DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
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NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
STORIES by A. Raffaele Ciriello

INTERVISTA AL COMANDANTE MASSUD (2000)
>A. Raffaele Ciriello


460798 Kwaja Bahuddin (Afghanistan settentrionale), Settembre 2000

Darqad, Afghanistan settentrionale
Tre lampade a gas a delineare una zona d'atterraggio dai contorni incerti e l'elicottero, un MI8 russo che deve aver conosciuto giorni migliori, si posa a terra nel crepuscolo di questo fazzoletto di Afghanistan del nord, ostaggio dell'intricato groviglio di affluenti dell' Amu Darya, a mezz'ora di volo dalla capitale tajika di Dushanbe. Il comandante Ahmed Shah Massud, ministro della difesa del governo afgano riconosciuto e bestia nera dei russi prima e dei Taleban poi, ci riceve indossando uno shalwar kalmeez immacolato (la tenuta afgana tradizionale. una tunica aperta lunga fino al ginocchio sopra ampi pantaloni di lino). Sono passati quattro anni dal nostro ultimo frettoloso incontro sulla prima linea a nord di Kabul, in una giornata che aveva visto i Taleban guadagnare terreno che avrebbero inesorabilmente restituito ai combattenti di Massud nel giro di qualche giorno.
Da poche settimane è caduto il bastione settentrionale di Taloqan, espugnata dagli "studenti coranici" dopo un lungo assedio, ed è proprio da questa ferita ancora fresca che prende avvio la nostra chiacchierata.
"Il recente attacco a Taloqan è solo l'atto finale di un'offensiva iniziata in verità all'inizio dell'estate, quando il numero due dei Taleban, mullah Rabbani" (niente a che vedere col presidente afgano riconosciuto, il tajiko Burhanuddin Rabbani ndr) "ha ottenuto dal presidente pakistano Musharraf più di diecimila combattenti, inclusi 2000 regolari dell'esercito di Islamabad. A questi si sono aggiunti mille uomini della formazione "Al Quaida" di Osama Bin Laden, il miliardario saudita che ha fatto dell'Afghanistan il proprio santuario, ed altri volontari provenienti dall'Arabia, dal Bangladesh o dalle Filippine. La prima offensiva, sotto il comando del generale di brigata pakistano Sayed-ul-Zafar si è consumata sulla pianura dello Shomali, immediatamente a nord di Kabul, alla fine di giugno. In quell'occasione siamo riusciti a respingere sei diversi attacchi, che si sono conclusi con pesanti perdite tra i nostri avversari - più di 500 morti e diverse migliaia di feriti, come confermato dalle nostre fonti presso gli ospedali di Kabul. Anche il comandante, il gen. di brigata Ershad è stato ferito. Già in questa prima fase l'appoggio garantito dai pakistani si è fatto sentire; per la prima volta infatti abbiamo dovuto fronteggiare forze corazzate che hanno manovrato con grande senso tattico.
Dopo un secondo round di consultazioni in Pakistan, i Taleban hanno pensato bene di accanirsi sulle nostre postazioni più sguarnite. Nelle settimane successive sono infatti riusciti a sfondare più a nord, a Tahrin e ad Inkamish, ad aggirare il nostro schieramento a Bangi e ad avvicinarsi a Taloqan, dove si è combattuto per 33 giorni. Abbiamo dovuto fronteggiare due brigate dell' esercito pakistano e un battaglione di artiglieria, guidate dai comandanti Afshad e Moonir. Il vero motivo del loro accanimento in questo periodo era l'avvicinarsi dell'assemblea generale delle Nazioni Unite, in occasione della quale i Taleban avrebbero espresso una richiesta ufficiale di riconoscimento. A Taloqan ho quindi preferito risparmiare alla popolazione civile gli orrori di una difesa allo stremo ed ho ordinato il ripiegamento. Durante tutto l'assedio abbiamo perso circa 300 uomini. Cionondimeno si è trattato di una ritirata molto ordinata e non abbiamo abbandonato al nemico una sola cassa di munizioni (testimonianze dirette raccolte personalmente confermano questo aspetto). Le perdite del nemico sono state assai pesanti, con circa 2000 morti; solo i pakistani hanno lasiato sul terreno 70 morti e circa 1800 feriti. È caduto anche il famoso colonnello Jamil, che è stato commemorato in Pakistan all' Army Stadium di Peshawar, dove è stata ricordata la sua eroica scomparsa ... in Kashmir.
Questa avanzata, sostenuta da un ingente sforzo militare, chiaramente inteso a chiudere i giochi prima dell'inverno, è proseguita nelle settimane successive, dopo l' arrivo a Taloqan di quasi 15000 uomini. Le avanguardie Taleban sono avanzate in direzione nord-est fino al fiume Kokcha dove sono infine state arrestate (abbiamo vissuto in diretta lo sfondamento sul fronte di Awar Soy, durante l'ultima fase dell'avanzata). Sappiamo per certo che i Pakistani hanno approntato anche una fornitura di piccole imbarcazioni che si trovano in questo momento a Charasyab e che potrebbero essere utilizzate per incursioni contro di noi o addirittura oltre il fiume Amu Darya, verso il Tajikistan o l' Uzbekistan. Negli ultimi giorni inoltre le nostre fonti ci confermano l'intenzione dei nostri avversari di sferrare un attacco verso la provincia di Badakshan" (l'ultima rimasta sotto il totale controllo del Fronte Unito). "Questa volta l'offensiva dovrebbe partire addirittura dal territorio pakistano, dal passo di Dora, dove infatti sono già affluiti, attraverso la regione di Chitral, 2000 uomini, 1500 dei quali regolari pakistani".

Che cosa sta facendo per rendere di pubblico dominio il supporto fornito dal Pakistan ai vostri avversari?
"È una situazione sotto gli occhi di tutti. Questa estate lo stesso Gen. Parwez Musharraf ha rilasciato una dichiarazione alla BBC garantendo ai Taleban tutto l'appoggio materiale necessario per chiudere la partita. I pakistani temono la condanna degli organismi internazionali per questa ingerenza, ed hanno deciso di effettuare il massimo sforzo per sbarazzarsi di noi prima dell'arrivo dell'inverno. Poco tempo fa, rappresentanti dell'Unione Europea hanno preso visione in Pakistan di un rapporto segreto stilato da fonti diplomatiche occidentali, che proverebbe in modo esaustivo l'impiego di truppe regolari di Islamabad a fianco dei Taleban. Cionostante le Nazioni Unite hanno condannato soltanto il regime di Kabul, per le severe violazioni in materia di diritti umani. Da parte nostra abbiamo più volte fornito alle Nazioni Unite i nomi e le unità di appartenenza dei militari pakistani impiegati sul terreno e catturati e tutti i dettagli sul luogo e le circostanze della loro cattura. Siamo arrivati a fornire anche i numeri di targa dei veicoli che dal Pakistan trasportano armi e munizioni, sotto l'apparenza di convogli umanitari e che invece recentemente hanno trasportato addirittura alcuni tank".

Come procedono le trattative di pace? È ancora favorevole all'istituzione di una Loya Jirga?
Ho parlato al telefono con Mullah Omar, non troppo tempo fa. Dopo aver accettato in un primo momento la mia proposta di indire elezioni democratiche si è poi ricreduto ritenendo che queste siano incompatibili con lo spirito dell'Islam. Non potremo mai riconoscere l'esistenza degli Emirati uniti d'Afghanistan" (vale a dire il regime di Kabul, ndr) "ed i nostri avversari lo sanno bene. Siamo invece fermamente disposti ad appoggiare libere elezioni, dopo l'istituzione di una Loya Jirga" (assemblea democratica con rappresentanze di tutte le componenti etniche). "Il nostro messaggio ai Taleban è chiaro; se sono convinti, come affermano, di contare sull'appoggio incondizionato degli afghani e soprattutto della popolazione di etnia pashtun, la più numerosa, perchè si ostinano a rifiutare elezioni libere e democratiche? Perchè continuano a seguire la via delle armi quando sanno che senza l'appoggio dei militari pakistani non potrebbero resistere neanche una settimana, nonostante gli ingenti quantitativi di armi e mezzi messi a loro disposizione, ed i 3500 uomini di Bin Laden?"

Come vorrebbe gestire, in un prossimo futuro, la spinosa questione Bin Laden? In fondo, gli Stati Uniti non hanno mai presentato evidenze in merito al suo coinvolgimento negli attentati che gli vengono attribuiti.
"Osama Bin Laden è un terrorista e come tale verrà trattato, Una rete intricatissima di interessi lo lega da tempo ai Taleban ed al loro leader Mullah Omar, che per giunta ha sposato una delle figlie di Bin Laden. Sappiamo per certo che Al-Quaida ("la base", formazione combattente del miliardario saudita) schiera sul terreno qui in Afghanistan circa 3500 uomini, al comando di Abu Koubab. Non esiste pressione esterna che possa indurre Mullah Omar a consegnare Bin Laden ad un tribunale internazionale. Ed è esattamente quello che invece ci impegnamo a fare noi, se le circostanze lo permetteranno".

L'aspetto forse più criticato della "gestione" Taleban è quello dei diritti umani e delle palesi violazioni, in particolar modo a carico delle donne. Qual' è il Suo orientamento al riguardo?
Durante il biennio 1994-1996, col governo del Presidente Rabbani a Kabul, è stato compiuto il massimo sforzo per rispettare ed integrare le minoranze etniche e religiose. Le donne poi, oltre a godere del pieno diritto all'istruzione potevano accedere a qualunque professione. Questo è il sistema che desideriamo rilanciare, a partire dalle libere elezioni con suffragio universale, una testa un voto. Non ho ancora smesso di sognare per le mie figlie un avvenire da donne libere nel loro Paese.

Le offensive recenti, in particolare quella sulla piana dello Shomali a nord di Kabul hanno causato un flusso imponente di profughi, Qual'è la situazione?
"Il totale dei profughi ammonta a circa 150000 Molti di questi si trovano ora nella valle del Panshir; si tratta per lo più degli abitanti della piana dello Shomali, a nord di Kabul, che già nel 1998 e 1999 avevano abbandonato le proprie case durante l'avanzata estiva dei Taleban che avevano fatto terra bruciata di tutta la regione, distruggendo villaggi e coltivazioni. A questi bisogna aggiungere la recente ondata di circa 19000 profughi che si è spostata verso nord dopo la caduta di Taloqan. Conoscono bene la legge imposta dai signori di Kabul" (Taloqan era stata già conquistata e persa dopo breve tempo dai Taleban ndr) "ed hanno preferito fuggire. Con poche eccezioni - i francesi di Acted - la presenza delle organizzazioni umanitarie internazionali, sopratutto nel nord Afghanistan, lascia molto a desiderare. L'inverno che si avvicina potrebbe essere durissimo per tutti questi profughi. Viene in aiuto il grande senso di ospitalità degli afgani che ha permesso a molte di queste famiglie di trovare accoglienza nei villaggi intorno ai campi di stazionamento. Questo fa sì che la presenza di questi profughi non sia, anche visivamente, troppo "ingombrante", ma è comunque urgente che la comunità internazionale si occupi di loro, e presto".

Non teme che il regime dei Taleban possa ottenere prossimamante il riconoscimento dal Palazzo di Vetro, a maggior ragione ora che controlla quasi il 95 per cento di tutto il territorio?
"No, è un timore che non abbiamo. Sono troppo evidenti le violazioni dei diritti umani anche più elementari, segnatamente nei confronti delle donne. Per non parlare poi della coltivazione e del traffico di oppio, che sommandosi agli aiuti dei pakistani ed alle generose elargizioni di Bin Laden permette ai nostri avversari di finanziare una guerra costosissima".

Già, costosissima. E lei, come finanzia la sua guerra?
"Da parecchio tempo stiamo sfruttando a fondo le miniere di lapislazuli del Panshir, ed inoltre stiamo stampando moneta con cui acquistiamo armi e munizioni su tutti I mercati disponibili." Il Panshir è una leggendaria vallata dalle pareti rocciose a picco situata a nord-est della capitale Kabul, che prende origine dai contrafforti dell' Hindu Kush che vanno poi a costituire le radici della catena dell' Himalaya. Massud, nato nel villaggio di Jangalak nel 1953, ha fatto del Panshir il suo inespugnabile rifugio. Nei testi di strategia militare vengono ancora studiate le sette infruttuose offensive condotte dall'Armata rossa per annientare il Leone del Panshir, durante gli anni dell'invasione. L'ultimo di questi imponenti attacchi, condotto nel 1984 con l'impiego di più di 50000 uomini, tank e cacciabombardieri Sukhoi e Tupolev, avrebbe suscitato, nelle parole dell'inviato del settimanale Time, "l'ammirazione di Gengis Khan". Per quanto riguarda la carta moneta, abbiamo testimoniato di persona dell' arrivo in Afghanistan di una valigiata di afghani freschi di tipografia, provenienti dal Tajikistan. Curiosamente, questa valuta va a sommarsi agli afghani stampati dal presidente Rabbani nel biennio 1994-1995, a quelli introdotti nello stesso periodo dal generale Rashid Dostum, signore della guerra uzbeko a quei tempi avversario di Massud, ed infine alla valuta che i Taleban fanno stampare addirittura in Svezia. L'intento comune è di danneggiare l'economia del regime avversario e allo stesso tempo di garantire la propria. Il variabilissimo tasso di cambio locale richiedeva alcune settimane fa che per acquistare un dollaro occorressero 66000 Afghani.

È ricorso poco tempo fa il quarto anniversario dell' arrivo dei Taleban a Kabul. In quell'occasione Lei abbandonava la città insieme ai suoi uomini, senza sparare un colpo. Rifarebbe lo stesso oggi che si trova confinato in una porzione così piccola di territorio o non si è forse pentito di non aver contrastato i suoi avversari?
"No, quella fu una decisione giusta. L'arrivo dei Taleban alle porte di Kabul fu così improvviso che una difesa dell'ultimo momento avrebbe significato straziare la città ed imporre un insostenibile pedaggio di vittime tra I civili".

Qual'è lo stato di salute del Fronte Unito (l'alleanza multietnica anti-Taleban)? Le defezioni di comandanti che passano al nemico insieme a tutti i propri uomini sembrano essere all'ordine del giorno…
"Il Fronte Unito è compatto e le defezioni avvengono ad opera di comandanti di poca importanza. Sono anzi I Taleban che in questo periodo stanno perdendo l'appoggio dei comandanti di etnia pashtun del nord" (i pashtun sono il gruppo dominante nell' Afghanistan sudorientale, area d'origine del movimento degli studenti coranici, ndr). "Il comandante Arit è stato richiamato in Pakistan ed assassinato. Lo stesso è successo con Bashir Baghlan che è stato arrestato. Non dimenticate che questa non è una guerra di religione. La popolazione si sta spontaneamente opponendo alla politica ed alla ideologia dei Taleban. E noi siamo pronti ad aprire nuovi fronti. Inshallah, prima dell'inverno Taloqan tornerà nelle nostre mani".
Nei giorni immediatamente successivi a quest'incontro, il Comandante Massud ha incontrato a Mashad, in Iran, il leader uzbeko Generale Rashid Dostum, che vanta un robusto seguito nel nord dell'Afghanistan (circa 20000 uomini nella sola provincia di Samangan) ed Ismail Khan, ex governatore di Herat (1993-1995) e Generale dell'esercito Afghano che si era distinto comandando l'ammutinamento della guarnigione di Herat fin dai primi momenti della resistenza ai sovietici. Imprigionato dai Taleban a Kandahar nel 1997, Ismail Khan e' riuscito pochi mesi orsono a raggiungere l'Iran dopo una fuga rocambolesca. Mettendo da parte ancora una volta - l'ennesima - gli attriti che hanno portato in passato ad asperrime confrontazioni sul terreno, i tre si sarebbero effettivamente accordati per intensificare l'attività militare.
Le ombre lunghe della sera ci concedono ancora una domanda. Un paio di mesi dopo l'abbattimento di un jet dei Taleban ad opera di un missile Stinger, il primo mai utilizzato da molti anni questa parte, domandiamo se questo non debba essere considerato un segno di imminente riscossa. I missili terra-aria americani Stinger segnarono infatti in Afghanistan, sin dalla comparsa nel 1986, la vera svolta nel conflitto dei mujaheddin contro l' Armata Rossa, che si sarebbe ritirata dal paese tre anni dopo. Questo genere di cose, in Afghanistan, non si scorda facilmente.
Alla domanda, un lampo attraversa lo sguardo di Ahmed Shah Massud, che un istante più tardi ci sorride.




AFGHANISTAN,
TRE GIORNI AL FRONTE (2000)
>
A. Raffaele Ciriello


461022 Voci concitate provengono dall'infermeria: stanno arrivando i primi feriti...

TRE GIORNI AL FRONTE
di A. Raffaele Ciriello

"Gard", "Polvere" urla il giovane uzbeko seduto sulla panchetta di fronte alla mia.
I denti bianchissimi e spaziati incorniciati da un sorriso ferino, questo diciassettenne dal nome impronunciabile è la mia guardia del corpo. Stiamo viaggiando da qualche minuto dentro una impenetrabile cortina di polvere finissima, come prima d'ora avevo incontrato solo nei deserti africani. L'andatura del veicolo, una GAZ azzurra che in Italia faremmo fatica anche a demolire, non è tale da destare preoccupazioni. La visibilita' pressochè nulla ed il ritmo regolare del motore mi sprofondano in una specie di trance ipnotica, grazie anche al caldo torrido, francamente insolito per l'ultima settimana di Settembre. Da un paio d'ore ci siamo lasciati alle spalle Dashte Qaleh (Castello nel Deserto) dove abbiamo soggiornato per qualche giorno, ospiti del comandante Mamoor Hassan, leader uzbeko della regione. Prima tappa, la prigione locale dove riusciamo a scambiare due parole con gli unici detenuti, quattro giovani
Taleban catturati in combattimento. Abbiamo quindi guadato il fiume Kokcha, che a dispetto della stagione secca si rivela ancora un ostacolo sufficientemente impegnativo da indurci a ricorrere, per la traversata, al traino di un trattore.
Per tutta la settimana precedente ho corteggiato Ahmed Shah Massud, leader indiscusso del fronte anti-Taleban che ancora difende con accanimento quel 10 per cento che gli rimane del territorio afghano. Abbiamo pranzato con lui ed abbiamo tentato di inseguirlo - con esiti non sempre confortanti - nei suoi spostamenti un po' isterici a bordo della Toyota Land Cruiser SW bianca guidata dal fido Yassim. "L' unica cosa che temiamo" - mi spiega Amrullah Saleh, uno dei suoi collaboratori più stretti - "è un'incursione aerea". Questo rende ragione del suo errare peripatetico tra Darqad, un'isoletta circondata da affluenti dell'Amu Darya, e la terraferma di Kwaja Bahuddin o Dashte Qaleh. Ora, col conforto della compagnia di
Hiromi Yasui, una giornalista giapponese conosciuta a Kabul cinque anni fa, mi sto dirigendo verso il fronte di Awar Soy, in direzione sud-ovest, dove gli uomini di Massud stanno cercando di arginare l'avanzata dei Taleban che, sull'onda della conquista di Taloqan, la roccaforte del Fronte Unito caduta un paio di settimane prima, minacciano di dilagare sulla piana sottostante verso i centri di Dashte Archi e Dashte Qaleh.
Un sobbalzo più forte e riapro gli occhi. Hiromi sta fissando l'orizzonte mentre i nostri angeli custodi ci osservano incuriositi. Indossano entrambi una mimetica nuova di zecca e di buon taglio, rimediata chissa' come. Dopo un'ora di questo oblio di polvere e scossoni arriviamo all'accampamento, presso l'agglomerato minimo di Awar Soy. È mezzogiorno passato. L'ospitalita' degli afghani non si smentisce e veniamo subito invitati a pranzare col comandante ed i suoi luogotenenti. Il menù non riserva sorprese: il classico piatto unico con una montagna di riso che seppellisce tranci di carne di capretto, accompagnato dall'ottimo "nan" (pane deliziosamente insipido, in forma di sfoglia morbida che può fungere all'occorrenza da cucchiaio, piatto, tovagliolo e molto altro). Il comandante, un uzbeko dall'espressione intelligente, ci illustra la situazione tracciando una mappa con la punta di un coltello.
"Ecco, questa è la strada che arriva da Taloqan. La citta' dista venticinque-trenta miglia, non di più. In questo punto" e la lama disegna due mammelle "passa tra queste alture, ed è qui che è schierata la nostra prima linea. A proteggerci" e traccia un montarozzo distante una spanna, "provvede anche una postazione dei nostri, che tiene la strada sotto tiro da quassù ". Bofonchia qualcosa sull'arrivo imminente di un lanciarazzi BM-21 e poi ne mima l'azione con un gesto quasi osceno.
Un'occhiata rapida in direzione delle alture, distanti meno di tre chilometri, conferma il quadro. Per valutare l'efficacia del dispositivo invece occorrerà aspettare, ma non troppo a lungo.
Il cortile del grande compound che fa da base avanzata si è nel frattempo animato per l'arrivo di una dozzina di stipatissimi veicoli, tutti 4x4 UAZ, e dei relativi passeggeri, quasi un centinaio.


461092 Il cortile del grande compound che fa da base avanzata si è nel frattempo animato per ll'arrivo di una dozzina di stipatissimi veicoli, tutti 4x4 UAZ, e dei relativi passeggeri, quasi un centinaio...

Si tratta degli uomini del turno di notte che rientrano dal fronte, dopo essere stati rilevati dai compagni. In silenzio, si dirigono verso gli alloggiamenti, un paio di baracche col tetto di paglia ricoperta di fango. Gli autisti aprono il cofano motore dei propri veicoli con una sincronia surreale mentre nello sguardo di tutti si legge la stanchezza. "Non si è sparato. Non la notte scorsa" crede di tranquillizzarci il comandante.
Una breve sosta nel nostro alloggio, una capanna uguale alle altre ma che divideremo soltanto in due, e mi addormento sulla stuoia che ricopre il pavimento. Mi risveglio dopo circa un'ora, madido di sudore.
Hiromi è scesa al torrente che scorre a poca distanza e quando la raggiungo sta faticosamente completando uno shampoo approssimativo. Riesco in qualche maniera ad imitarla. Al rientro ci attendono buone notizie. Una UAZ ci porterá in prima linea nel tardo pomeriggio. In sala radio la situazione è calma e le espressioni distese. Il comandante ci spiega che su questo fronte puó avvalersi di numerosi posti di osservazione e garantisce che i Taleban non possono imbastire offensiva senza essere avvistati col dovuto anticipo. Gli chiedo se i suoi uomini abbiano in dotazione visori notturni. Mi risponde con una smorfia amara. "No, quelli li avevano i Pakistani a Taloqan".
L'appoggio fornito da Islamabad ai Taleban si è concretizzato, durante l'assedio alla città, nella fornitura di due brigate di fanteria, un battaglione di artiglieria ed equipaggiamento per la visione notturna, che ha fatto la differenza in occasione di alcuni scontri. Il giorno successivo mi racconteranno che il comandante ha avuto il suo gruppo decimato proprio a Taloqan, durante la battaglia dell'ultima notte. Lancio un'occhiata alle armi degli uomini che si preparano a lasciare l'accampamento per pernottare in prima linea. Molti AK47, non tutti originali. Tutti però dotati del caricatore maggiorato da 30 colpi. Cinesi, perlopiù, le repliche.
Non vedo AK74. Gran profusione di RPG-7 con diversi tipi di granate. Una UAZ porta, fissata sul cassone, una mitragliatrice antiaerea a canna singola. In attesa del lanciarazzi da 122, ci dobbiamo accontentare di un paio di autocarri sovietici con una batteria da 20 razzi, di calibro più piccolo. Tutti i comandanti delle pattuglie sono in contatto costante con la base grazie ad apparati VHF Yaesu, alimentati mediante batterie stilo a perdere.
Il nostro veicolo, stipato all'inverosimile, ci appieda a circa un chilometro dalla prima linea, situata su un pianoro tra due colline dal profilo arrotondato. L'ultimo tratto di strada è infatti totalmente scoperto ed esposto al tiro delle armi a gittata più lunga.
È quasi il tramonto quando assistiamo all'avvicendarsi di gruppi diversi di mujaheddin. "Anche per questa notte non attaccheranno, Inshallah" sentiamo mormorare ad un giovanissimo con RPG a tracolla ed un basto pieno di granate. Una tazza di the nella casupola che fa da quartier generale avanzato ed è ora di ridiscendere verso la nostra base. Mi ripropongo, per l'indomani, di salire in prima linea nel primo pomeriggio e restarci il più a lungo possibile.
La serata trascorre lenta e rilassata, mentre siamo letteralmente covati dalla curiosita' generale. Passi ancora per il giornalista italiano, ma una donna e giapponese… L' accampamento è privo di luce ed il generatore viene messo in funzione esclusivamente a beneficio della sala radio. Davvero non faccio fatica ad addormentarmi.
Nel cuore della notte, alcuni boati attutiti lasciano supporre l'inizio di uno scambio di artiglierie. Mi alzo, esco dalla baracca e nell'oscurita' totale quasi mi scontro con il mio angelo custode, il ragazzino uzbeko. Devo sembrargli preoccupato perchè si affretta a tranquillizzarmi a grandi cenni, come a dire che non c'è alcun pericolo. La mattinata successiva trascorre in fretta. Il comandante è scomparso e c'è parecchio viavai. Arriva anche un camion carico di uomini provenienti da Dashte Qaleh. Sono civili che trascorrono un periodo di leva al fronte, in funzione della gravita' della minaccia incombente sulle aree abitate. Nulla a che vedere, sia ben chiaro, con l'arruolamento forzato adottato talvolta dai Taleban. Assisto alla messa a punto di una mitragliatrice antiaerea installata su un fuoristrada UAZ; rimango colpito dalla rapidita' del dispositivo di puntamento, basato su un sistema di pedali e manette. Non c'è traccia della nostra GAZ azzurra, che compare solo verso mezzogiorno, dopo essersi allontanata per rifornirsi presso il camion cisterna che avevemo notato sulla strada, arretrato di circa un chilometro rispetto all'accampamento.
Anche il BM-21 - mi spiegano - verra' mantenuto in posizione arretrata per garantirgli un ripiegamento in sicurezza nel caso le cose volgessero al peggio. Nei giorni precedenti ho discusso a lungo con Amrullah Saleh riguardo l'abilita' del "Leone del Panshir" di ritirare e rispiegare i propri uomini in brevissimo tempo e senza abbandonare al nemico mezzi o materiali. È successo anche a Taloqan, all'inizio di Settembre quando la citta' è stata abbandonata ai Taleban arrembanti - vuota - nel giro di poche ore, da una formazione ordinata e silenziosa. La cosa più strabiliante, a detta di Salvatore Lombardo e Fazila De Hall, colleghi che erano a Taloqan durante la ritirata e che ho incontrato più tardi in Tajikistan, è stato forse il comportamento della popolazione civile, che ha lasciato la citta' durante l'assalto finale senza sbandamenti od incertezze, in un silenzio irreale. Nella sua
intervista il Comandante Massud fissava in 19000 l'ammontare di questi profughi. Amrullah mi ha confermato anche, con una punta di malcelato orgoglio, che tutti e tre i lanciarazzi pesanti BM-21 con cui Massud si è ritirato da Kabul il 29 Settembre del 1996 si trovano tuttora nei ranghi del Fronte Unito, in perfetta efficienza.
Il tragitto dall'accampamento alla prima linea mi pare più breve del giorno precedente. La UAZ ci deposita, come al solito, subito dopo una curva in costa, all' inizio del tratto scoperto. Percorriamo qualche centinaio di metri fino al primo compound. All'esterno, alcuni mujaheddin, i lineamenti fini delle popolazioni del nord - uzbeki o tajiki - si accalcano presso un pozzo. Attendiamo il nostro turno senza fretta. Ho imparato da tempo a fidarmi dei pozzi, perlomeno di quelli non improvvisati. Hiromi si avvicina ad un ometto buffo con un copricapo imbottito da carrista ed un RPG in spalla.


460968 Hiromi si avvicina ad un ometto buffo con un copricapo imbottito da carrista ed un RPG in spalla...

Sboccia un amore ed il tipetto insiste per accompagnarci di persona alla trincea scavata sulla linea di fuoco. Non proseguiamo lungo la strada maestra, ma invece la fiancheggiamo, attraverso una lunga sequenza di camminamenti protetti da muretti di fango secco, per godere di una minima protezione. Da circa un'ora infatti è ripreso lo scambio di artiglierie, che ci appaiono stavolta decisamente meno distanti. Percorriamo gli ultimi duecento metri allo scoperto, fino a raggiungere una trincea vera e propria nella quale ci tuffiamo con evidente sollievo.


460978 Gli ultimi duecento metri vengono percorsi allo scoperto, fino a raggiungere una trincea vera e propria nella quale ci tuffiamo con evidente sollievo.

Le nostre baby-guardie del corpo ci seguono come ombre. Sembra che le nostre reazioni li divertano un mondo; la sete, la fatica della corsa: ma ci osservano con particolare interesse quando un colpo viene a perdersi piú vicina delle altre, quasi stessero sottoponendoci ad una qualche personale valutazione. Nelle prime ore del pomeriggio il caldo é insopportabile. Rimarremo qui sino all'imbrunire, intrattenendoci con diversi comandanti ed ascoltando i racconti dei reduci da Taloqan. Come quel giovane mujaheddin che ci interroga sulla sorte dei suoi compagni di etnia Hazara (discendenti diretti dei mongoli di Gengis Khan), giovanissimi anch'essi, schierati appena al di fuori del perimetro della cittá, che devono aver pagato un tributo altissimo di perdite durante l'assalto finale. Non sappiamo - gli rispondiamo - mentre i nostri sguardi si incontrano imbarazzati. Anche per stanotte, ci rassicurano, il fronte rimarrá tranquillo. Stavolta si sbagliano. Le prime avvisaglie della nottata "tranquilla" ci raggiungono sulla via del ritorno. Due esplosioni all'imbocco del canalone protetto che porta all'accampamento. "Razzi, quelli piccoli" dice il guidatore, con tono calmo, tradito pero' da un affondamento deciso del piede destro sull'acceleratore. Da allora in poi, i colpi si susseguiranno con ritmo costante per tutta la serata. Appena alla base ci precipitiamo in sala radio, dove giá si trova il comandante che ci fa cenno di sederci. Apparentemente, tutti hanno già cenato, o forse nessuno. Ci viene servito frettolosamente del riso e del the, mentre ci sforziamo di decifrare il gracchiare ininterrotto delle numerose riceventi. Poco più tardi, verso le undici, le esplosioni ritmate lasciano posto di colpo ad un silenzio sordo. Anche gli ultimi uomini al lavoro in sala radio ed in infermeria (una casupola di fango col confort aggiunto di alcune stuoie sul pavimento) vanno a dormire.
L'indomani, mentre le alture circostanti ci paiono per la prima volta incombenti, nella luce purissima dell'alba, possiamo intuire immediatamente che non si tratterá di una giornata come le altre. Durante la colazione, appena piú affrettata del solito, ci presentano Mohammed Khan, il comandante del BM-21, il lanciarazzi pesante "Katiuscia" che si è attestato a breve distanza dall'accampamento. Mi accordo per raggiungerlo nel pomeriggio. Hiromi preferisce invece tornare in prima linea. Una mattinata di preparativi, scandita dalle solite operazioni di verifica dei mezzi e delle armi. Mi intrattengo con Nasrallah, uno dei comandanti più giovani. Gli chiedo perchè nessuno utilizzi, per il proprio AK-47 la classica combinazione di due caricatori fissati con nastro adesivo: questo rende possibile estrarre il caricatore esaurito ed inserire immediatamente il secondo, pieno, dopo una semplice rotazione di 180 gradi. Quando poi gli faccio notare che solo pochi mesi prima in Sierra Leone ho visto combattenti di tutti gli schieramenti con addirittura tre caricatori fissati assieme, quasi gli procuro un accesso di ilarità. "No, non lo facciamo" risponde appena ripresosi dallo stupore "l' Avtomat (lo chiama alla russa, Avtomat Kalashnikov, AK) diventa poco preciso con tutto quel peso ed allora non sai più dove spara", e se ne va sorridendo. Mi tornano in mente i dissidi, nei primi anni dell'invasione sovietica in Afghanistan, tra gli istruttori di ISI (i servizi segreti Pakistani) ed i leader dei vari gruppi di mujaheddin che venivano riforniti ed addestrati in quella fucina della jihad che era divenuta Peshawar. Era difficile ad esempio convincere gli afghani a strisciare sul terreno nell'oscurita' per aggirare una postazione nemica, perchè molti di essi semplicemente rifiutavano qualsiasi opzione di attacco che non prevedesse un assalto frontale, armi in pugno. Il coraggio e la fierezza di quei combattenti sopravvivono forse un poco nel giovane Nasrallah che preferisce 30 colpi nel caricatore di un'arma precisa e bilanciata piuttosto che 90 appesi sotto un Kalashnikov divenuto quasi inservibile. Poco dopo mi presentano un defettore Taleban che è da qualche giorno passato allo schieramento opposto. Sbarbato come un neonato dichiara allegramente "Desideravo farlo da tempo ed ho approfittato della prima occasione". Incontriamo poi un medico sulla trentina con esperienza di lavoro a Mazari Sharif, sotto il tallone dei Taleban, e che è poi riuscito a trasferire famiglia ed attivita' ad Imam Sahib, nel nord controllato dal Fronte Unito. Quando gli chiedo quale sia il destino dei Taleban feriti che vengono catturati, esita un attimo di troppo. "We kill them!" ed esplode in una risata fragorosa. Svettera' per la sua assenza nel momento del bisogno, la notte successiva. Fuori dal compound risuona il rituale "Allah U Akbar" (Dio è grande). Stanno infatti sgozzando un agnello davanti all' unica botteguccia aperta di Awar Soy. Viene acquistato e trasportato all'accampamento prima ancora che abbia finito di vuotarsi del suo stesso sangue. Nelle prime ore del pomeriggio auguro buona fortuna ad Hiromi e mi incammino verso
la postazione del lanciarazzi. Non voglio perdermi lo spettacolo. Mi hanno garantito che faranno partire qualche salva. Ho gia' visto all'opera questi mezzi nel 1995 e 1996: se il potere distruttivo è terrificante, con quaranta razzi che possono partire contemporaneamente ed una gittata che supera le venti miglia, il lancio in sè, col suo boato pieno e fragoroso non è da meno. Ricordo di esserne rimasto ipnotizzato, nelle occasioni precedenti, fin quasi a desiderare - irresponsabilmente - che i lanci non terminassero mai. Quando raggiungo la piazzola, mi colpisce una grande tenda. E' un telo tirato tra due pile di casse di legno, tutte lunghe più di due metri e con un diametro di 25 centimetri circa.
Una grande quantita' di casse identiche giace sventrata a terra. Su tutte spicca la scritta "Bulldozer Parts", quasi a far credere che contenessero parti di ricambio. Ma si sa, la guerra è guerra…
Mohammed Khan mi saluta come usa tra vecchi commilitoni. Una rapida occhiata ed inquadro il team. I serventi, tutti ragazzini sveglissimi, ed un paio di puntatori dell'etá del comandante. I ragazzi stanno ultimando il caricamento dei 40 tubi. Ogni razzo viene tolto dalla cassa, il suo involucro esterno viene accuratamente lubrificato, viene quindi montata la spoletta esplosiva e l'ordigno è infine pronto per essere inserito nel tubo di lancio. Terminata la procedura, occorre quasi un quarto d'ora per accatastare le casse vuote nel fossato ai margini della strada. È tempo di una pausa. Viene sventrato un cocomero, che si accompagnerá ad una tazza di the verde bollente. Poi viene la preghiera. Quegli uomini genuflessi ai piedi di un angelo del giudizio universale (che la mira sia con noi…) mi danno un brivido. Ma dopo tutto non si tratta dello stesso rito pagano che si ripete ogni domenica sui campi di calcio quando campioni affermati si segnano la fronte prima di scendere in battaglia contro… un pallone? Una UAZ arriva di gran carriera, inseguita e subito aggiunta da una scia di polvere finissima. Un saluto, un parlottare sommesso, un bigliettino passa di mano. Le coordinate dei bersagli. Ma rimane ancora un po' di tempo. Mohammed Khan si è innamorato perdutamente del mio coltello multiuso e fa anche il gesto di riporlo in tasca, dopo averne saggiato con cura tutte le lame. Riesco a fatica a riscattare il coltello con una dozzina di batterie. Il comandante poi si alza e si avvicina al dispositivo di puntamento, sul retro del veicolo. Un breve consulto col suo aiutante, una lunga occhiata dentro il mirino ottico ed il mezzo è pronto al fuoco. Devo essere risultato simpatico, perchè mi avvisano con buon anticipo del lancio della prima salva. Un silenzio assordante precede l'attimo del lancio. Poi, un fragore senza uguali e lo spostamento d'aria calda, che mi sorprende e mi sbilancia. Mentre il razzo, accompagnato da una scia incandescente per i primi cinquanta metri, si perde verso l'orizzonte. Mohammed Khan porta lo sguardo al visore montato su un treppiede, mentre la radio prende a gracchiare. Un attimo dopo, l'espressione immutata, si avvicina ai comandi. Verranno lanciate cosi' quattro salve, l'ultima da due razzi. Mentre scende la sera e mi sto domandando se accettare l'invito a pernottare nella tenda improvvisata, Hiromi mi raggiunge, scendendo al volo dalla UAZ che l'ha riportata indietro all'accampamento. "Big shooting!" mi grida da lontano.
Sto gia' salutando Mohammed Khan e distribuendo pacche sulle spalle di tutti. Troviamo la base deserta. Hiromi mi spiega che per tutto il pomeriggio i veicoli hanno fatto la spola, trasportendo in prima linea quasi tutti i mujaheddin. Gli scambi di artiglieria si sono infittiti e da più di un'ora procedono ininterrotti. È sceso il buio ormai e non possiamo che attendere gli avvenimenti. La sala radio risuona di mille voci.


461080 La sala radio risuona di mille voci.

Sorseggiamo in silenzio un the, sul tetto della casupola. Non troppo lontano, sono visibili i bagliori delle esplosioni, accompagnati dal sibilo dei razzi o dal rombo assai più cupo delle artiglierie. Trascorriamo lassù più di un' ora, durante la quale passiamo in rassegna idealmente lo schieramento della prima linea, come lo avevamo visto il giorno prima. "Quello che spara laggiù è il lanciarazzi parcheggiato dietro la curva…" Ad intervalli regolari si fa sentire anche il katiuscia di Mohammed Khan, ma non basterà. Intorno alle undici e mezza i colpi in arrivo - piuttosto vicini - sovrastano di gran lunga quelli in partenza. Voci concitate provengono dall'infermeria: stanno arrivando i primi feriti. Si tratta di due comandanti, entrambi ventenni. Uno dei due si trovava al pozzo - mi pare - il primo giorno. Sono stati feriti entrambi da schegge all'addome. Si prende cura di loro un infermiere. Non che indossi un camice a qualificarlo, ma sembra almeno che abbia dimestichezza con le medicazioni. Svuoto sottosopra il mio zaino e gli consegno intero il mio kit di medicinali. Antibiotici, qualche ferro chirurgico a perdere, medicazioni sterili, tutti i miei lacci emostatici. Nella luce crudissima dell' unica lampada a gas, mi ringrazia. Ha lo sguardo un po' umido ma forse mi sbaglio. Suggerisco discretamente ad Hiromi di preparare il bagaglio, se gia' non l'avesse fatto. I colpi, uno scambio oramai quasi a senso unico, aumentano di intensitá. Il medico incontrato in mattinata è scomparso. Dal tetto della baracca si scorgono distintamente i fari di una colonna di veicoli che rientrano dalla prima linea. Rivedo i civili che giá nel pomeriggio in piccoli gruppi avevano iniziato a sfilare lungo la strada in direzione nord, allontanandosi cioè dal fronte. Mohammed Khan aveva addirittura dovuto posticipare una salva, per non disperdere il gregge che fluiva lento sulla strada, guidato da un pastore con moglie e neonato al seguito. Ho imparato come i civili che stazionano quotidianamente in zona di guerra sviluppino una sensibilita' che supera di gran lunga, il più delle volte, quella dei combattenti stessi. Avevano già previsto la caduta del fronte di Awar Soy. D'ora in avanti, tutto accadrà molto in fretta. Si materializzano le nostre guardie del corpo, che avevo perso di vista dal mattino. Come d'incanto compare anche la nostra GAZ azzurra. Il motore canta anche più allegro che all'andata. Ho il tempo di scambiare un ultimo sguardo ed una stretta di mano con i feriti, che forse non soffrono piu'. Verranno caricati - cosí mi giurano - sul primo veicolo disponibile. Silenziosamente alcune UAZ provenienti dal fronte sbarcano gli occupanti sul piazzale del compound. Non c'è traccia di concitazione. I veterani devono aver visto di peggio negli ultimi mesi. A Taloqan, se non altro, dove l'ultima fase dei combattimenti, animata da raid quotidiani dei cacciabombardieri di Kabul, è durata 33 giorni. Ora, nell'oscurita' complice di una notte senza luna, i mujaheddin caricano in fretta munizioni e materiali sulle vetture, che imboccano alla cieca l'uscita, laggiú da qualche parte, dentro ad una cortina densissima di polvere, metafora plausibile dei nostri tre giorni in questa terra di nessuno. I nostri ci fanno fretta. Salgo in silenzio sulla GAZ mentre percorro mentalmente a ritroso il percorso che ci porterà in riva al fiume Kokcha. I colpi di artiglieria nel frattempo si avvicinano, anche se nessuno raggiunge la pista che stiamo percorrendo. Due ore di strada. Forse meno se teniamo un'andatura sostenuta. Il veicolo cisterna è scomparso. Verosimilmente è già al sicuro sulla via del ritorno. Lo stesso vale per il lanciarazzi di Mohammed Khan. La piazzola è vuota, eccezion fatta per le casse di legno sventrate, come avanzi del pasto di un mostro preistorico. Sull'andatura mi sbagliavo. Procedere di notte in quella coltre densissima di polvere è un incubo. Nel contempo, il flusso di civili è aumentato. Sbucano come fantasmi al magine della pista, per venire inghiottiti dall'oscurità un attimo dopo. Famiglie intere, talvolta greggi e masserizie. Ci fermiamo per una breve ripresa video. Dopo quaranta minuti di marcia, la mia guardia del corpo chiede al guidatore di fermare e mi mette una mano sulla spalla. Ha intravisto, nelle ombre che abbiamo appena superato, una famiglia del suo villaggio. Un uomo alto, con due giovani donne ed un lattante. Non capiamo quel che dice, ma ci implora di raccoglierli. Procediamo quindi, senza che l'andatura abbia a risentirne, con il capofamiglia aggrappato all'esterno del veicolo, sul predellino posteriore. Le donne ed il bimbo trovano posto invece su una delle due panchette.


461027 Le donne ed il bimbo trovano posto invece su una delle due panchette...

Viaggiamo in silenzio per più di un'ora, senza incontrare alti veicoli. Apparentemente stiamo percorrendo piste parallele, perchè il traffico si fa sensibile solo a Kwajagar, quasi in riva al fiume Kokcha. Ci fermiamo a salutare Mullah Omar, comandante locale, omonimo del lider maximo Taleban. Sta cercando di valutare l'entita' delle forze nemiche in arrivo per decidere se approntare una linea di difesa nel villaggio od arretrare i suoi uomini al di lá del fiume. Sulla riva la situazione è confusa. Tutti i veicoli ad eccezione dei camion devono attendere che i trattori provvidenzialmente allertati li possano trainare attraverso il guado, profondo piú di un metro. L'alternativa consiste nell'ancorarsi, più veicoli, in una sorta di cordata della speranza. Noi guadiamo per ultimi, seguiti soltanto dalla Toyota bianca di una troupe TV russa, che abbiamo intravisto all'accampamento la sera precedente. Mentre attendiamo, balena davanti ai nostri occhi il lanciarazzi di Mohammed Khan. Affastellati sui tubi lanciamissili, in un'icona grottesca di vita e di morte, donne e bambini sorridenti.


461087 Affastellati sui tubi lanciamissili, in un'icona grottesca di vita e di morte, donne e bambini sorridenti...

Il fronte di Awar Soy è caduto alle 0.30 del 20 Settembre 2000. Poche ore più tardi quella stessa notte, i Taleban si sarebbero impadroniti del villaggio abbandonato di Kwajagar. Non avrebbero mai attraversato il fiume Kokcha. Hiromi ed io avremmo raggiunto incolumi la guest house del comandante Mamoor Hassam, a Dashte Qaleh, poco dopo le cinque del mattino. Srotolare il sacco a pelo e soccombere ad un sonno profondo è un attimo. Solo un ultimo insistente pensiero. Il bambino che abbiamo raccolto lungo la strada insieme alle due donne, non ha pianto, mai.




TAXI DRIVERS IN KABUL (1995)
>A. Raffaele Ciriello

English translation kindly provided by Mr. Mustafa M. Popal


460200 Amir Shah and his trusted Toyota in Kabul, 1995

"God was to be jobless to make you so beautiful, Maria!" The two-tone painted Toyota, obviously kept together by the glossy paint-job, jolts along the bumpy road amidst the cries of adulation coming from its driver. Amir Shah, perhaps the most well known Afghan after the legendary commander and war hero, Ahmed Shah Massud, marks his arrival with a compliment that is grounds for arrest in such a Muslim land. In return, he is greeted with a smile of somewhat embarrassment.
For almost a month now, I've been in Kabul with Maria Grazia Cutuli, a journalist from the weekly magazine Epoca, in search of the stories and images of this corner of the world, which has been largely abandoned by the international media, whose focus of attention has now turned to the horrors of the former Yugoslavia.
Amir Shah, our taxi driver-interpreter-guide-currency exchanger, embodies the memories of the historic capital's tragic legacy under the Red Army's occupation in the ten years from 1979 to 1989 and its subsequent vulnerability to the factional fighting between the victorious Mujahideen groups. The aftermath of such a legacy are also visible in the neighborhoods populated only by scarred edifices and numerous undetonated landmines that still await the eager hands of a young child or refugee returning to reclaim a lost home.
After having driven around the most notable correspondents of the international press corps during the difficult years of the Soviet occupation and the bloody factional struggle between the Mujahideen groups, one can clearly state that Amir Shah, philosopher and principal role-player for survival on this make-shift stage, is not your typical guide. It is with him that we adventure to Maidan Shar in order to cross the southern front to reach the outpost of the feared Islamic fundamentalist student group of the Taliban, who frame Kabul through the scopes of their deadly 22-caliber rocket launchers. Their select weaponry is dispensable in great quantities to all the arsenals, compliments of the Red Army, who literally flooded Afghanistan with arms and munitions prior to its withdrawal.
"We've ammunitions enough for years", a fighter replies, while taking care of an anti-aircraft piece of artillery, almost in response to the perplexed look on my face.
As we continue onward it's the same yellow-white Toyota Corolla that takes us through the gates of the Wazir Akbar Khan Orthopaedic Center, where we find Alberto Cairo, the only Italian in Kabul. A lawyer by profession, Doctor Cairo now spends his time mostly providing physical therapy and constructing prosthetics for the country's landmine victims.
"Of the best quality," Cairo explains, while using the rubber from the tires of the armored Russian vehicles as the elastic joint of an ankle. "But nearly impossible to find unless on the black market." This is hard to believe, judging from the numerous disemboweled carcasses that punctuate the most heavily destroyed roadways.
It's not difficult to find the well-known Amir Shah, once in Kabul. Spotting him out in traffic is perhaps easier, due to the slow - conservative, says Amir Shah - pace of the Toyota, which has caused numerous reproaches by hurried passengers. However, every hint of impatience is systematically suffocated by Amir Shah who tells You, for the fiftieth time today, that the car proves to be the only asset and precious source of income for him and his dear ones. All in all, even in Afghanistan one must manage to find a means of supporting a family.


460199 Flat tyres are a common occurrence, mostly due to over-worn tyres

Driving around a taxi in Kabul isn't that easy at all (ah, Mr. Scorsese). It's necessary to acquire the gasoline with the limited resources available at astounding prices that are typical in war-stricken countries everywhere. Having to repair the vehicle with limited tools, while simultaneously deciphering the parts to fit the original make-up of the vehicle is, more often than naught, extremely expensive, if at all possible. Even having to cross the border a dozen times a day under the uncertain protection of a white flag with the words "Press" written across it, not to mention the possibility of falling prey to a shower of missiles kept in sync by a cruel metronome, is like throwing caution to the wind.
Amir Shah, however, is anything but fearful and the many journalists that have traveled with him can testify to this. Their numbers aren't few nor irrelevant as one judges by the huge "Newsweek" sticker that towers above the rear window, or from the business cards that he shows us with a hint of modesty including those from The New York Times, Le Monde, and Corriere della Sera. Furthermore, the difficulty of such a lifestyle is even more apparent by the grizzly reminder of numerous bullet holes of every caliber imaginable that grace the hood and trunk of the car; bullet holes that not even the best auto body repair shop could mask.
Our friend, however, doesn't seem to be bothered by it all. He asks as about Italy and shares with us for the thousandth time this year, the story of the lion-sole inhabitant of the Kabul Zoo-that lost an eye following a grenade explosion. As we continue on our slow journey in Amir Shah's taxi, nightfall quickly descends upon us. At ten o'clock the curfew is enforced but few take notice, due also to the lack of electricity.
That same night, the breathtaking starlit sky of the capital is desecrated by the roar of a Sukoi bomber descending from the northern territory of the much despised and Soviet-backed Uzbek General Rashid Dostum. Baffled by the nonexistent air surveillance of the governing forces of the Jamiat-i-Islami, the bomber drops two bombs on the central neighborhood of Shar-e-Nau. For the five members of an entire family and their friends, tonight's dinner will have been their last.
Yet even as we send off Amir Shah under the pure lights of the Kabul sunset, we are unaware of the events that unfold around us.

English translation courtesy of Mr. Mustafa M. Popal




TASSISTI A KABUL (1995)
>A. Raffaele Ciriello


460200 Amir Shah e la sua fidata Toyota a Kabul, nel 1995

"God was to be jobless to make You so beautiful, Maria!", "Dio non doveva avere niente da fare per crearti così bella, Maria!". La Toyota Corolla rigorosamente bicolore, apparentemente tenuta assieme dalla vernice, sobbalza sul fondo sconnesso, ma il complimento arriva ugualmente a segno. Amir Shah, forse l’afghano più conosciuto nel mondo dopo il leggendario comandante Ahmed Shah Massud, eroe della rivoluzione contro l’invasore russo, si produce in una galanteria da codice penale, perlomeno in terra d’Islam, ricevendo in cambio un sorriso un poco imbarazzato. Da quasi un mese, insieme a Maria Grazia Cutuli, giornalista di "Epoca", sto passando al setaccio Kabul in cerca di immagini e storie di quest’angolo di mondo neppure più sfiorato dalle luci della ribalta delle cronache internazionali, puntate in questo momento sulle tormentate terre dell’ex-Jugoslavia. Amir Shah, il nostro tassista-interprete-cicerone-cambiavalute incarna la memoria storica del dramma della capitale occupata dall’Armata Rossa nel decennio 1979-1989 e poi facile preda degli scontri tra le opposte fazioni vittoriose. Testimoni, interi quartieri popolati soltanto da edifici sventrati e le mine anti-uomo, dispensate senza lesinare e sempre pronte a ghermire un bambino più curioso degli altri o uno dei tanti profughi desiderosi di riprendere possesso dei resti della propria abitazione di un tempo. Ma Amirshah, filosofo e interprete magistrale della "piece" della sopravvivenza su questo palcoscenico particolare, non è una guida come tante. Non dopo aver scarrozzato i migliori inviati della stampa internazionale, negli anni difficili dell’occupazione come nei giorni altrettanto cruenti delle lotte tra Mujaheddin. E’ con lui che ci avventuriamo a Maidan Shar per attraversare la linea del fronte meridionale e raggiungere i Talebani, i temuti fondamentalisti islamici studenti delle scuole coraniche, che inquadrano Kabuul nel mirino dei micidiali razzi da 22, disponibili in gran quantità in tutti gli arsenali per gentile concessione dell’Armata Rossa, ritiratasi dopo aver letteralmente piantumato l’Afghanistan di armi e munizioni. "Ne abbiamo per anni" ribatte l’addetto ad una mitragliera antiaerea, quasi a interpretare il mio sguardo perplesso.
Ed è sempre la stessa Corolla bianco-gialla che ci fa varcare i cancelli del Wazir Akbar Khan Ortopaedic Centre, dove
Alberto Cairo, unico italiano di Kabul, avvocato di professione ma votato da tempo alla fisioterapia, costruisce protesi per i troppi amputati vittime delle mine. Utilizzando anche, per il giunto elastico della caviglia, la gomma della "mousse" contenuta negli pneumatici dei blindati russi. "Di ottima qualità," - ci spiega - "ma pressochè introvabile se non al mercato nero." Si fatica a crederlo, a giudicare dal gran numero di carcasse sventrate che punteggiano i percorsi stradali più battuti.
Amir Shah, assai noto, non è difficile da scovare, una volta giunti a Kabul. Ma individuarlo nel traffico è forse ancora più facile per l’andatura ridottissima - conservativa, dice lui - della Toyota, che gli ha procurato più di qualche rimbrotto dal passeggero frettoloso di turno. Ogni accenno di impazienza viene però sistematicamente soffocato dalla solita tiritera della vettura-unica-ricchezza-e-preziosa-fonte-di-sostentamento per sé ed i propri cari. Anche in Afghanistan, insomma, si può tenere famiglia.


460199 Le forature sono un'occorrenza assai comune, visto lo stato delle strade e degli pneumatici

Non che guidare un tassì a Kabul sia propriamente uno scherzo (ah, Scorsese...). Occorre procurarsi il carburante, con reperibilità e prezzo isterico come in tutti i regimi di guerra che si rispettino. Riparare il mezzo con i pochi attrezzi disponibili e conoscere tutte le astuzie per dilazionare il ricorso ai ricambi originali, il più delle volte inarrivabilmente costosi, quand’anche disponibili. E poi, attraversare il fronte una dozzina di volte al giorno, sotto la protezione aleatoria di una bandiera bianca e di un’incerta scritta "Press", gettando, come si dice, il cuore oltre l’ostacolo. Magari sotto una pioggia di missili, quasi cadenzati da un crudele metronomo. Ma ad Amir Shah il cuore non manca. Può confermarlo qualunque corrispondente abbia viaggiato con lui, e non sono pochi nè di poco conto, a giudicare anche dal vistoso adesivo "Newsweek" che troneggia sul lunotto; roba da stropicciarsi gli occhi. O dai biglietti da visita, mostrati con sapiente reticenza: "New York Times", "Le Monde", "Corriere della Sera".
E che la vita del tassista sia dura, a Kabul, si incaricano di ricordarlo i fori di proiettile, tutti di calibro rispettabile, che una stuccatura ingenua non riesce a cancellare dal cofano e dalla portiera posteriore della Toyota. Il nostro amico non sembra curarsene. Ci chiede dell’Italia e di rimando racconta per la millesima volta quest’anno la storia di
Markàn, il leone ospite unico dello zoo di Kabul, che ha perso un’occhio per lo scoppio di una granata. Procedendo all’andatura lentissima del tassì di Amirshah, la sera cala in fretta. Alle 22 scatta il coprifuoco, ma se ne accorgeranno in pochi, visto che non c’é energia elettrica. Quella stessa notte, la stellata mozzafiato del cielo della capitale verrà violata da un cacciabombardiere Sukoi, proveniente da Nord, dai territori dell’odiato Generale Dostom, l’Uzbeko tuttora appoggiato dai sovietici. Beffata l’inesistente sorveglianza radar delle forze governative del Jamiat-I-Islami, sgancerà due bombe sul quartiere centrale di Sha-Re-Nau. Per i cinque membri di un intera famiglia, quella di stasera sarà stata l’ultima cena. Ma questo, mentre congediamo Amir Shah, nella luce purissima del tramonto di Kabul, ancora non possiamo saperlo.




UN ANGELO IN KOSOVO (1998)
>A. Raffaele Ciriello


52045 Sally Becker durante il viaggio verso il confine albanese

La raffica risuona attutita, nell'aria rarefatta della radura a 2000 metri d'altezza. Il gruppo, stremato da una giornata di marcia, sembra quasi non reagire. Poi, come al rallentatore, vedo le mie mani richiudere la sacca di tela che è tutto il mio bagaglio. Dopo un attimo sto già discendendo a perdifiato lungo il dedalo di sentieri che ci hanno condotto fin lassù, attraverso la foresta. Fatico a tenere il passo della donna anziana che mi precede e che sembra volare, sulle ali delle sue ciabattine scalcagnate, sopra tronchi, radici, massi. Cado rovinosamente. Gli apparecchi fotografici si fanno insieme pesantissimi ed inavvertibili, mentre il martellare secco delle raffiche alle mie spalle non si allontana in fretta come vorrei. Mi volto e guardo indietro: scorgo soltanto la fiammata degli spari mentre il tappeto di foglie secche si solleva frustato dalle pallottole, a poca distanza. Un caratteristico "puff" annuncia l'arrivo dei primi colpi di mortaio. Un'imboscata in piena regola. Come è potuto accadere?
Da una settimana mi trovo a Unik, capitale dei Territori Liberati del Kosovo. In questa provincia Jugoslava popolata per il 93% da serbi di origine albanese, gli avvenimenti sembrano destinati ad una accelerazione drammatica dopo che il movimento autonomista moderato del leader Ibrahim Rugova è stato affiancato e poi scalzato da una corrente estremista radicale, presente sul terreno con l'Armata di Liberazione del Kosovo, nota come KLA. L'Albania, che vede malvolentieri I "fratelli" Kosovari schiacciati dal pugno di ferro della repressione di Belgrado, si è trasformata, nella regione intorno alla cittadina di Bajram Curri, in una florida base logistica per i combattenti KLA. Questi, giunti da tutta Europa, possono equipaggiarsi, acquistare armi - perlopiù provenienti dagli arsenali di stato albanesi saccheggiati durante i disordini del 97 - e raggiungere il Kosovo attraverso valichi più o meno segreti.
Arrivare qui non è stato facile.
Per evitare le pastoie imposte dai serbi alla stampa internazionale basata a Pristina, supercontrollato capoluogo del Kosovo, sono penetrato illegalmente, attraversando la frontiera tra Albania e Jugoslavia al seguito di una colonna di guerriglieri. Al mio gruppo si è aggregata - a sorpresa - Sally Becker, un' inglese di origine ebraica che ho già intravisto a Bajram Curri. All'hotel Skelzen, unico e fatiscente in questa miserabile Casablanca dei Balcani, la sua vistosa T-shirt col logo "Operation Angels" non passava inosservata.
Sally, una brunetta di 37 anni - "Me ne danno tutti 45" riconosce onestamente - non si trova lì per caso. Pur senza una formazione specifica, si considera da tempo una professionista del soccorso umanitario. Esordisce nel 91, durante la guerra del Golfo, quando si reca in Giordania al seguito di un gruppo di pacifisti e, grazie anche all'appoggio della regina Noor, riesce ad evacuare un centinaio di occidentali intrappolati in territorio iracheno. Nel 1993, in Bosnia, arriva a negoziare, sulla base di accordi personali, un coprifuoco-lampo a Mostar: quanto basta per recuperare 98 bambini feriti dall' ospedale della città musulmana ridotta allo stremo. Questo successo la catapulta sulle prime pagine dei giornali del Regno Unito, le guadagna l'appellativo di Angelo dei Balcani e segna la nascita di "Operation Angels", quasi un marchio di fabbrica per le imprese future. Di pari passo cresce la sua fama di rompiscatole presso le agenzie umanitarie strutturate, che non tollerano che Sally si muova da battitore libero, incurante dei delicati equilibri faticosamente raggiunti sul campo. Per l'inglese questo non è un viaggio di piacere. E' arrivata da Brighton alla guida di una decina di camion stracolmi di farmaci e generi di conforto, destinati alle popolazioni civili del Kosovo.
Proprio in quei giorni, siamo all'inizio di Luglio, i primi sparutissimi gruppi di profughi, sfuggiti alle forze speciali serbe che rastrellano intere regioni applicando alla lettera la dottrina della terra bruciata, riescono fortunosamente a superare le montagne fino al precario asilo di Bajram Curri. Quegli sguardi spenti convincono Sally che c'è ancora molto da fare. Questa volta, in Kosovo.
Valichiamo quindi la frontiera, eludendo la polizia serba ed i suoi sofisticati visori notturni. All'alba, esausti dopo otto ore di marcia nel buio di una notte senza luna, siamo finalmente a Unik.
La città, popolata da 2000 soltanto dei 10000 abitanti originari manca di cibo e carburante; linee elettriche e telefoniche sono state interrotte dai serbi. Il fronte capriccioso dista solo poche miglia e dispensa di tanto in tanto una salva di granate che si distribuiscono imparziali sui tetti martoriati. Perdo di vista Sally per qualche giorno. Alla sua incolumità provvederà Rambo, un giovanottone biondo armato fino ai denti.
E' a Smolica, un piccolo centro poco distante da Unik, che scatterà la molla che trasforma questa inglese minuta in una trascinatrice irresistibile. Quando Sally arriva al villaggio, è appena cessato un attacco di artiglieria. Alcuni bambini sono stati colpiti da schegge, altri hanno riportato ustioni. L'Angelo dei Balcani sa che a Unik non esiste un ospedale. Intuisce immediatamente il da farsi.
Sto rientrando da Nece, un villaggio sulla linea del fronte, quando mi dicono che Sally ripartirà per l'Albania lungo la sola strada percorribile. Alzo lo sguardo alle montagne e alle nuvole gonfie di pioggia. Non mi sembra un buon presagio. Raggiungo Sally e gli altri, pronti a lasciare Unik. Una quindicina di mamme e bambini, alcuni ragazzini feriti non gravemente, qualche uomo disarmato, un anziano combattente KLA e l'immancabile Rambo. Tra tutti, due fucili mitragliatori. Nessuno è equipaggiato per la marcia o per fronteggiare il maltempo e Sally stessa non spicca con le sue scarpette di tela e lo zaino da gita fuoriporta. Come potrà un gruppo talmente eterogeneo procedere silenzioso nella foresta? Mi sforzo anche di non pensare a quel che mi hanno raccontato poche ore prima. Per stroncare l'andirivieni delle colonne di combattenti kosovari, i serbi hanno disseminato la montagna di mine e trappole esplosive. Non sarà una passeggiata: un terreno ostile, un nemico spietato e perfettamente addestrato, una comitiva da incubo.
Due ore più tardi veniamo fermati da una pioggia torrenziale. L'oscurità è già scesa e Sally, che dapprima vorrebbe cercare riparo nella foresta, viene infine convinta a ridiscendere fino a Gjocaj, l'ultimo villaggio attraversato. Ci mettiamo in marcia il mattino seguente. La giornata trascorre lenta, al ritmo di una marcia scandita dalle necessità più elementari: una poppata, un cambio di pannolini.
Donne e bambini fanno miracoli: solo in occasione dei passaggi più impervi gli uomini riescono a strappare i poppanti al grembo delle madri che marciano con ammirevole disinvoltura sul terreno accidentato.
Sally insiste per non aspettare il calar delle tenebre. Vuole arrivare al più presto possibile sull'altopiano di Padesh, in territorio albanese, dove si illude che si trovino ad attenderci le troupe di CNN e di altri network. Ritiene di essere riuscita a dare l'allarme con una trasmittente ad onde corte che invece sarà solo servita a segnalare la nostra presenza alla polizia di frontiera. Siamo troppo in anticipo sull'oscurità complice quando raggiungiamo la zona del valico a circa duemila metri di altezza. Qui è massimo il rischio di venire individuati e subito bersagliati dalle armi automatiche e dai mortai. Ci è forse fatale una sosta troppo lunga, che permette ai serbi di localizzarci con comodo. Alla prima raffica, partita - lo sapremo solo in seguito - dal Kalashnikov di Rambo che si è accorto che siamo stati circondati, il gruppo evapora. A terra, pietrificata, la giovane Hani Hiseni con la figlia Drita e con la piccola Doruntina di quattordici mesi. Sally le si getta addosso per proteggerla dagli spari. Mezz'ora più tardi viene arrestata e separata da Hani. Condotta in prigione, deve subire per due settimane il durissimo trattamento riservato a terroristi e fiancheggiatori. Niente cibo, bevande o sonno per tre giorni di fila. Viene percossa sulle caviglie, già malconce per la lunga marcia. Non mancano le pressioni psicologiche: tentano di convincerla che tutti i componenti del gruppo siano caduti, vittime anche della sua incoscienza. E' questo il supplizio più atroce. Viene infine condannata a "soli" trenta giorni di carcere per essere penetrata illegalmente in territorio jugoslavo.
Il resto del gruppo sfugge miracolosamente illeso al fuoco delle armi automatiche, al tiro dei mortai ed al successivo rastrellamento. Qualche giorno dopo incontrerò la signora Hiseni che viene rispedita sana e salva al suo villaggio dopo essere stata affidata ad una famiglia di Drenica.
Per quanto mi riguarda, non riuscirò a rientrare in Albania prima di una decina di giorni, dal momento che i serbi hanno virtualmente sigillato la regione dei Territori Liberati per soffocare in un abbraccio mortale questa ultima sacca di resistenza.
E Sally? Da vera rompiscatole, inscena uno sciopero della fame che determina l'intervento dell'ambasciata britannica e quindi un rilascio anticipato. La rintraccio a Brighton, all'inizio d'Agosto. Ammette di aver peccato d'ingenuità e si rammarica lucidamente per aver messo a repentaglio tante vite. Pentita? Non risponde, ma la sento sussurrare:" Torno in Kosovo ai primi di Ottobre".




DA CHE PARTE PER CENTRAL PARK?
>A.Raffaele Ciriello

53056 Jogging mattutino in chador e Nike per questa giovane studentessa di Tehran

Gli indaffaratissimi sindaci di casa nostra avrebbero forse qualcosa da imparare dal collega Gholasseim Karbaschi, primo cittadino di Tehran, che negli ultimi anni ha cambiato radicalmente volto a questa megalopoli di 11 milioni di abitanti. I parchi cittadini ad esempio, ampliati ed impeccabilmente curati, si spandono a perdita d'occhio sulle alture di questa città estesa quasi quanto la provincia di Milano. E fin dalle ore antelucane le stradine che si snodano tra il verde da cartolina svizzera si popolano di abitanti che, tetragoni ad ogni sforzo ed insensibili alle inclemenze del cielo di Gennaio, non rinunciano al jogging quotidiano. I meno giovani si esibiscono in una routine di training psico-fisico che termina - da programma - con una gran risata. Non mancano le donne - per lo più studentesse o giovani manager - che abbandonano l'ingombrante chador per una tenuta più "fitness". Scoccate le sette, tutti verso casa per l'inizio di una nuova giornata. Al cronista semi-assiderato non rimane che una tazza di tè bollente presso la chaikana (sala da tè) del parco, mentre invisibili altoparlanti diffondono un' orecchiabilissima marcetta. Central Park non è così lontano.




AUTODROMI E CHADOR
>A. Raffaele Ciriello

53120 Le corse d'automobile possono contare a Tehran sul seguito di un folto e avvertito pubblico femminile

Il commissario di gara che ci farà compagnia per una tranquilla domenica di corse "club" sul Circuito della Federazione Automobilistica iraniana, annegato nel verde dell'immenso Azadi Sport Complex di Teheran, è assai realista.
"Mi scuso - arriva a dichiarare - per la modestia delle competizioni, ma le vetture d'importazione sono una rarità per via degli oneri doganali proibitivi. Stiamo facendo del nostro meglio…"
Spettacolo nello spettacolo, sono però le giovani donne presenti in gran numero a dare il tocco più colorato. Non ancora ammesse negli stadi, stante la volontà - come dichiaratoci dal presidente della Federazione Calcio iraniana, il Sig. Turabian - di tenerle al riparo dalle esuberanze lessicali così frequenti tra i seguaci della pedata, queste tifose si rifanno, con gli interessi, sulle tribunette del circuito.


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E poco importa se, nella concitazione di una sbiellata, e sotto lo sguardo accigliatissimo dell'onnipresente Khomeini, uno chador scivola giù lasciando scoperta qualche ciocca di troppo...


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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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INTERVIEW
with A. S. Massud
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