio. Ore 11, riunione a casa di un mediatore neutrale, Liq Liqato. Partecipano gli italiani e i dirigenti del Somali National Alliance, del generale Aidid. Porte chiuse ma a mezzogiorno entra una delegazione di miliziani. Escono dopo cinque minuti con la faccia scura. «Tutto bene», assicura freddamente Mohamud Soldan, lui sempre così sorridente. Ore 13, finiscono i colloqui e il maggiore Passafiume svicola dal retro. Isse Mohammed Siad, plenipotenziario del generale Aidid, parla con i giornalisti «Abbiamo raggiunto un accordo di principio, vedremo come metterlo in atto. Tra noi non ci sono più problemi, abbiamo ripreso a collaborare. Nel giro di 24 ore i soldati potranno tornare al pastificio». E i miliziani venuti qui? «Volevano solo sapere a che punto erano le trattative».
Non è proprio così. I ragazzi sono furiosi contro i loro leader. «Li abbiamo sentiti parlare. Raccontavano un sacco di frottole agli italiani e siamo usciti». E il maggiore Passafiume, sono le 14, si precipita a calmarli. Li rassicura e li conforta. Per un attimo loro minacciano di far saltare gli accordi; non per odio contro gli italiani, ma per reazione «a chi crede di governarci e invece non conta niente».
Ore 15. Appuntamento all'Hotel Guled, sulla strada che porta al pastificio, all'ingresso del quartiere contestato. Notabili haber-ghidir, dirigenti del Somali National Alliance e le truppe italiane. Al pastificio tutto è calmo, le barricate sono state spostate, la gente è normalmente in strada. Per primi arrivano i nostri (la colonna di corazzati e di mezzi pesanti è lunga) poi i notabili, su un paio di camioncini, infine Isse e altri dirigenti dell' Sna. Il colloquio dura pochi minuti. Parte una Toyota bianca in direzione del pastificio. A bordo alcuni notabili e un megafono: «Bisogna tenere aperta la strada non mettete barricate. Arrivano gli italiani. Non vogliono fare la guerra ma vengono in pace. Fateli passare».


39042 "Arrivano gli italiani. Non vogliono fare la guerra ma vengono in pace. Fateli passare."

Si comprende che l'opera di informazione svolta dai miliziani la sera precedente non è stata sufficiente. La gente ha problemi a capire. «Ma come - si domanda qualcuno -. Fino a ieri dovevamo combattere gli italiani e ora li dobbiamo accogliere?». La gente scende in strada e sul lungo nastro d'asfalto che porta al pastificio ricompaiono le barricate. Qualcuno comincia a bruciare copertoni. Si alzano due dense nuvole di fumo nero. Le più scatenate sono le donne. Forse per loro è ancora fresco il ricordo della battaglia del 2 luglio quando hanno perso mariti e figli: urlano inveiscono, si affannano a trasportare copertono da gettare sul fuoco. Sarano le prime a raccogliere e lanciare sassi. Il generale Loi, che guida gli italiani, osserva cosa accade a 500-600 metri di distanza. Isse, su un'altra Toyota si dirige verso la folla. Parlando con un megafono cerca di calmare gli animi. Ma non arriva neppure alle prima barricata che deve tornare indietro. Per troppo tempo ha incitato a combattere, ora la situazione gli è sfuggita di mano. Ora ad affrontare la gente, che si fa sempre più mincciosa, partono i notabili. Comincia una fitta sassaiola. La risposta è immediata. I miliziani, quelli che vogliono il ritorno degli italiani, rispondono con i sassi. Poi si avvicinano, parlano con i dimostranti, cercano di spiegare. Non lesinano spintoni.
Isse si apparta con il generale Loi. Il colloquio dura 10 minuti.


39344 Isse Mohammed Siad, luogotenente di Aidid, col Generale Loi

Probabilmente il somalo chiede tempo, un tempo che Loi non può concedere pressato com'è dai comandanti dell'Onu che, comunque, hanno deciso di chiudere entro sera, anche con un'operazione militare, la «faccenda» Pasta. In quell'attimo sembra che il tentativo di riprendere la zona del maledetto check-point senza usare la forza sia fallito. Poi si muovono i ragazzi. Abdi Shekur, Mohammud Gardarro, Abdi Nur, Anas Ahmed, Mohamud Ibraim Soldan, ecco alcuni dei loro nomi. Vanno verso la folla si fermano a parlare. Gli italiani restano fermi di fronte all'hotel Guled. Per spuntare l'aspetto aggressivo dei carri armati i cannoni, anzichè in avanti, vengono puntati sul fianco.


39071 Le torrette degli M-60 vengono ruotate di 90°, un gesto "amichevole"

I morian avanzano lentamente, prima a piedi, poi in macchina. Usano le loro vetture scalcinate e cascanti, con la carrozzeria crivellata di proiettili. Chiedono di poter salire sulla
Panda del Corriere. Invitano la gente a gettare acqua sul fuoco dei copertoni, a spostare le barricate. E loro gli abitanti del quartiere finalmente obbediscono. A loro, solo a loro obbediscono. Quando si arriva all'incrocio del pastificio sono le 16.45. Donne e ragazzini stanno spostando il filo spinato in mezzo alla strada per ripristinare una barricata. «No, no - urlano dalla Panda -. Aprite, aprite, bisogna aprire, bisogna lasciar passare». Arrivano due anziani e tirano dall'altra parte. Il filo spinato è ripiegato sul ciglio della strada.
«Ora la via è libera, torniamo a prendere gli italiani». Dietro front e via verso l'hotel Guled. Ma gli italiani pian piano si sono aperti la strada. Davanti a loro le auto dei morien e sul primo fuoristrada militare, in piedi, i notabili del quartiere. Al pastificio, sono le 16,51, è festa grande, battimani, gente che si sbraccia. «Viva Italia, viva Somalia» e, scandito forte e chiaro un nome, «A-i-did, A-i-did».


39033 "Viva Italia, Viva Somalia"

Qualcuno innalza una foto del generale e viene golosamente ripreso da fotografi e cameramen. Il generale Loi dall'alto del suo gippone gongola. In fondo è lui (assieme ai morian) che ha vinto questa battaglia. Non contro i somali ma contro gli strateghi dell'Onu, secondo cui Pasta si sarebbe potuta prendere solo con la forza
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QUATTRO GIORNALISTI UCCISI DALLA FOLLA INFEROCITA
A MOGADISCIO (12 LUGLIO 1993)
>Massimo A. Alberizzi
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39046 Hansi Kraus, al centro, ripreso con alcuni colleghi 3 giorni prima della sua morte. Da sinistra Scott Peterson (Gamma-Liaison), Stefano Brunelli ( Canale 5), Eric Cabanis (Agence France Presse).

MOGADISCIO, 12 Luglio 1993 - Dan Eldon, 20 anni inglese, fotografo delle Reuters, Anthony Makarery, keniota tecnico del suono della Reuters, Hos Maina, fotografo della Reuters, Hansi Kraus, tedesco fotografo dell'Associated Press. Li hanno ammazzati come cani. Prima li hanno catturati, poi li hanno picchiati, quindi li hanno portati al mercato di Bakara è li hanno uccisi a sangue freddo. Non hanno neppure restituito i lori corpi. Hansi è lì, sulla circonvallazione 21 ottobre e i cecchini impediscono a chiunque di avvicinarsi. Hos e Anthony li hanno scaricati giù da una macchina. Mentre scrivo giacciono ancora lì, su un marciapede dell'inavvicinabile mercato di Mogadiscio. I somali spediti a vedere dicono che sono immersi in una pozza di sangue e divorati dalle mosche. L'unico cadavere recuperato è quello di Dan. Un ragazzo sveglio e simpatico tutto pepe. Abbiamo lavorato spesso assieme negli scorsi giorni. Qualche minuto prima che lo ammazzassero siamo partiti assieme per la stessa disperata impresa. Entrare nella palazzina appena bombardata dagli americani. Lui c'è arrivato e ci ha lasciato la vita, io sono stato respinto da una marea umana e da una sassaiola. Tutto comincia alle 10 di ieri mattina. Otto elicotteri americani lanciano un serrato e violento attacco contro alcune case nei dintorni del quarto chilometro. Il bombardamento dura ben 17 minuti. Ampie volute di fumo si alzano in lontananza. Dal terrazzo dell'albergo dove alloggiano i giornalisti stranieri (gli italiani sono lontani, in un luogo ben sicuro e sorvegliato, di fronte alla nostra ambasciata) si vede tutto lo spettacolo. Il loro obbietivo é la sede del United Somali Congress/Somali National Alliance, la fazione del generale Mohammed Farah Aidid, dove si tiene una riunione ad alto livello. Nello stesso momento colpi di mortaio si abbattono su un posto di blocco di pachistani (4 feriti) e i cecchini bersagliano alcune postazioni italiane nella zona nord della città.
Al quarto chilometro gli elicotteri continuano a volteggiare alla ricerca di tiratori nascosti. Passano in continuazione anche sull'albergo, mentre in strada sfilano macchine cariche di morti e feriti. Sembra che il bombardamento sia finito e con alcuni colleghi corriamo a vedere cosa è successo. Ci sono Dan, Anthony, Hos, Hansi e Mohammed Shaffi il cameraman della Reuters, su una macchina, sull'altra Ilaria Alpi e Alberto Calvi del Tg3, sulla Panda del Corriere sale anche Cristiano Laruffa. Su ognuna delle tre auto un esponente della fazione di Aidid per proteggerci. L'accortezza risulterà vana. Ci fermiamo non più di 20 secondi a parlare con dei somali. Sarà la nostra salvezza. Parte la Reuters e si insinua nei cunicoli verso la sede dell'Sna. E passa tra la gente. La Panda viene bloccata a cento metri della palazzina. Picchiano sui vetri, lanciano sassi e urlano contro i giornalisti. No, non ci arriveremmo mai. Meglio provare all'ospedale Benadir. Entramo con l'auto dal cancello. Nel cortile ci sono distesi dei corpi insanguinati. Non si capisce se siano morti o feriti. La gente si accalca contro di noi. Interviene il ministro della sanità di Aidid, Salad Gutale, e l'avvocato Ghelle, vecchi amici. Ci difendono dalla folla furibonda e minacciosa. «Via, via meglio andare via. Questi non capiscono». Documentare i morti, la carneficina degli elicotteri sarebbe per loro certamente importante. L'avvocato Ghelle fa scudo con il suo corpo e si siede sul cofano dell'auto in fuga. Nella curva per uscire dai cancelli viene scalzato in terra. Si saprà che per fortuna ha avuto solo un'escoriazione.
Rientriamo all'albargo Sahafi (che vuol dire appunto in arabo «dei giornalisti»). Arriva un somalo: «Hanno ammazzato dei reporter». Facciamo la conta per vedere chi manca. Per qualche minuto si teme per Ilaria Alpi e il suo cameraman. Le voci sulla sua sorte si intrecciano. Alla fine con la radio del Corriere viene rintracciata. E' al sicuro a casa di amici. Bussano al cancello dell'albergo E' Mohammed Shaffi, ferito e sanguinante. Fa due passi e si accascia al suolo. Il fotografo Cristiano Laruffa lo soccorre e chiede aiuto. Shaffi viene adagiato su un'auto e spedito all'ospedale. Ecco il suo racconto, un paio d'ore dopo, di quanto accaduto. «Siamo entrati nella palazzina dell'Sna subito dopo il bombardamento. C'era sangue da tutte le parti e gente che urlava. Ci hanno fatto entrare e filmare un po' di cadaveri. Anthony, il tecnico del suono era accanto a me. Dan e Hansi più in là. Sono rimasto dentro cinque minuti fino a quando non hanno comuinciato a spingermi e strattonare la telecamera. Ho sentito Dan che urlava. "Presto, presto andiamo". E' corso via con Hansi e Anthony mentre io venivo colpito con bastoni, con sassi e una fucilata che mi ha preso di striscio al braccio. Sono cascato e ho visto, mentre ero a terra, che Dan veniva preso da sei uomini e buttato in un Toyota Land Cruiser verde». «Ferito e sanguinante mi sono rialzato, sono corso fuori e sono stato assalito - coninua Shaffi, pachistano di nascita ma residente in Kenia -. Hanno cacciato anche me su una vettura e sono partiti velocissimi. Mi hanno immobilizzato piazzandomi un braccio contro il collo, sotto il mento. Quando siamo arrivati al mercato di Bakara ho capito che per me era finita. Allora ho cominciato a parlare come un matto. Ho detto che sono amico dei somali, che lavoro per la pace, che volevo documentare la strage perchè il mondo potesse capire e vedere. Abbiamo vagato per una mezz'oretta. Chi mi aveva catturato non sapeva bene cosa fare di me. Hanno discusso e litigato tra loro, poi mi hanno scaricato davanti all'hotel Sahafi».
«Dan - ricorda in lacrime Shaffi - era il mio migliore amico. Prima di correr via dall'albergo mi aveva detto "Resta qui, tu sei nero. Se gli elicotteri mitragliano eviteranno i bianchi, ma non i neri». A Dan, Hansi e Anthony è andata peggio. I loro assassini non hanno avuto alcuna pietà.
Dopo gli incidenti l'albergo dei giornalisti è stato tenuto d'occhio da 4 elicotteri americani che hanno stazionato sopra e accanto all'edificio. I somali hammo portato due camion carichi di morti perchè tutti potessimo vederli e le televisioni potessero riprenderli. Saranno stati una ventina (tra loro qualche donna, ma nessun bambino, al di là delle dichiarazioni ufficiali che parlano di 78 morti e 103 feriti. Uno dei dirigenti dell'Sna, Hussein Dimbil, ha sostenuto che «la riunine in corso era stata convocata per studiare delle proposte di pace e non per organizzare azioni di guerra». Altre fonti somale, anch'esse vicine ad Aidid, smentiranno questa versione.
L'ammiraglio Jonathan Howe, inviato speciale delle Nazioni Unite in Somalia, commentando i fatti di ieri ha dichiarato invece che è stato assestato un colpo molto duro alla fazione di Aidid e che almeno 13 dei suoi più fedeli collaboratori sono stati uccisi. «Sapevamo che il generale non era lì e quaindi la sua cattura non era uno degli obbettivi di ieri».
Nell'attacco hanno perso la vita, tra gli altri, Abdulkadir Dolo Dolo, capo delle pubbliche relazioni dell'Sna, alcuni membri del comitato centrale della stessa organizzazione e Shek Mohammed Iman, capo della sottotribù saad, quella di Aidid. Secondo fonti somale un elicottero sarebbe atterrato nel giardino della villa, bombardata pochi attimi prima, e avrebbe catturato tre dei leader presenti alla riunione, tra cui Abdulkarim Ahmed Ali, segretario dell'United Somali Congress.

MOGADISCIO, 13 Luglio 1993 - Ieri mattina eravamo tutti sulla terrazza dell'Hotel Sahafi, l'albergo dei giornalisti. Ora Dan, Hansi, Hos e Anthony non ci sono più. Li hanno rapiti,picchiati, feriti e ammazzati a sangue freddo. Con Dan c'eravamo trovati spesso in questi giorni nei luoghi «caldi» di Mogadiscio. Alla battaglia del Pastificio e alla ripresa dello stesso check-point da parte degli italiani, venerdì scorso. Era giovane (20 anni) e un po' spericolato. L'ultima avventura gli è costata la vita. Alle 10, ieri mattina, gli elicotteri stanno bombardando il quartier generale della fazione del generale Aidid. Sulla terrazza Dan, Hansi, Hos alle macchine fotografiche, Anthony al microfono collegato alla telecamera del suo amico Mohammed Shaffi. Io con il mio taccuino in mano. C'è la Cnn, Ilaria Alpi e il suo cameraman del Tg 3 e i colleghi di France Presse e Ap. «Devo chiamare il Corriere prestami il telefono», chiedo al fotografo della France Presse. E Dan tra uno scatto e l'altro: «Vai in camera mia che è più vicino. Prendi le chiavi». Ma il suo apparecchio satellitare non funziona. I due elicotteri scout, quelli con i radar e gli apparati elettronici, disturbano tutte le comunicazioni. Torno su: «C'è un po' di calma. Presto, bisogna andare a vedere la palazzina bombardata». Se c'è paura in quel momento è rivolta agli americani che possono riprendere a mitragliare dall'alto. Ma loro, pensiamo senza dircelo, si fermeranno davanti alla bandiera della Reuters e al grosso adesivo Corriere della Sera sulla Panda…Tutti assieme corriamo giù alla ricerca delle nostre macchine. C'è molta confusione. Fuori alcuni dirigenti dell'Sna, il Somali National Alliance, di Aidid ci aspettano. «Venite vi portiamo noi». Riconosco il mio amico Nasser: «Prendi in macchina lui, che ti fa da guida», consiglia indicandomi un uomo. «Date qualcuno anche alla Reuters e alla Rai», chiedo. Nelle loro auto sale un notabile. Partiamo per primi. Riconosco una macchina dei miliziani, miei confidenti. «Abdi, Abdi - chiamo - Venite con noi per favore». Quelli prima di capire che sono io a chiamarli ci mettono 20 secondi. Vedo con la coda dell'occhio che la bandiera della Reuters mi sorpassa e vola via. Quando la seguo e già in fondo al viale che svolta a destra per infilarsi nella stradina dove c'è la palazzina dell'Sna. Cristiano Laruffa, il fotografo che è sulla Panda mi rimprovera: «Dovevamo salire su quella macchina». Svoltiamo anche noi e l'auto della Reuters è davanti, lontana. Ma fatti 50 metri siamo bloccati dalla gente minacciosa. Volano i primi colpi sulla carrozzeria. Chiudo il finestrino. Temo che mi rubino gli occhiali. Ali, il mio autista spericolato e coraggioso, mi fa: «Massimo andiamo via». «Vola», gli rispondo. Rapido dietro front con altre botte sulla carrozzeria e qualche sasso. Alle mie spalle il pick-up della Reuters porta Dan, Hansi, Hos e Anthony all'appuntamento con la morte.
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VITA DA INVIATI (1993)
>Massimo A. Alberizzi
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39342 L'Hotel "Al Sahafi" (della stampa) al chillometro 4, Mogadiscio

MOGADISCIO - Ci sono due modi per testimoniare una guerra. O stare seduti davanti alla piscina dell'Hilton. O muoversi, girare, cercare delle storie da raccontare, snidare le notizie e andare alla loro fonte. A Mogadiscio l'Hilton (o un equivalente) non c'è. Esiste un fetente albergo (che in Italia sarebbe di infima categoria) dove comunque ci si può piazzare. E' ben sicuro, di fronte all'ambasciata italiana, sotto il controllo delle sentinelle della nostra legazione. Per uscire si può chiedere una forte scorta militare di parà che, ovviamente, si muovono solo se non ci sono altri impegni. Le notizie ufficiali arrivano comunque (come, per altro, giungono nelle redazioni). Lì alloggia la maggior parte dei giornalisti italiani.
Gli stranieri sono invece all'hotel «al Sahafi», «del giornalista» in arabo, sempre fetente ma molto più vicace e interessante, perchè al centro della zona controllata dal generale Aidid e vicino alle installazioni civili e militari dell'Onu. Nel bel mezzo del quartiere «Quarto chilometro» dove gli elicotteri americani bombardano, le milizie dei signori della guerra combattono, la popolazione dimostra contro i caschi blù, i posti di bloco pachistani vengono assaliti, i somali litigano armi in pugno davanti alle bancarelle dei mercati, le fazioni ribelli si incontrano e si scontrano, i feriti vengono ricoverati negli ospedali, gli obici e i mortai martellano il porto e l'aeroporto, i cecchini e gli accoltellatori sono in agguato. Insomma, dove la guerra si vive dal di dentro. E' quì che alloggiavano Dan Eldon, Anthony Macharia, Hos Maina, della Reuters, e Hansi Krauss, Ap i colleghi ammazzati selvaggiamente dai somali il 12 luglio. Cari amici, specie Dan, che avevo incontrato in Somalia diverse volte.
Ospiti fissi dell'Hotel Al Sahafi le più importanti agenzie di stampa Reuters, France Presse, Associated Press e il network televisivo americano Cnn; ospiti saltuari i grandi giornali da Le Monde, all'Independent, al New York Times alle tv Usa Cbs, Nbc, Abc e gli italiani Corriere della Sera e Tg3 più una schiera di fotografi, cameramen e free lance, come Cristiano Laruffa, Fausto Biloslavo (famoso per le sue campagne in Afghanistan dove fu fatto prigioniero e fu gravemente ferito) e Gian Micalessin, cronista di guerra d'assalto. In quest'albergo, in cui la parola pulizia è del tutto sconosciuta, non si dorme mai e c'è una gara a cercar le storie da raccontare, scambiarsi informazioni, correre su e giù per i tre piani aiutando i colleghi con notizie dell'ultimo momento. Al ristorante sanno che i reporters mangiano a qualunque ora e in cambio di una buona mancia Abdulkadir tiene la sala quasi sempre aperta. Una sera si è persino esibito nel «safari» contro un grosso topo che aveva avuto la brutta idea di entrare nell'enorme stanzone. L'amimale, contro cui era stato lanciato di tutto, forchette, coltelli, un tazza ed un piatto è stato finito a scarpate al termine di un grottesco quanto divertentissimo raid.
La giornata comincia molto presto. Alle 7 le radioline sintonizzate sulla Bbc danno le prime notizie e risuonano nei corridoi. Bisogna prepararsi al breefing dell'Onu che è alle 9. Poi via si corre a cercare leader politici arrabbiati, miliziani bellicosi, pacifisti incalliti, terroristi islamici, donne determinate a contare qualcosa, organizzazioni umanitarie, uomini d'affari maneggioni, notizie che sbugiardino le dichiarazioni ufficiali degli uni e degli altri, senza peli sulla lingua, e particolari che chiariscano ai lettori (e a noi stessi) l'ingarbugliata situazione somala. Si lascia sempre detto dove si va. Non serve a niente, ma dà la sicurezza che in caso di impiccio qualcuno ti venga a tirar fuori.
Il grande stanzone della Cnn è il centro di ritrovo comune.


39338 L' autore di questo articolo ripreso all' "Al Sahafi" con Ingrid Formanek, producer CNN

Tra cavi, telecamere, apparecchiature elettroniche e telefoni ci sono i frigoriferi pieni di bevande. Sui tavoli cartacce biscotti e snack. Lo dirige Ingrid Formanek, la vera protagonista del network americano a Mogadiscio. Produttrice, operatrice, giornalista, non compare mai in video ma se non ci fosse lei la Cnn dalla Somalia non trasmetterebbe nulla. Sempre vestita rigorosamente di nero è un'instancabile lavoratrice. Ai polsi e più su inanella una lunga serie di braccialoni esotici che, secondo le voci correnti, non si possono più sfilare, neanche di notte. E' una curiosità che non vuol svelare: «Domanda privata, non rispondo», scherza. La prima ad alzarsi, l'ultima ad andare a letto. Cecoslovacca di nascita, naturalizzata americana, parla otto o nove lingue, tra cui l'italiano. Esce sempre con giubbotto antiproiettile che si getta sulle spalle con non chalance. «Dove si va stamattina». «Prendiamo il check-point Pasta». «Ok, andiamo». E Maria Fleet, un'operatrice dai riccioli rossi, la segue quasi come un'ombra. Maria a Bagdad filmò il missile che colpì l'hotel Rashid e finì a due passi dalle sua gambe.
Per confermare una notizia Ingrid non si ferma davanti a nulla. Alle conferenze stampa dell'Onu fa le domande più intelligenti, ma litiga con i portavoce che lesinano le informazioni. Chiama, facendo piazzate telefoniche senza problemi, l'ufficio di Butros Ghali o il Pentagono o il Dipartimento di Stato. «Pronto, qui è la Cnn da Mogadiscio. Voglio sapere se è vero che ... E me lo dica subito, non intendo aspettare. La telefonata costa cara e voi siete al servizio dei cittadini». Normalmente ottiene quel che vuole.
Andy Hill, il capo dell'ufficio delle Reuters (ora purtroppo chiuso dopo il tragico assassinio di tre dei suoi componenti) è un tipo calmo e serafico, diventa però un leone quando c'è da entrere in azione. «Tutti sul terrazzo, sparano», grida come un matto quando fuori si sente mitragliare; e tutti corrono su per vedere cosa succede. Si porta su il suo telefono collegato a un filo lunghissimo e detta a braccio ciò che vede. Quando l'azione si calma il gruppo si lancia giù dai gradini come un branco di bisonti per correre a vedere sul posto.
Al Sahafi non esiste privacy. Le chiavi delle stanze di ciascuno di noi sono sullo stipite della porta a disposizione dei colleghi. Chiunque può entrare, servirsi del telefono satellitare per chi ce l'ha (e la Reuters ha messo a disposizione del Corriere quello che ha lasciato a Mogadiscio), leggere gli articoli scritti o quelli in programmazione, consultare archivi personali. Altro veterano è David Chazan, della France Presse, gran conoscitore della Somalia, sempre pronto a lanciarsi nelle avventure più incredibili. Ilaria Alpi segue a ruota. Poco più di 30 anni, conosce l'arabo e è preziosissima quando si deve intervistare qualcuno che non parla nè italiano nè inglese. Ilaria durante i bombardamenti del 12 luglio, quando furono uccisi i quattro colleghi, era sparita ed è stata una gara di solidarietà per andare a capire dove si fosse cacciata. Quando si è scoperto che in quel gran casino si era rifugiata a casa di amici, tutti al Sahafi hanno tirato un sospiro di sollievo. Il suo cameraman è Alberto Calvi, diventato famoso durante la guerra del Golfo. A lui si arrese quel gruppo di soldati di Saddam che voleva chiudere con la dittatura.
Nella stanza 315 lavora con la testa completamente fasciata con bendaggi bianchi Scott Peterson, del Daily Telegraph. E' stato colpito da una pietra quel terribile 12 luglio. Sempre in prima fila i fotografi Cristiano Laruffa (era qui anche durante la guerra contro Siad Barre) e Danilo Malatesta. Danilo ad ogni scarica di mitra che passa vicino ride: «La senti la scarica d'adrenalina dietro la schiena?» E poi c'è l'inglese Karl Maier, dell'Independent. Parla anche un po' di italiano e questo non guasta in Somalia.
Al Sahafi i giornalisti sono sempre vestiti male: jeans, scarpe da tennis, magliette e quelle giacche piene di tasche dove si fa una gran confusione e si perde mezz'ora a trovare ciò che serve urgentemente. Un giorno al cancello ha bussato un collega italiano di un grande quotidiano. Pantaloni ben stirati (la riga era perfetta), valigia Samsonite con rotelle, scarpe di camoscio, camicia candida. Gli mancava solo la cravatta. Arrivava dall'aeroporto e l'unico passaggio che aveva trovato portava al Sahafi. Dopo aver visto la situzione ha chiesto con ingenuità: «Vorrei andare all'hotel degli italiani, mi chiama un taxi?». Forse credeva di essere a Parigi e non si è reso conto che se fosse uscito dal cancello così con la sua Samsonite lo avrebbero lasciato in mutande in un baleno. Al Sahafi questa storia ha fatto il giro degli impiegati che ne ridono ancora oggi.
Con i nuovi arrivati «che si adattano» (in questo momento è pieno di tedeschi giornali e televisioni) si lega invece subito, perchè alla sera, dopo una giornata passata a correre a destra e a manca, ci si ritrova sulla terrazza dell'albergo, all'ultimo piano, rigorosamente al buio per evitare che i cecchini possano mirare meglio, ad aspettare il quotidiano scambio di armi da fuoco. Vietato inciampare in cavi, antenne paraboliche per i telefoni satellitari, apparecchiature di trasmissione televisive. Il tetto dell'albergo è carico di apparati tecnologici all'avanguardia e stona se confrontato con il resto della città cascante e diroccata. In attesa dei fireworks, i fuochi d'artificio come vengono chiamati i tiri, si discute dei servizi di domani, si stimolano le idee per nuove storie, si confrontano le ipotesi diverse. Alle 23 qualcuno comincia a crollare. «Ciao, vado a letto, buonanotte». Ma non è finita. I colpi di cannone, di mortaio e le sparatorie con armi automatiche cominciano più tardi, alle due, alle tre. alle quattro. E c'è sempre qualcuno che ti bussa alla porta. «Correre, correre». E tutti di nuovo sulla terrazza, in pigiama, in mutande, a piedi nudi, in ciabatte, a vedersi passare le pallottole sulla testa perchè il Sahafi è sempre al centro di tutto. I cameraman strisciano per terra per raggiungere il parapetto e piazzare con meno pericolo possibile le loro telecamere. E così spesso si tira mattina. Ma, tra un colpo di cannone e l'altro, c'è sempre qualcuno che con una battuta fa scoppiare una grossa risata generale.
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ILARIA LA RICORDO COSI' (21 Maggio 1994)
>Massimo A. Alberizzi
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39015 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, pochi giorni prima del tragico agguato del 20 Marzo 1994

Io la chiamavo «la mia sorellina di Mogadiscio» o Hillary, come la moglie di Clinton. E lei, prendendomi in giro, «Och Ogal» la testata di un quotidiano somalo. Era arrivata in dicembre '92, poco prima di Natale
e avevamo subito familiarizzato per quella sua spontaneità, il modo sorridente di affrontare le cose e la volontà di andare a fondo, indagare, cercare di capire il difficile mondo somalo. «Qui si rischia la vita, ma ci si sente vivi», era una sua battuta.
Viaggiavamo sulla stessa Land Rover, lei sedeva davanti, quando un ragazzino le strappò gli occhiali da vista. La nostra scorta si mise a sparare rincorrendo il ladruncolo per le viuzze dietro il porto. Fu la stessa gente a bloccarlo e a recuperare il misero bottino. Da Mogadiscio ci sentivamo ogni sera. Mi raccontava com'era la situazione e i suoi progetti. «Qui in città è tutto calmo. Voglio andare in giro per la Somalia. Vedere se si ricominicia a morire di fame. Se i bimbi soffrono». Non c'erano aerei per Chisimaio e così era andata a Bosaso, nel nord. Doveva rimanerci solo due giorni, tant'è che Marina Rini, una giornalista free lance, mi aveva telefonato un po' preoccupata per il ritardo.
Parlava l'arabo, cosa in Somalia molto utile, e aiutava tutti i colleghi nelle interviste più complicate. Il 12 luglio a Mogadiscio vengono trucidati 4 giornalisti. In un primo tempo sembra siano di più. Ilaria è scomparsa e per due ore temiamo per la sua vita. Nessun bianco può uscire dall'albergo allora mandiamo i nostri autisti e le nostre scorte in giro per la città a capire cosa le sia successo. Un'agenzia di stampa la dà perfino per morta. Alla fine la troviamo. Si era rifugiata a casa di amici somali.
Il 10 settembre all'Hotel Sahafi occupa la stanza 314. Quel giorno intorno all'hotel scoppia una furiosa battaglia tra due fazioni somale. I proiettili fischiano da tutte le parti. Alla sera andando a dormire mi chiama:«Guarda». Una pallottola ha bucato il vetro della sua finestra, attraversato tutta la camera, e forato la porta di ingresso. Ma lei è più divertita che spaventata. Ogni volta prima di partire mi ricordava: «Se tengo il microfono nella mano destra tutto va bene, nella sinistra ci sono problemi». Sapevamo entrambi che Mogadiscio è pericolosa, ma ci scherzavamo su: «Ehi, se muoio mi aspetto da te un bel coccodrillo», ci dicevemo a vicenda, canticchiando «Voglio una vita spericolata».
Appena arrivata a Mogadiscio una decina di giorni fa mi aveva detto:«Ho preso Ali, il tuo autista. Mi ha salvato la vita un paio di volte, quindi, porta fortuna». Ma ieri Ali non ha potuto fermare le mani assassine.
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PROIETTILI ALL'URANIO USATI ANCHE IN SOMALIA (21 Gennaio 2001)
>Massimo A. Alberizzi
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39020 M1 Abrams US Army tank in Mogadishu Airport

Un giornale tedesco rivela
Documento americano Proiettili all’uranio usati anche in Somalia
Le munizioni sotto accusa forse usate nella battaglia di Bakara il 4 ottobre 1993


Secondo il settimanale tedesco Der Spiegel, gli Stati Uniti hanno usato proiettili all'uranio impoverito già in Somalia. Il giornale cita un documento del Pentagono, datato ottobre 1993 e inviato al comando americano nel Corno d'Africa, con il quale si avvisava di tenere sotto controllo quei soldati che fossero rimasti esposti in misura massiccia all'uranio impoverito, chi, per esempio, avesse respirato polveri radioattive soffermandosi in mezzo al fumo di veicoli incendiati o nei depositi dove erano stoccate munizioni all'uranio. La rivista aggiunge che i comandanti alleati degli Usa nell'operazione Unosom non sapevano nulla dei pericoli connessi all'uso di questi proiettili, quindi non diedero alcuna disposizione particolare di sicurezza ai loro soldati. Anche l’Onu, e quindi il suo inviato speciale, Jonathan Howe,erano all’oscuro. Proprio nell'ottobre 1993 (nella notte tra il 3 e il 4), a Mogadiscio ci fu una furibonda battaglia tra americani e miliziani fedeli al generale Mohammed Farah Aidid. Furono ore terribili; un quartiere della capitale somala fu messo a ferro e fuoco. I ranger non catturarono Aidid e furono respinti. I somali riuscirono ad abbattere 2 elicotteri Cobra e a uccidere 17 americani. Il corpo di uno di questi fu oltraggiato, deturpato e trascinato tra lo scherno della gente per le strade del quartiere di Bakara, legato a una camionetta. In quell'occasione furono usati proiettili all'uranio? Non è da escludere. Nella battaglia di Bakara, furono impiegati i PCV-Bradley, blindati dotati di cannoncini da 25 millimetri con i proiettili sotto accusa.
Certo nel Corno d'Africa non c'erano da sfondare armature rinforzate né da trapassare corazze blindate, però i somali avevano eretto robuste fortificazioni a difesa delle abitazioni dei loro capi «ribelli». Così, durante il mese di giugno dello stesso anno, bombardieri AC 130 avevano tirato i loro micidiali proiettili contro la casa e i depositi di materiale del generale Aidid, radendoli al suolo, e il 12 luglio gli elicotteri Cobra avevano attaccato con bombe e razzi una villa dove si stava tenendo una riunione dei notabili somali. L’intento era quello di uccidere Aidid.
Un documento del Pentagono non include gli elicotteri Cobra o i bombardieri AC 130 tra i mezzi dotati di armi all'uranio (non si può escludere che però gli stessi potessero eccezionalmente essere stati dotati di tali proiettili). Un'inchiesta, fatta allora dal Corriere della Sera e dal Times di Londra, permise però di appurare che gli americani usavano munizioni non consentite dalla convenzione di Ginevra e altri proiettili sulle cui caratteristiche - «Segrete» - il maggiore David Stockwell, portavoce del contingente statunitense, si rifiutò di fornire informazioni, trincerandosi dietro il classico «No comment».




DIAMANTI "PULITI", LA SFIDA IMPOSSIBILE (22 Luglio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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56050 Miniera di diamanti a cielo aperto in Sierra Leone (distretto minerario di Badija Cheefdome)

L’Africa vende gemme e compra armi. Dubbi sull’efficacia del codice etico dei mercanti
«I giovani chiedono che i diamanti infilati al dito della loro fidanzata non siano la causa di un dito amputato, d’un braccio tagliato, di una vita spezzata». Un’immagine eloquente utilizzata dall’ambasciatore canadese Robert Fowler ad Anversa, per arringare i produttori e i commercianti di diamanti riuniti a congresso. Foler ha supplicato: «Non comprate pietre da zone di guerra. I profitti finanziano l'acquisto di armi». E loro hanno risposto: «No ai diamanti insanguinati. Organizzeremo un sistema per garantire l’origine delle gemme». Operazione complicata. In Africa non si riesce a fermare il traffico d’armi, come si può pensare di bloccare il commercio di diamanti irregolari che scivolano in tasche e valigie molto più facilmente d’una cassa di Kalashnikov? In questi mesi i mass media hanno posto il problema, mostrando le immagini della Sierra Leone, dell’Angola, del Congo-Kinshasa: mutilati, sventrati, ammazzati. Guerre combattute per il controllo delle miniere di diamanti di cui i tre Paesi sono ricchi. Molte delle miniere sono controllate dai ribelli dell'Unita (Angola) e del Ruf (Revolutionary United Front, Sierra Leone) che li smerciano attraverso canali non ufficiali e comprano armi. I governi fanno lo stesso: usando però canali ufficiali.

CODICE ETICO - Gli operatori nel settore dei diamanti sanno bene che da decenni in Africa queste pietre sono state la causa di sanguinosi conflitti. Non l'hanno mai ammesso, ma ora sono preoccupati che i clienti dei gioiellieri rifiutino le gemme con un «Grazie, ma non voglio finanziare una guerra». Così hanno reagito proponendo l'istituzione di un certificato d’origine controllata. Ma la certificazione è difficile e ci vuole l'aiuto dei Paesi dove i diamanti vengono puliti e tagliati, perché sanzionino chi viola le regole: Belgio, Israele. E India, dove sulla piazza di Bombay è sempre più massiccio il ricorso alla manodopera infantile. E poi business is business (gli affari sono affari): perché mai un tagliatore dovrebbe evitare di comprare a buon prezzo se non sa da dove vengono le pietre? Una volta tagliati i diamanti nascondono la loro origine anche ai più esperti. E i clienti? «In 20 anni, nessuno mi ha mai chiesto da dove fosse stato estratto il diamante che stava acquistando» ammette Ella Crotti, direttrice del prestigioso negozio Tiffany a Milano. Il problema comunque è sentito. Ieri, al vertice di Okinawa, Blair e Putin hanno proposto una conferenza su guerre e diamanti.

EMBARGO - L'Onu ha decretato l'embargo contro i diamanti dell’Unita nell’estate del 1998 e contro quelli della Sierra Leone un paio di settimane fa. Il primo, dopo due anni, è evidentemente fallito e il secondo, appena nato, già boccheggia. I ribelli, infatti, smerciano i diamanti attraverso la complicità del presidente della Liberia, Charles Taylor. Il suo Paese non possiede miniere importanti, ma negli ultimi tre anni ha triplicato l’export: ha «adottato» come sue le pietre sierraleonesi. Quando, all'Onu, Londra ha proposto l'embargo su entrambe le nazioni, si è trovata davanti all'opposizione degli Usa e della Francia. «Sierra Leone sì, Liberia no». Il commerciante di diamanti Maurice Templeman, grande amico dei Clinton e finanziatore del Partito democratico, è intimo di Taylor.

PROVENTI - A Freetown, nella casa del leader del Ruf, Foday Sankoh, è stato trovato un diario con le entrate: smisurate. Un esempio. I suoi uomini, il 9 gennaio 1999, a Kono, in piena guerra, hanno estratto 220 diamanti per un valore di 5 miliardi di lire.

IL MERCATO - Per pubblicizzare lo slogan «Un diamante è per sempre» la De Beers ha speso l’anno scorso 340 miliardi di lire. La società sudafricana (di proprietà della famiglia Oppenheimer) controlla oltre il 60% del mercato dei diamanti grezzi. La De Beers conosce bene le guerre africane. Per anni, durante il regine dell' apartheid ha finanziato, anche con mercenari, l'Unita contro il governo angolano.


IL RESPONSABILE ONU
«Le regole per non alimentare le guerre»
L'ambasciatore canadese all'Onu, Robert Fowler (che da settembre si sposterà in Italia), presiede il comitato del Consiglio di Sicurezza per monitorare l'embargo dell'Onu sui diamanti dell'Unita, la guerriglia anti-governativa in Angola. Ambasciatore, in un suo rapporto lei ha dimostrato come l'embargo sia violato in continuazione e che il mercato dei diamanti alimenti la guerra .
«E' per questo che dobbiamo sforzarci in tutti i modi di impedire che i diamanti illegali arrivino sul mercato. In questo l'impegno degli industriali dei diamanti per una certificazione di provenienza delle pietre va preso come un segnale positivo».
Ma senza l'aiuto delle legislazioni nazionali che sanzionino chi viola le regole è difficile che il sistema funzioni.
«La nostra è una sfida ai Paesi che tollerano il commercio illegale. Loro fanno parte del problema, ma possono anche rappresentarne la soluzione».
Come giudica le campagne perché i diamanti siano boicottati dai consumatori?
«Ci sono organizzazioni serie secondo cui il problema è riuscire a commerciare diamanti puliti. Io diffido da posizioni simili a quella presa da Brigitte Bardot sulle pellicce: in Canada nessuno compra più pellicce e la gente che lavorava in quel settore ha subìto un forte contraccolpo economico. Anche dietro i diamanti c'è un mondo di gente che opera onestamente. Dobbiamo tutelare anche loro».


«MA CONTROLLARE I TRAFFICI E' QUASI IMPOSSIBILE»
Charmian Gooch e Alex Yirfley sono, all’interno dell'organizzazione non governativa Global Witness (
www.globalwitness.org), i responsabili per l'identificazione, la certificazione e il controllo dei diamanti. Come giudicate il convegno dei produttori e commercianti di diamanti ad Anversa?
«Importantissimo, perché è il primo passo per una riforma seria che metta realmente al bando i diamanti illegali».
Ma credete che avrà qualche risultato pratico?
«Anversa è un punto di partenza, ma non basta assolutamente. Certo, da qualche parte si doveva pur cominciare: ora però abbiamo bisogno di superare le resistenze dei governi».
Il governo americano non ha voluto estendere l'embargo alla Liberia pur sapendo che i diamanti estratti dai ribelli della confinante Sierra Leone sono commercializzati proprio attraverso la Liberia. Non è questo un segnale negativo sulla possibilità di controllo dei flussi di diamanti?
«Certo, non è facile per alcuni governi accettare embarghi, sanzioni e certificazioni. Noi dobbiamo sensibilizzare l'opinione pubblica perché capisca che comprando diamanti illegali si finanzia la guerra. Così anche i Paesi restii ad accettare regole rigide dovranno ricredersi».
Secondo voi solo il 4% dei diamanti in circolazione è illegale?
«No, i diamanti "sporchi" commercializzati sono molti di più».
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SULLA VIA DEI DIAMANTI, DOLLARI E SANGUE (22 Luglio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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56050 Miniera di diamanti a cielo aperto in Sierra Leone (distretto minerario di Badija Cheefdome)

SULLA VIA DEI DIAMANTI, DOLLARI E SANGUE
KENEMA (Sierra Leone) - L'uomo spalanca la porta del polveroso bazar con piglio sicuro: «Signore, vuol comprare questi diamanti?», chiede al proprietario posando sul tavolo un pugno di gemme. Il commerciante libanese osserva una per una le pietre con il lentino, poi le scarta. «Non posso acquistarle, sono illegali», farfuglia scuotendo la testa e rivolgendomi un sorriso. E appena il cercatore è uscito aggiunge: «Adesso andrà a venderle a qualcun altro che se ne frega delle leggi. Magari qui, dietro l'angolo».
Il libanese sembra infastidito dalla mia presenza. Dopo l'embargo imposto dall'Onu ai diamanti illeciti della Sierra Leone, ufficialmente solo i cercatori autorizzati possono vendere le loro pietre. Ma i cercatori autorizzati sono pochi e il mercato si rifornisce regolarmente da chi non ha la licenza. Una regola cui, nonostante le apparenze, non sfugge neppure il mio provvisorio ospite, nel cui negozio passo un paio d'ore a chiacchierare di diamanti. Lui respinge la processione di gente che entra nel suo locale per vendere pietre. Il mio autista, però, mi tradurrà più tardi quello che sussurra a tutti in lingua mende: «Passate più tardi, quando quest'intruso se ne sarà andato».
Alla ventesima persona che entra a piazzar gemme e viene respinta, intervengo: «Posso comprarle io?». Sul volto del cercatore, che viene da uno sperduto villaggio, compare un sorriso marcato mentre scelgo la più grossa: 0,75 carati (un carato equivale a un quinto di grammo). La pago 70 dollari. Probabilmente se avessi trattato avrei potuto spuntare un prezzo migliore. L'uomo, raggiante per l'affare, incassa il denaro senza batter ciglio e senza alcuna paura, saluta e se ne va, lasciandomi la gemma. Lui non avrebbe potuto vendermela. Io non avrei potuto comprarla.
Se i diamanti potessero rendere ricchi e soddisfatti, gli africani sicuramente sarebbero i più invidiati al mondo e la Sierra Leone il Paese più fortunato di tutto il continente. Le sue riserve, infatti sono seconde solo a quelle dell'Angola, ma distribuite su un territorio enormemente più piccolo. Ma i diamanti non danno la felicità e lo sa proprio la gente della Sierra Leone la cui vita, da oltre 10 anni, è sconvolta da una guerra civile dove le atrocità non hanno fine. Nel Paese ci sono i diamanti, sì, ma anche i ribelli del Ruf (Revolutionary United Front) che per il controllo delle miniere ammazzano, stuprano, tagliano mani, gambe e teste. E con i proventi delle gemme finanziano la loro guerriglia insensata e crudele, acquistando armi.
Per spezzare questo perverso legame, il 5 luglio scorso l'Onu ha decretato un embargo di 18 mesi sui diamanti estratti nelle zone controllate dal Ruf. Occorre «strangolare» la guerriglia, privandola delle sue fonti di finanziamento, è stata la motivazione. Il mondo del business legato ai diamanti ha accolto con favore la decisione del Consiglio di Sicurezza. A metà luglio i commercianti del settore, riuniti nel loro congresso mondiale ad Anversa, nella sede dell'«Alto Consiglio dei diamanti», hanno approvato all'unanimità una mozione che mette al bando i diamanti provenienti dalle zone di guerra: «Chi li tratta verrà espulso dalla Borsa mondiale dei diamanti», hanno solennemente promesso, preoccupati dalla possibilità di un boicottaggio delle gemme minacciato da parte di alcune battagliere organizzazioni non governative sensibili alla perversa relazione diamanti-guerra.
«Signore vuol comprare questi diamanti?». Stavolta la scena si svolge ad Anversa in uno degli uffici della Hovenierstraat, quella stessa esclusiva strada (una prestigiosa isola pedonale i cui palazzi ospitano le sedi delle miriadi di società che comprano e vendono le preziose pietre) dove si trova il quartier generale dell'Alto Consiglio dei Diamanti e della Borsa Mondiale. Il venditore stavolta sono io e poiché non esiste alcun controllo e, una volta tagliata, è praticamente impossibile stabilire la provenienza di una pietra, non faccio alcuna fatica a vendere quelle acquistate in Sierra Leone. La fatica è quella di frenare gli appetiti: «Scusi, ma lei ha solo questa partita? Perché non me ne porta altre?». «Queste sono senza certificato di nascita, vengono dalla Sierra Leone», obietto timido e preoccupato. La risposta è ovunque, in ogni ufficio, sorridente e monotona: «Ma qui chi vuole che le guardi le carte! Gli affari sono affari! Le sue pietre sono belle e questo è ciò che conta. Lei porti, porti, porti».
Il massimo del successo le gemme del Corriere lo trovano in un negozio della Pelikaanstraat, la via dove le sfavillanti vetrine degli orefici si susseguono una via l'altra. Lì la signora Tamara, che vende ma non se ne intende di preziosi, le descrive per telefono al figlio esperto, il quale ordina senza volerle vedere: «Compra immediatamente».
Si trattava di due diamanti grezzi. Il primo, come già detto, comprato per 70 dollari direttamente dal cercatore, pesava 0,75 carati e non era di qualità elevata. Il secondo (1,07 carati) era, invece, purissimo e giudicato di qualità ottima. Costato 250 dollari è stato rivenduto a 500. Da notare che molti possibili acquirenti si sono accorti di avere di fronte un venditore «dilettante» e hanno offerto molto meno. Solo alla fine, quando ho capito il vero valore, ho chiesto il giusto compenso.
Il mercato dei diamanti non è libero. Da più di un secolo il gigante privato sudafricano De Beers, di proprietà della famiglia Oppenheimer, controlla l'85% delle pietre grezze estratte ovunque nel mondo. I suoi emissari sono presenti dappertutto e per anni hanno operato con una certa spregiudicatezza. I forzieri della De Beers sono stracolmi di gemme (valutate a 3 miliardi di dollari) che vengono immesse sul mercato nel momento in cui la domanda sale. La loro vendita viene ridotta quando la domanda scende. Un banale «trucco» economico che consente di tenere sempre alti i prezzi di una pietra tutto sommato abbastanza comune e comunque molto meno rara dello smeraldo, del rubino, del topazio. Ultimamente la De Beers ha annunciato di volersi disfare di una parte dei suoi stock ma non può farlo senza le dovute misure per non far crollare i prezzi. Per questo occorre che la richiesta lieviti. Da qui le varie e martellanti campagne pubblicitarie, volte a stimolare l'appetito dei consumatori, cominciate con il celebre slogan. «Un diamante è per sempre».
Negli Stati Uniti, per anni, la De Beers non ha potuto operare a causa delle leggi antitrust e ha dovuto subire la concorrenza di Maurice Templesman e della sua Lazare Kaplan. Indicato con reverenza solo con le iniziali, M.T., ultimo accompagnatore di Jaqueline Kennedy-Onassis, grande amico dei Clinton (era l'unico businessman presente sull'aereo presidenziale durante il tour in Africa del marzo 1998) e di Madeleine Albright (in Africa corre una voce maliziosa che lo vuole addirittura come suo fidanzato), finanziatore del partito democratico, Templesman è riuscito a crearsi una sua nicchia mettendo a segno ai primi di luglio un bel colpo ad alto livello sul piano politico.
Secondo la stampa americana, attraverso forti pressioni sul Dipartimento di Stato, è riuscito a bloccare quella parte della risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevedeva l'embargo anche per i diamanti provenienti dalla Liberia, dalla Guinea e dal Burkina Faso, come chiedeva la Gran Bretagna. Così le sanzioni sono state limitate alla Sierra Leone, pur essendo chiaro a tutti che il commercio illegale passa soprattutto attraverso questi tre Paesi (Guinea e Liberia confinano con l'ex colonia britannica). Templesman è un amico personale del presidente liberiano Charles Taylor, nume tutelare dei ribelli del Ruf della Sierra Leone e riciclatore dei loro diamanti.
Sul campo a contrastare i guerriglieri ci prova il boccheggiante esercito governativo del presidente Ahmed Tejan Kabbah, tenuto in vita da 13 mila soldati dell'Onu e da una pattuglia di unità scelte britanniche. Il Ruf controlla quasi tutte le zone diamantifere del Paese (a cominciare dagli immensi giacimenti alluvionali di Kono e di Tongo Fields) e con i proventi delle gemme compra armi e paga i suoi uomini. Per vendere le pietre preziose il Ruf si serve del suo alleato principe, Charles Taylor, appunto, che le riceve e le gira agli opulenti mercati occidentali di Anversa e Tel Aviv, dove i diamanti vengono tagliati. Taylor, a sua volta, è accusato di pagare con armi i suoi alleati, i quali così continuano la guerra. Un circolo vizioso che ha reso furiose le organizzazioni per la tutela dei diritti dell'uomo ma non ha impedito alla signora Albright di giustificare così il veto americano contro l'embargo dei diamanti liberiani: «Charles Taylor è un buon presidente che stabilizza l'intera regione».
Dalle misere capanne di terra e fango sperdute nella giungla africana alle gioiellerie più eleganti il percorso dei diamanti è difficile da individuare. E' un viaggio che comincia nei villaggi poverissimi dove i morsi della fame si mescolano con il terrore provocato dalla guerra e con i sogni di un improbabile arricchimento rapido e consistente. In Sierra Leone i diamanti sono la ragione stessa della vita, perfino la squadra di calcio della capitale, Freetown, è dedicata a loro: Diamond Star. Una volta ribellioni e sommosse innalzavano la bandiera della democrazia, della libertà, della giustizia. Con il muro di Berlino è caduta anche questa ipocrisia: non si lotta più per la politica ma per il denaro, il potere, la ricchezza che qui, in Sierra Leone, vuol dire diamanti.
Il leader storico del Ruf, Foday Sankoh, è stato arrestato l'8 maggio. Nella sua villa a Freetown è stata trovata una contabilità sconcertante: due quaderni da scuola elementare (con in copertina lo slogan «Pace. Dio benedica il nostro maestro» a caratteri cubitali) con annotate tutte le operazioni diamantifere compiute dal Ruf. Le fotocopie dei due quaderni, di cui il Corriere è venuto in possesso, mostrano cifre impressionanti: in un sol giorno, il 9 gennaio 1999, mentre a Freetown infuria una violenta battaglia e i giornali di tutto il mondo stampano le fotografie di ragazzini con braccia a gambe amputate a colpi di machete dai guerriglieri, Sankoh annota l'entrata di 220 diamanti il cui valore, sul mercato locale, assomma a 2,5 milioni di dollari (oltre 5 miliardi di lire). Tra il 30 ottobre 1998 e l'11 gennaio 2000 il Ruf entra in possesso di 10.137 pietre, vendute poi sul mercato illegale.
«Sicuramente hanno comprato armi - afferma con sicurezza il portavoce del ministero delle miniere, Saidu Abassi Sanu - altrimenti come avrebbero potuto continuare la guerra?». L'embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu prevede che ogni diamante esportato dalla Sierra Leone debba avere un certificato di origine emesso dal governo. Così si tenta di bloccare il mercato delle pietre raccolte nelle zone controllate dai ribelli. Un'impresa improba. I certificati non sono ancora pronti e le autorità non possono quindi garantire un bel niente. Eppure esportazione e commercio continuano. Sembra di risentire la voce che in un ufficio di Anversa ripeteva: «Gli affari sono affari. Cosa vuole, che a qualcuno importi delle carte?».
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AFRICA, TRAFFICI D'ARMI E DIAMANTI
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Massimo A. Alberizzi
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56050 Miniera di diamanti a cielo aperto in Sierra Leone (distretto minerario di Badija Cheefdome)

AFRICA, TRAFFICI D'ARMI E DIAMANTI
Rapporto dell’Onu accusa un ucraino agli arresti in Italia

L'ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul traffico d'armi e di diamanti lo dipinge come uno degli organizzatori del commercio di morte. Lui, cittadino ucraino con passaporto israeliano e residenza in Liberia, passa il tempo agli arresti domiciliari alle porte di Milano. Leonid Minin, trovato in una stanza dell'albergo Europa di Cinisello Balsamo con quattro prostitute e una ventina di grammi di cocaina, è stato condannato a due anni ma, dietro quel reato (possesso di droga), tutto sommato banale per uno come lui, secondo l’Onu si cela un fomentatore di guerre e guerriglie in Africa, uno speculatore che non esita a vendere armi e a ricevere in cambio diamanti sporchi di sangue. Il rapporto, redatto da ricercatori guidati da Johan Peleman, è preciso. «Minin - spiega Peleman - è un amico del presidente liberiano Charles Taylor, alleato dei ribelli del Ruf ( Revolutionary United Front ), che, in Sierra Leone, controllano i giacimenti di diamanti. Ben noto alle polizie di parecchi paesi europei, non potrebbe entrare nell'area Schengen: invece ha viaggiato spesso, anche in Italia. E' accusato di mafia, riciclaggio di denaro sporco, contrabbando di arte russa, possesso di armi». Oltre al passaporto con il suo vero nome, ne usa altri con vari pseudonimi: Vladimir Polilewsky, Brelav Wulf, Vladimir Popol. Tarchiato, capelli arruffati e aspetto trasandato, non ha l'aria del riccone. Eppure al momento dell'arresto, spiega Africa Confidential , aveva con sé diamanti per un valore superiore al miliardo.
Secondo il rapporto di Peleman, un aereo di proprietà della Limad, una delle società di Minin, un BAC-111 è stato utilizzato in diverse occasioni per trasportare armi dal Burkina Faso alla Liberia, Paese per il quale dal 1992 vige un embargo delle Nazioni Unite. L'8 marzo 1999 il jet vola da Ibiza a Robertsville, in Liberia. Il 13 marzo un carico di 68 tonnellate di armi (comprese 715 scatole di pistole e cartucce, 408 di esplosivo, razzi controcarro, missili, granate e lanciagranate) arriva a Ouagadougu, in Burkina Faso, da Burgas, in Bulgaria. Il 16 marzo l'aereo di Minin, giunto il giorno prima dalla Liberia, viene stipato di armi e torna in Liberia.
Il rapporto parla di altri carichi d’armi, da Kiev, attraverso Costa d’Avorio e Liberia, finiti al Ruf. Quello, per intenderci, famoso per le atrocità commesse contro la popolazione civile: amputazioni di braccia e gambe, taglio di nasi e orecchie, stupri e omicidi di massa.
Secondo l’Onu, Minin non si limita a trafficare in armi. Gestisce un’ingente quantità di denaro di provenienza dubbia, che investe, tra l’altro, nell'industria del legno pregiato attraverso la Exotic and Tropical Timber Enterprise, la Forum Liberia del chiacchierato imprenditore spagnolo Jesus Fernandez Prada, e la Oriental Timber Company, indonesiana. L’ucraino-israel-liberiano è ben conosciuto dalla polizia italiana. Un circostanziato rapporto dello Sco (il servizio centrale della polizia) lo dipinge come «il supremo leader delle attività criminali» organizzate dalla mafia ucraina in Europa e in Italia. La ragnatela del malaffare descritta dal rapporto è inquietante. Tra gli altri vien citato Victor Bout, ex ufficiale del Kgb, che trasferisce armi dagli arsenali ex sovietici all'Angola, al Congo, oltre che alla Liberia e alla Sierra Leone, e il sudafricano Fred Rindel, organizzatore di mercenari. La conclusione che si evince dalla lettura delle 59 pagine è amara: l’embargo dell’Onu sulle armi e sui diamanti insanguinati è rimasto, nei fatti, lettera morta.
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ERITREA - ETIOPIA, RIPRENDE LA STRAGE (13 Maggio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54296 Truppe Eritree sul fronte di Zalambessa

Fallite le mediazioni, da ieri le artiglierie di Addis Abeba martellano il confine nemico

Lungo tutta la frontiera sono schierati oltre 600 mila soldati
Tutti se lo aspettavano, ma nessuno voleva crederci. Così la guerra tra Etiopia ed Eritrea è riscoppiata, violenta e cruenta, ieri all'alba e, secondo gli osservatori, non finirà tanto presto. A differenza del 6 maggio 1998, quando furono gli eritrei ad attaccare per primi, questa volta sono stati gli etiopi a prendere l'iniziativa, martellando con l'artiglieria il fronte di Bademme e di Zalambessa. Zalambessa, ormai ridotta a un cumulo di macerie, è il pomo della discordia. Territorio etiopico fino a poco più di due anni fa, era stato catturato dalle truppe di Asmara. Con l'offensiva del giugno dell'anno scorso Addis Abeba aveva ripreso altre zone cadute in mani nemiche, ma non Zalambessa.
La sua sorte è stata al centro delle attività diplomatiche prima dell'Oua (Organizzazione per l’Unità Africana) e poi dell'Onu, conclusesi, con un fallimento, mercoledì scorso. Gli eritrei avevano accettato di lasciarla, ma in mani internazionali. Si erano rifiutati di farvi tornare gli etiopi che, invece, a loro volta, pretendevano di rientrare in possesso di tutti i territori loro sottratti. Una rigidezza, da entrambe le parti, che costerà cara. D'altro canto il primo ministro etiopico, Melles Zenawi, aveva più volte ammonito che se la comunità internazionale non fosse riuscita a far ritirare pacificamente gli eritrei, ristabilendo lo status quo di prima della guerra, come previsto dal piano di pace dell'Oua, avrebbe dato battaglia. E così è stato.
Stavolta è difficile parlare di un vero e proprio fronte: i combattimenti sono generalizzati e ricordano da vicino quelli tragici che hanno mietuto tante giovani vite durante la prima guerra mondiale. Lungo tutta la frontiera tra i due Paesi sono schierati più di 600 mila soldati. Ieri, comunque, le artiglierie si sono scatenate in particolar modo a Bure, a 60 chilometri da Assab, sulla strada che porta ad Addis Abeba; naturalmente a Zalambessa, 25 chilometri a nord dell'importante città etiopica di Adigrat; a Bademme, dove la frontiera tra i due Paesi disegna un triangolo; e a Om Ager, posto di confine vicinissimo al Sudan. Secondo informazioni che non è stato possibile controllare, in questo punto la difesa eritrea sarebbe stata sfondata.
Sono mesi che i due Paesi si preparano alla guerra. Entrambi hanno comprato enormi quantitativi di armi e hanno rafforzato la loro aeronautica. Il materiale è arrivato soprattutto dall’Est Europa.
Tra i due contendenti, oltre alle tremende valanghe di bombe, sono fioccate le usuali bordate di accuse reciproche, con il solito refrain: «Il nostro nemico - hanno dichiarato in pratica l'uno e l'altro - sta sfidando la comunità internazionale per non aver accettato il piano di pace dell'Oua». In realtà il piano l'hanno accettato entrambi, solo che entrambi lo hanno interpretato a modo loro. Così la mediazione internazionale è «saltata» su questioni di principio. Neanche Richard Holbrook, il negoziatore dell’Onu, è riuscito a smussarle. Al segretario, Kofi Annan, non è restato altro da fare che lanciare un appello perché prevalga la ragionevolezza: «La ripresa delle ostilità renderà ancora più difficile la già gravissima situazione umanitaria di quanti, nei due i Paesi, rischiano di morire di fame».
Rino Serri, sottosegretario italiano agli Esteri e da mesi incaricato dall'Ue di tentare una mediazione tra le parti, ha cercato inutilmente di bloccare le ostilità. «Questa volta il conflitto può diventare drammatico, ma non ho rinunciato a tentare una soluzione negoziata». Ma le prospettive di un immediato cessate il fuoco sembrano molto lontane. La ripresa della guerra non è solo uno scacco per la diplomazia internazionale, lo è anche per le popolazioni eritrea ed etiopica che, comunque andranno a finire le cose, perderanno entrambe.
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CARNEFICINA NEL CORNO D' AFRICA (15 Maggio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54075 Prigionieri di guerra etiopi nel campo eritreo di Dikdiktah

Gli etiopi sono penetrati in territorio eritreo: centinaia di morti e migliaia di feriti

Furiosi combattimenti corpo a corpo per la conquista dei villaggi di confine. Addis Abeba punta a ottenere una rapida vittoria di fronte al mondo. Gli americani evacuano la loro ambasciata all’Asmara
Centinaia di morti, migliaia di feriti. La situazione al fronte tra Etiopia ed Eritrea viene dipinta come una carneficina paragonabile solo a quella della Prima guerra mondiale. Sembra certo che gli etiopi, dopo furibondi combattimenti corpo a corpo, siano penetrati in territorio nemico, ma non si sa di quanto. E non si conosce neppure il prezzo pagato in vite umane. Certamente è altissimo.
Gli scontri più feroci sono avvenuti per la conquista del villaggio di Shambuccò, nel vertice settentrionale del triangolo di Yrga, dove appunto il confine tra i due Paesi è squadrato da una linea retta. Gli etiopi parlano di sfondamento. Più probabilmente hanno sì sfondato, ma solo la prima linea di difesa, quella più debole. Gli eritrei ne hanno organizzate tre, intervallate da campi minati, l'ultima delle quali corazzata e solidissima. Nella loro avanzata i soldati di Addis Abeba avrebbero fatto uso dei carri armati comprati nei mesi scorsi dai Paesi dell'Est europeo.
Secondo fonti contattate ad Asmara le truppe di Addis Abeba avrebbero interrotto la strada che collega Barentu a Mendefera. Un testimone, raggiunto all'ospedale di Mendefera, ha parlato di centinaia di feriti che affollano le corsie. Materassi e giacigli di fortuna sono stati messi anche in giardino. Nulla si sa delle perdite etiopiche, ma devono essere anch'esse molto elevate. Proprio in previsione di un alto numero di feriti nelle scorse settimane il governo di Addis Abeba aveva requisito centinaia di container che erano stati trasformati in piccole stanzette d'ospedale e quindi trasferiti al fronte.
La situazione appare confusa e fluida. E' difficilissimo ottenere informazioni imparziali e di prima mano. Questa guerra avviene lontano dalle telecamere e dagli obiettivi dei fotografi. I giornalisti, infatti, non sono stati autorizzati a raggiungere il fronte. Nei bollettini ufficiali gli etiopi usano toni trionfalistici, gli eritrei sono più cauti. Hanno tutti qualcosa in comune: contengono bilanci chiaramente esagerati e, francamente, assurdi. Addis Abeba sostiene di aver annientato otto divisioni nemiche, per un totale di 60 mila uomini; Asmara parla di 25 mila soldati rivali ammazzati o feriti.
Ieri la Bbc ha citato fonti militari non identificate che ad Asmara hanno ammesso la perdita di posizioni strategicamente importanti. «Agli eritrei interessa soprattutto salvare vite umane — fa osservare un diplomatico —. La loro ritirata potrebbe far parte di una strategia mirata. In fondo hanno ancora due linee di difesa». «Se gli etiopi dovessero aver tagliato veramente la strada Mandefera-Barentu — spiega un altro diplomatico — sarebbe un grosso guaio per gli eritrei che vedrebbero così interrotti i collegamenti tra le loro difese occidentali, a Bademme e sui fiumi Mereb e Tekenzie, e quelle centrali, schierate a Zalambessa e dintorni». Zalambessa, è bene ricordarlo, è la città che fino al maggio 1998 era sotto amministrazione etiopica. Passò poi sotto quella eritrea dopo l'inizio delle ostilità.
La macchina della guerra sembra comunque molto difficile da fermare. Più volte nei giorni scorsi i dirigenti etiopici hanno minacciato l'uso della forza per riprendere i territori occupati dagli eritrei se gli sforzi diplomatici per ottenere un ritiro pacifico fossero falliti. E ieri il primo ministro Melles Zenawi (l'uomo forte del Paese) non ha risparmiato forti critiche a Stati Uniti e Gran Bretagna perché nelle mozioni del Consiglio di sicurezza non si fa mai riferimento all'aggressione armata di cui, a suo parere, sarebbe stata vittima l'Etiopia nel maggio 1998. Ma, secondo il portavoce del governo eritreo, Yamane Gebre Maskel, nell’attuale battaglia le truppe di Addis Abeba sarebbero andate ben oltre l'obiettivo dichiarato, attaccando postazioni ben più in profondità rispetto al territorio di confine oggetto di reciproca rivendicazione.
Altro segnale inquietante viene dal Dipartimento di Stato Usa, che ha ordinato l'evacuazione di tutto il personale non indispensabile dall'ambasciata americana ad Asmara.
Addis Abeba vuol mostrare al mondo che è certa della vittoria e la guerra è solo un intralcio sulla strada della democrazia. Ieri in tutto il Paese si è votato per il rinnovo dei 548 seggi del Parlamento. Sono le seconde elezioni generali nella storia del Paese. Le prime si sono svolte nel 1995. Le operazioni sono state regolari e si è recato alle urne il 90 per cento degli aventi diritto. Sono stati segnalati incidenti, con otto morti, e intimidazioni all’opposizione. Non ci sono osservatori internazionali e il Consiglio etiopico dei diritti umani, un’organizzazione indipendente che ha monitorato il processo elettorale, ieri ha fatto sapere che è troppo presto per poter dire se ci sono stati abusi.
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GLI ETIOPI SFONDANO LE DIFESE ERITREE (16 Maggio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54285 Eritrea, Fronte centrale di Zalambessa

Ritirata caotica delle truppe di Asmara, migliaia di profughi verso il Sudan

Manifestazioni ad Addis Abeba contro l’Onu e gli occidentali, che per cercare di fermare la guerra minacciano sanzioni. Nei disordini sono stati coinvolti anche tre residenti italiani
Le ondate di attacco etiopico sul fronte occidentale hanno fatto breccia nelle difese eritree, e stanno provocando anche centinaia di morti e feriti. La notizia che quattro divisioni di Asmara sarebbero allo sbando sarebbe confermata da rilevazioni satellitari americane. Si parla di una ritirata estremamente caotica. Il condizionale è comunque d'obbligo. Non esiste infatti alcuna conferma indipendente sul campo. L'unica testimonianza è di un giornalista della Bbc portato da un elicottero militare oltre il fiume Mareb, che segna il confine tra i due Paesi. Il velivolo è penetrato per parecchi chilometri nello spazio aereo eritreo, ma non per i 20-30 rivendicati da Addis Abeba.
Una dimostrazione indiretta che i combattimenti siano furiosi viene dalla massa di profughi che si sta riversando in Sudan, nella zona di Kassala. «La situazione è drammatica. Non sappiamo come accogliere i rifugiati che scappano dall'Eritrea. In quattro giorni sono già 10 mila», ha detto una fonte governativa contattata a Khartoum. In Sudan non arriverebbero solo civili, ma anche militari armati che avrebbero portato con sé perfino pezzi d'artiglieria: «Li abbiamo disarmati e accolti come profughi civili».
L'obbiettivo delle truppe di Addis Abeba è chiaro: interrompere la strada Mendefera-Barentu e spezzare le difese eritree. Un obbiettivo che, secondo alcune fonti indipendenti, sembrerebbe raggiunto. Infatti, dopo essersi assicurati che le truppe nemiche a difesa del fronte occidentale non possono spostarsi per andare in soccorso di quelle più a occidente, gli etiopi ieri hanno attaccato anche sul fronte centrale, a Zalambessa. Cannonate sono piombate anche sulla città etiopica di Adigrat, a una ventina di chilometri dai combattimenti. Ma gli etiopi non sembra intendano fermarsi qui. Cercherebbero di impadronirsi di una grande città eritrea, Barentu o la stessa Mendefera, per esercitare una forte pressione psicologica. Mendefera, in particolare, avrebbe una funzione simbolica. Il suo vecchio nome era Adi Ugri, quello nuovo vuol dire «Posto d'avanguardia» in lingua tigrigna. Una volta catturati uno o due obbiettivi di questo tipo, Addis Abeba imporrebbe le sue condizioni per la pace da una posizione di forza. Naturalmente questo scenario, oltre ad essere solo una delle ipotesi formulate dagli osservatori, è anche tutto da realizzare. Vincere una battaglia non è vincere una guerra e ora ci si attende la reazione rabbiosa degli eritrei.
Asmara ha mobilitato i riservisti e richiamato alle armi tutte le persone abili. Ieri sera nella capitale la tensione in città era altissima. Il portavoce eritreo, Yemane Gebre Meskel, ha comunicato che la contraerea del suo Paese ha abbattuto un caccia Sukoi 27 e un elicottero MI 24. L’MI 24, secondo Addis Abeba, è stato colpito, ma è atterrato in territorio amico.
Nella capitale etiopica in mattinata il governo ha organizzato una manifestazione contro l'Onu per il minacciato embargo contro le armi proposto contro i due belligeranti. Duecentomila persone sono scese in piazza gridando slogan e con cartelli di protesta, uno dei quali ricordava le sanzioni decretate dalla comunità internazionale al tempo di Mussolini: «L'Onu non faccia come la Società delle Nazioni». Alcuni giornalisti occidentali sono stati malmenati e tre italiani che passavano nelle strade invase dalla gente, tra cui il secondo della Cooperazione italiana Marco Plazza, hanno avuto l’auto bastonata.
Ieri a tarda sera il Consiglio di Sicurezza si è riunito per discutere le misure da prendere nei confronti dei due avversari: embargo sulle armi e sanzioni diplomatiche. Le prime, che sembravano ormai inutili (i contendenti nei mesi scorsi hanno acquistato tutto il possibile), dopo 4 giorni di guerra potrebbero avere un qualche effetto. Sono stati sparati tanti di quei colpi che la «santabarbara» potrebbe anche esaurirsi in breve tempo.

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LA LOBBY DEI CANNONI SOFFIA SULLA GUERRA (17 Maggio 2000)
Massimo A. Alberizzi
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54313 Militare eritreo sul fronte di Tsorona

Etiopia-Eritrea, continua la strage. E la Russia si oppone all’embargo delle armi

Mentre al fronte continua la mattanza, gli sforzi diplomatici per bloccare la guerra tra Etiopia ed Eritrea non sembrano approdare a nulla. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno esercitato pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu per far approvare una mozione che prevede un embargo sulle vendite di armi ai due Paesi in guerra. Il documento, inoltre, prevede una punizione supplementare per l'Etiopia, rea di aver ripreso le ostilità venerdì scorso: se fosse approvata vieterebbe ai suoi dirigenti i viaggi all'estero.
Il voto è previsto per oggi ma la Russia ha già fatto sapere che si opporrà. Mosca, uno dei maggiori fornitori di armi ai due belligeranti, propone un altro documento molto più annacquato: un appello generico a cessare immediatamente le ostilità e a tornare al tavolo delle trattative sotto l'ombrello dell'Oua (l'Organizzazione per l'Unità Africana). Anche Cina e Francia sembrano orientate contro l’embargo (Parigi ha in ballo una fornitura di radar e di radio buoni in tempo di bace e ottimi in caso di guerra). Nel Consiglio di sicurezza siede in questo momento anche l’Ucraina, Paese che si distingue per essere il maggior fornitore d’armi a tutta l’Africa.
Sia gli eritrei sia gli etipopici, hanno inviato al presidente di turno del Consiglio di sicurezza, il cinese Wang Yinfang, una lettera. Il ministro degli Esteri di Asmara, Haile Weldensae, ha chiesto un cessate il fuoco immediato e l'apertura di negoziati senza condizioni. I suo omologo di Addis Abeba, Seyoum Mesfin, ha proposto colloqui indiretti per arrivare a un cessate il fuoco e ad una pace stabile. «Cominceremo dal punto che abbiamo lasciato in sospeso il 5 maggio scorso ad Algeri, quando i negoziati si interruppero», ha detto il ministro.
In questi casi chi perde è più malleabile, chi vince più rigido. Così nel 1998 erano gli eritrei a essere più intransigenti. Oggi lo sono gli etiopi. I diplomatici non nascondono la loro delusione mentre dal campo arrivano bollettini spaventosi, illustrati macabramente dalle riprese televisive. Ieri la Bbc ha mandato in onda immagini raccapriccianti. Trincee piene di cadaveri, decine di soldati eritrei feriti e fatti prigionieri dagli etiopi, batterie di cannoni al lavoro. Ovunque devastazione e morte.
Nella loro avanzata in territorio eritreo, gli etiopi non sembrano volersi arrestare e ora minacciano la città di Barentù. Secondo fonti dell'intelligence americana, le rilevazioni fatte dai satelliti mostrano che le truppe di Addis Abeba sono giunte a 5-6 chilometri dalla città e si sono attestate sulle colline circostanti, da cui cannoneggiano la periferia. Non esiste conferma giornalistica indipendente, ma, se fosse vero, ciò significherebbe che i soldati di Addis Abeba sono penetrati in territorio eritreo per una cinquantina di chilometri. La popolazione di Barentù è scappata (secondo alcuni) o è stata evacuata dalla autorità (secondo altri) e si è rifugiata più a nord, ad Agordat. La pressione etiopica sul fronte occidentale non si è arrestata qui. Colonne militari procedono verso est e sarebbero giunte a Areza (ancora presidiata dagli eritrei), a 25 chilometri da Mendefera. Quest’importante snodo è situato a 2500 metri di quota e per raggiungerlo gli etiopi devono procedere in salita e allo scoperto con conseguente rischio di un possibile annientamento.
Lunedì sera ad Asmara sono state convocate assemblee di cittadini ai quali è stato spiegato l'andamento della guerra. È stata ammessa la perdita di alcune località strategiche. L'avanzata nemica oltre le prime linee eritree è stata descritta come una ritirata strategica, quasi per attirare il nemico in una trappola.
A conferma di questa interpretazione dei fatti un comunicato parla di un'ingente colonna etiopica penetrata in territorio eritreo (10 mila uomini) circondata dalle truppe di Asmara che sono pronte ad annientarla. Ma nella capitale ieri il clima è stato definito «plumbeo». I dirigenti hanno espresso commenti ottimisti ma nello stesso tempo si sono rifiutati di dare giudizi sulla situazione.
Voci che non è stato possibile controllare sostengono che Asmara avrebbe deciso uno spostamento di truppe dal fronte orientale (quello di Assab) a quello centrale. I soldati sarebbero stati imbarcati ieri e starebbero per raggiungere Massaua via mare. Un rischio altissimo. Sinora sul fronte centrale (quello di Zalambessa che ieri, a parte alcune cannonate, è rimasto calmo) e su quello orientale c'è stato un sostanziale equilibrio di forze. Se gli eritrei dovessero muovere alcune divisioni per inviarle a difendere Mendefera, sguarnirebbero altre aree del fronte dove gli etiopi potrebbero tentare di sfondare.
Gli osservatori, comunque, si aspettano una mossa a sorpresa di Asmara, un asso nella manica che possa ribaltare la situazione. Chi conosce il leader eritreo, Isayas Afeworki, sa che i vent'anni di guerriglia l'hanno fatto diventare uno scaltro politico e un abile stratega. Erano settimane che gli etiopi e il loro leader, Melles Zenawi, minacciavano una guerra totale, nel caso di fallimento degli accordi di Algeri e del mancato ritiro degli eritrei dalle posizioni conquistate nel maggio 1998. E tutti i canali diplomatici avevano attivato l’allarme rosso segnalando già dal gennaio scorso un riarmo a tutto campo delle truppe di Addis Abeba. Possibile che ad Algeri il presidente dell’Eritrea non abbia compreso che sarebbe stato meglio ordinare il ritiro dei suoi uomini piuttosto che affrontare una guerra così devastante?





UN MILIONE DI CIVILI ERITREI SFOLLATI (19 Maggio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54011 Asmara, manifestazione per la pace

Dopo il crollo del fronte Asmara chiede aiuto. Servono cibo e contenitori per l’acqua
Il bottino dei soldati di Addis Abeba nei villaggi abbandonati: bottiglie di birra, qualche scialle>


Migliaia di profughi eritrei si sono messi in marcia per cercare di sottrarsi all'avanzata delle truppe etiopiche. La città di Barentu, a una sessantina di chilometri a nord del confine, è stata evacuata e catturata dagli uomini di Addis Abeba senza colpo ferire. Le autorità eritree hanno deciso di abbandonare anche Agordat, sulla camionale per Asmara, e di attestarsi a Keren, ultimo baluardo prima della capitale. Il risultato è stato un esodo biblico dal bassopiano. La gente, sorpresa dal crollo delle linee amiche, raccolte le sue povere cose, cerca di scappare come e dove può. Nessuno si aspettava un cedimento così rapido dell'esercito eritreo, considerato uno dei più agguerriti e preparati di tutta l'Africa.
La situazione sembra davvero disperata e il governo del giovane Stato ha lanciato un appello ai Paesi donatori perché intervengano a favore dei civili: «Abbiamo bisogno di cibo secco (la gente non può cucinare), di contenitori per l'acqua con relativi potabilizzatori e di kit sanitari», hanno detto ieri i responsabili dell'Eritrean Relief and Refugee Commission, incaricata dell'assistenza alla popolazione civile a una riunione di diplomatici. Il numero di sfollati, hanno detto le autorità di Asmara, ha raggiunto quota un milione. La cifra sembra arrotondata per eccesso se si pensa che tutta la popolazione eritrea è stimata a meno di 4 milioni. E' pur vero, comunque, che le ostilità dello scorso anno avevano provocato almeno 250 mila rifugiati, sistemati in campi proprio tra Barentu e Agordat. La situazione, comunque, deve essere considerata veramente drammatica se, per la prima volta dalla storia del Paese, i dirigenti hanno chiesto aiuti senza porre alcuna condizione. Nessuno ha preteso che il cibo venisse comprato in loco o è intervenuto per definire rigide priorità nei bisogni, cose che accadevano regolarmente. «Mandate tutto ciò che potete — è stato detto — ma fate presto. Per favore non metteteci più di 36-48 ore».
Un reporter dell’agenzia inglese Reuter ha visitato i villaggi conquistati dai soldati etiopici: «Il loro bottino è misero — ha raccontato —. Qualche bottiglia di birra, qualche scialle abbandonato. Ma il loro morale è alto. Si sentono nel giusto: "Vendichiamo il nostro Paese aggredito", hanno detto».
La strategia dello Stato Maggiore etiopico appare chiara. Dopo aver sfondato sul fronte occidentale sta consolidando le posizioni. Le testa di ponte penetrata in Eritrea dal triangolo di Bademme, attraversando il fiume Mereb, si è divisa in due. Una parte si è diretta a sinistra, verso Barentu occupandola, una seconda a destra attestandosi a una trentina di chilometri da Mendefera (la vecchia Adi Ugri). Gli eritrei sono costretti a difendere sia Keren che Mendefera («Ci aspettiamo una resistenza forsennata», ha detto una fonte etiopica). Ormai hanno mobilitato quanta più gente possibile e, secondo alcune fonti, stanno considerando l'ipotesi di sguarnire il fronte orientale (quello a difesa di Assab) per trasferire le truppe a difesa di Asmara. Una mossa molto rischiosa che potrebbe indurre gli etiopi, la cui superiorità aerea è indiscutibile, ad attaccare proprio a est, dove la frontiera dista dal mare non più di 70 chilometri.
La strategia eritrea invece sembra quella adottata dagli italiani nel 1941, quando, sotto la pressione degli inglesi penetrati in Eritrea dal confine con il Sudan, si ritirarono a Keren e resistettero per ben 45 giorni. Tutti si augurano comunque che le forze etiopiche si fermino prima di arrivare a Keren, anche se molti sono preoccupati per quello che può accadere a Mendefera. Un'eventuale battaglia per la conquista della città (che gli eritrei non possono evacuare, perché sbarra la strada che dal sud raggiunge Asmara) comporterebbe sicuramente una carneficina.
L'Onu sembra del tutto impotente rispetto alla guerra: ieri notte, dopo un faticoso compromesso, il Consiglio di sicurezza ha votato un embargo sulle armi della durata di un anno. Il documento non ha alcun significato pratico (un divieto di compra-vendita di armi si può aggirare facilmente) e nessun senso politico, essendo equidistante tra le parti. Infatti ha scontentato tutti con la stessa motivazione: mette sullo stesso piano gli aggrediti e gli aggressori. L’Etiopia si sente aggredita dall’Eritrea per l’attacco con i carri armati subito nel maggio 1998, l’Eritrea dall’attuale invasione dell’ex alleato e ora acerrimo nemico.
Nessuno sa chi e cosa potrà fermare la guerra, la prima vera guerra tradizionale che si combatte in Africa dal 1945.




ERITREA, TUTTI SCAPPANO DALLA GUERRA (21 Maggio 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54391 Asmara, il quartiere etiope

Gli Usa evacuano il proprio personale. Nuovo esodo di civili oltre frontiera
L’italiano Serri, inviato dell’Europa, in partenza per il Corno d’Africa: «Uno spiraglio per il dialogo»

Fuggi-fuggi generale dei diplomatici dall'Eritrea. Oggi gli americani evacueranno tutto il personale non indispensabile dell'ambasciata, le loro famiglie e i civili ancora nel Paese: più o meno trecento persone per le quali è stato noleggiato un aereo a Bruxelles. Per imbarcarsi ognuno dovrà sborsare un migliaio di dollari. «La misura — hanno spiegato all'ambasciata Usa — deve considerarsi preventiva. Non c'è nessun pericolo immediato».
Sul fronte centrale ieri c'è stata una sosta nei combattimenti. Gli scontri si sono limitati a scambi di cannonate nella zona di Mendefera, città alla quale gli etiopi si sono avvicinati pericolosamente, catturando Maidima, anch'essa evacuata dagli eritrei che hanno evitato di dar battaglia. Addis Abeba sostiene che la sua aviazione ha distrutto un sito missilistico e la sua fanteria si è impadronita di tutta l'Eritrea sudoccidentale, comprese le città di Omager e Tesseney, circostanza che potrebbe essere confermata dalle decine di migliaia di profughi che si stanno riversando in queste ore in Sudan. In quell’area i bombardieri avrebbero distrutto la base militare di Sawa, centro di addestramento delle reclute.
Le truppe di Asmara si sono asserragliate a Keren, due ore di auto dalla capitale, una città difesa da contrafforti naturali che la rendono difficile da espugnare, e ad Areza, una quindicina di chilometri da Maidima, dove comincia la salita che in 30 chilometri porta a Mendefera, città, a sua volta, a 80 chilometri da Asmara. Secondo l'opinione degli osservatori le truppe di Addis Abeba, mentre sicuramente eviteranno di attaccare Keren, potrebbero tentare di impadronirsi di Mendefera. In questo caso gli eritrei opporrebbero una feroce resistenza. Si rischia, dunque, una battaglia cruenta e dagli esiti incerti. Tutti comunque si domandano: quando arriverà la controffensiva eritrea di cui si parla ormai da giorni? Molti si attendono un colpo di teatro, qualcosa che forse non riporterà la situazione sul campo a come era prima del 12 maggio, ma che comunque potrebbe rimettere in discussione la finora incontestabile superiorità militare etiopica.
In questo contesto oggi parte la missione del senatore Rino Serri, incaricato dall'Unione Europea di seguire la guerra e di cercare di riaprire il negoziato. «Bisogna accentuare immediatamente gli sforzi diplomatici — ha spiegato Serri —. Ci sono ancora spiragli aperti; infatti sia Asmara sia Addis Abeba hanno dato l'ok alla mia visita e a quella dell'inviato dell'Oua, Ouyahya, che arriverà nell'area domani. Non c'è quindi nessun rifiuto pregiudiziale al dialogo».
Continua intanto l'esodo di decine di migliaia di sfollati: verso il Sudan, verso Asmara e verso il Mar Rosso. Mancano le strutture per accogliere la massa dei rifugiati e ciò dimostra che le autorità eritree non si aspettavano un tracollo così rapido del loro esercito, considerato, anche dall'iconografia ufficiale, invincibile. Il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, ha lanciato un appello perché la comunità internazionale si mobiliti e invii immediatamente aiuti alla popolazione civile, già colpita dalla carestia che ha investito tutto il Corno d'Africa. Domani partirà il primo di sei voli umanitari organizzati dall'Italia. Sarà carico di alimenti secchi, contenitori d'acqua, potabilizzatori e kit sanitari.





ERITREA-ETIOPIA, L' ITALIA SCHIERA TRECENTO CASCHI BLU
(15 Novembre 2000)
>Massimo A. Alberizzi
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54193 Asmara, nei pressi del Cinema Impero

Etiopia-Eritrea L’Italia schiera trecento caschi blu
Tutto pronto per la partenza del contingente di caschi blu italiani che dovrà partecipare alla missione di pace dell’Onu in Etiopia e in Eritrea. La composizione della forza è ormai stata definita e si attende solo il disco verde del Parlamento. Subito dopo per il Corno d’Africa partiranno 300 militari, tra cui una dozzina di osservatori e gli ufficiali dello stato maggiore che avranno compiti di collegamento. L’Italia mette a disposizione della missione 4 aerei, 2 elicotteri, una cinquantina di automezzi, un ospedale da campo e, soprattutto, una forza di 40 carabinieri (probabilmente paracadutisti scelti del battaglione Tuscania) addetti alla sicurezza, un nucleo di addetti alle telecomunicazioni e un’unità cartografica militare cui sarà affidato l’arduo compito di demarcare nuovi e stabili confini tra i due Paesi. L’Italia avrà dunque il «monopolio» dei trasporti e della logistica. Il contingente italiano dovrebbe essere di poco inferiore per uomini ma superiore per mezzi a quello olandese, che sta per inviare nel Corno d’Africa 340 militari.
La missione in questi giorni ha compiuto la seconda fase del suo spiegamento. In Etopia ed Eritrea sono già arrivati un centinaio di osservatori e gruppi avanzati di specialisti militari, provenienti da Olanda, Canada, Giordania, Kenya, Danimarca e Italia. Questi ultimi, stanno preparando il terreno per l’arrivo del grosso del contingente, che sarà composto da 4200 uomini, al comando del generale olandese Patrick Cammaert; si cercano i luoghi dove piazzare gli accampamenti militari, dove ci siano fonti d’acqua, facili accessi ai veicoli, agli aerei e agli elicotteri, e dove non ci siano campi minati.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha deciso l’invio di una forza di pace nel luglio scorso. Il suo compito è controllare la «cessazione delle ostilità» stabilita dalle due parti con gli accordi di Algeri del 18 giugno.

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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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