Postcards From Hell: Stories by Andrea Nicastro
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
AFGHANISTAN 2001, stories by Andrea Nicastro
AFGHANISTAN 2001, stories by Ettore Mo
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martedi , 25 settembre 2001
POLITICA ESTERA
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I vicini dell' Afghanistan schierati con l' America

Tre ex repubbliche sovietiche gli alleati più utili di Washington. Il Kazakistan è «pronto all' azione» Offerte di collaborazione vengono anche dal Tagikistan e dal Turkmenistan
Andrea Nicastro

I vicini dell' Afghanistan schierati con l' America Tre ex repubbliche sovietiche gli alleati più utili di Washington. Il Kazakistan è «pronto all' azione» DAL NOSTRO INVIATO ASTANA (Kazakistan) - Fino alla caduta dell' Urss erano uno più comunista d ell' altro. E a dieci anni di distanza il loro stile di governo non è cambiato granché. Eppure i presidenti di almeno tre delle repubbliche ex sovietiche dell' Asia centrale sono, o potrebbero presto diventare, i più utili alleati dell' attacco milit are americano contro Bin Laden e i talebani. LA CARTINA - Basta una cartina per capire come mai interessino tanto Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e più a nord (non confinante) il Kazakistan: sono i vicini settentrionali dell' Afghanistan. Dalle loro basi potrebbero partire non solo i bombardieri Usa, ma anche gli elicotteri per il recupero di eventuali piloti abbattuti o di squadre di commandos. In più si potrebbero piazzare ai loro confini sistemi di controllo e ascolto verso il Paese dei talebani. E, infine, sarebbe più semplice avviare incursioni via terra rispetto a quelle che dovrebbero, ad esempio, scavalcare il terribile Khyber Pass pachistano. E tutto ciò senza considerare quelle «difficoltà interne» del Pakistan di cui ha parl ato il segretario di Stato Colin Powell. «Difficoltà» che rendono controproducente un ulteriore coinvolgimento del tradizionale alleato Usa. Il rischio è l' esplosione dell' integralismo. Ma come è possibile trasformare il fronte sud dell' ex «impero sovietico del male» in una retrovia americana? La risposta era probabilmente nella telefonata tra i due presidenti, Bush e Putin, di sabato. Un' ora di conversazione che nessuno dice quanto è costata a Washington. Uguale aiuto in Cecenia? Addirittur a la rinuncia allo scudo spaziale? Si vedrà nel tempo. KAZAKISTAN - Nella capitale Astana, il presidente Nursultan Nazarbayev ha scelto ieri la Cnn per annunciare: «Siamo pronti all' azione. Daremo tutta la cooperazione necessaria». Nazarbayev è il l eader di maggior successo nell' area. Non solo è rimasto al potere ma ha anche tenuto il Paese fuori dai conflitti. La sua ricetta prevede una «democrazia all' orientale», cioè autoritaria. Il suo controllo del Paese non è in discussione. «I talebani - insiste Nazarbayev - erano un problema per noi anche prima dell' attacco all' America. Quando a Kabul si parla di Emirato islamico dell' Asia centrale, si lancia una minaccia all' intera area. E quando i talebani organizzano la coltivazione e il t raffico di droga, non fanno altro che raccogliere fondi per addestrare e armare il terrorismo. Tra il 1999 e il 2000 ci sono stati attentati terroristici in Uzbekistan e Tagikistan e la nostra risposta è stata un' alleanza che può anche esprimersi mi litarmente». UZBEKISTAN - In attesa di un chiaro pronunciamento del Turkmenistan, è al momento la più probabile retrovia dell' azione americana e britannica. Indiscrezioni parlano di almeno due C130 da trasporto Usa atterrati sabato nella capitale Ta shkent. Avrebbero scaricato attrezzature per lo spionaggio elettronico e un centinaio di uomini. Un' avanguardia? È probabile. Con il via libera di Putin il presidente Islam Karimov, che già combatte contro un tentativo di secessione di matrice integ ralista nella valle di Ferghana, può offrire molto alla coalizione internazionale. Vicino alla capitale c' è la più grande base aerea della zona. E, proprio a ridosso del confine con l' Afghanistan, altri due aeroporti militari. TAGIKISTAN - Per gli Usa è preferibile l' Uzbekistan autoritario rispetto al Tagikistan nel caos politico e militare cui un terzo del territorio è di fatto in mano a ribelli islamici filo-talebani, padroni anche di un terzo dei posti del Parlamento. L' offerta di collabo razione venuta dal presidente Emomali Rakhmanov non è comunque da disprezzare. Dal Tagikistan partono i rifornimenti per l' Alleanza del Nord, quei mujaheddin dello scomparso comandante Massud che potrebbero rivelarsi una fonte d' informazioni e una testa d' ariete fondamentale. Rifornendo a dovere loro, gli americani potrebbero sperare di non impegnare proprie truppe per il controllo del territorio come furono invece costretti a fare i sovietici. E limitarsi invece alle incursioni dei commando. Andrea Nicastro




martedi , 25 settembre 2001
RELIGIONE MUSULMANA
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«No alla guerra Bisogna punire solo i colpevoli»


Andrea Nicastro

IL GRAN MUFTI' DEL KAZAKISTAN «No alla guerra Bisogna punire solo i colpevoli» DA UNO DEI NOSTRI INVIATI ASTANA - «Ho espresso le condoglianze della mia comunità al popolo americano e spero ci sarà giustizia. Se ci sono due o tre colpevoli bisogna gi udicarli e punirli. Senza però far soffrire un popolo intero». Il Gran Muftì ha fretta. «È molto impegnato oggi», gli ruba la parola il sottosegretario del ministero alla Cultura inviato a controllare il suo incontro con un gruppetto di giornalisti. È chiaro che per la massima autorità islamica del Kazakistan questo appuntamento è un problema e ripete sorridendo: «Scusate, ma non sono un politico». Secondo Absattar Derbassaliev i predicatori afghani che tengono banco in molte delle sue 1.500 nuo ve moschee sono un problema politico e si guarda bene dal ripetere il suo appello per un ritorno alle «radici arabe dell' Islam». È un professore di fama, Derbassaliev, un arabista, filologo e persino diplomatico di «prima classe». Sa stare in equili brio sulle parole. Soprattutto davanti al sottosegretario del Ministero. «L' Islam è la religione della pace - spiega - e sono contrario a chi mescola fede e politica per perseguire i suoi fini». Sì, ma se i talebani dichiarassero la Guerra Santa con tro l' America come si comporterebbero i musulmani kazaki? Alcuni hanno detto di essere pronti ad appoggiarli. «Bisogna punire i colpevoli, non scatenare guerre». Vuol dire che è contrario a un intervento militare in Afghanistan? «Io non faccio polit ica - scivola via Derbassaliev -, come posso parlare anche di Stati stranieri?». La visita del Papa saprà influenzare il dialogo tra musulmani e cristiani qui in Kazakistan? «Cito le parole del profeta Maometto: "Il vero musulmano non fa differenza d i nazionalità. La moschea è sempre aperta a tutti i credenti". Il Kazakistan che al 70 per cento si dichiara musulmano, è un Paese che sa cos' è la sofferenza. Ha accolto milioni di deportati ai tempi di Stalin e ne ha condiviso il dolore. La nostra è una società dove a nessuno viene chiesto di quale nazionalità è quando entra in ospedale e questa tolleranza, che ha permesso la convivenza pacifica di cento diverse etnie, si estende anche alle religioni. Nei miei discorsi in moschea ricordo sempr e il valore della pace interna e del dialogo interreligioso». Come mai allora il presidente Nursultan Nazarbayev ha dovuto varare leggi speciali contro la diffusione del fondamentalismo talebano che monta da Sud? «Non spetta a me spiegare perché si f anno o non si fanno le leggi. Dico solo che da 35 moschee che avevamo nel 1991 oggi ne abbiamo 1.500 e che i fedeli al venerdì affollano anche i cortili attorno agli edifici». Costruiti con denari sauditi e pakistani, si dice... «Macché, tutti doni d ei fedeli kazaki». Andrea Nicastro




sabato , 29 settembre 2001
GUERRA CIVILE
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A Faizabad, capitale degli orfani di Massud


Dalla roccaforte nell' Afghanistan del Nord i combattenti anti-talebani preparano il ritorno a Kabul
Andrea Nicastro

A Faizabad, capitale degli orfani di Massud Dalla roccaforte nell' Afghanistan del Nord i combattenti anti-talebani preparano il ritorno a Kabul DAL NOSTRO INVIATO FAIZABAD (Afghanistan del Nord) - A respirare la polvere di questa «capitale» dai muri di fango e sterco mescolati assieme, non si direbbe che la strategia internazionale per la lotta al terrorismo debba passare anche da qui. Il meglio che la civiltà mette a disposizione sono gli asini per portare la legna alle stufe e i rigagnoli di fogna che corrono al centro delle strade sterrate. Eppure Faizabad è finita sulle cartine della Casa Bianca, con un segno rosso a sottolinearne il nome. Le teste d' uovo che studiano per il presidente Bush il modo di eliminare il pericolo terroristic o dal mondo occidentale stanno soppesando l' incredibile capacità di resistenza di questi montanari, ma anche gli svantaggi politici che un eventuale appoggio potrebbe derivare per gli interessi americani a lungo termine nell' area: gli oleodotti del mar Caspio, ad esempio, oppure un ritorno dell' influenza di Mosca sull' Asia Centrale. I mujaheddin e gli Usa si sono trovati ad avere gli stessi avversari, i talebani e Osama Bin Laden, ma non è detto che avere dei nemici in comune significhi esse re alleati. In queste casupole incastrate tra le montagne ci sperano tutti. Sognano nuovi Stinger, nuovi mitra, magari anche solo nuove radio per combattere i talebani che da 7 anni tentano di avanzare dalla pianura. Qui arrivano i feriti, gli orfani , i rifugiati delle prime linee. Da 7 anni più o meno allo stesso punto. Dieci chilometri davanti, dieci chilometri indietro. Ora, con lo slancio dato dalla speranza di un intervento americano di qualche diserzione tra le file talebane, sono passati all' attacco e hanno conquistato anche qualcosa in più di quei dieci chilometri. Faizabad è una sorta di fortino naturale. I ghiacciai dell' Hindo Kush la proteggono da Pakistan e Cina. Altre terribili montagne la separano dal Tagikistan ex-sovietico e anche verso il resto dell' Afghanistan è come se la regione su cui domina la «capitale» dalle case di fango, abbia solo due entrate: una a ovest, a Kalafghan, l' altra a sud-ovest, nella celebre valle del Panshir dove sette colossali offensive sov ietiche vennero respinte proprio dalla gente di Faizabad. Dal ' 97 le falangi talebane tentano di aprire quelle porte senza successo. Qui ha sede il governo che è stato cacciato dall' ingresso dei talebani nella capitale afghana Kabul. E' il centro d ello Stato islamico dell' Afghanistan, lo Stato anti-talebano che dispone di un seggio all' Onu, di ministeri, ambasciatori, una scuola per infermieri, un esercito, una sorta di aviazione militare (mezza dozzina di velivoli), ma non di una strada asf altata o di una rete elettrica. In compenso, forse l' unica scritta in inglese della regione, dice: «Lo Stato islamico dell' Afghanistan è impegnato nella lotta alla coltivazione, alla produzione e al traffico di droga». Ma gli esperti non ci credono , pensano anzi che i dollari ai combattenti arrivino oltre che da Iran e Russia, soprattutto dai campi di papaveri. Stessa fonte di finanziamento dei nemici del regime talebano. Se i confini geografici e militari sono strani, quelli culturali lo sono meno. Anche in questo 10 per cento di Afghanistan lo «Stato» si definisce islamico. Il presidente Burhanudden Rabbani è un professore di Teologia. Ieri, dopo avere incontrato i giornalisti stranieri, è andato in moschea a tenere un «sermone» alla pr eghiera del venerdì. Qui come a Kabul le donne vanno in strada velate da capo a piedi, con la burka azzurra. Ma a Fiazabad non è obbligatorio per legge come invece lo è nell' area controllata dai talebani. A Fiazabad le donne possono lavorare fuori c asa e nella scuola per infermieri ce ne sono 150 su 500 allievi. Gulbuddin ha 21 anni. Fa il guerrigliero dal ' 96. Fa parte della guardia presidenziale: 12 ragazzi appostati fuori dalla moschea durante il discorso del presidente. Sei sposato? «No, q uando avremo liberato l' Afghanistan potrò farlo». Che cosa pensi dei talebani? «Animali. Ero a Kabul quando l' hanno conquistata e ho visto ammazzare un uomo che aveva fatto il pellegrinaggio a La Mecca e poi portare via moglie e figlia per venderle a qualche pachistano». E tu perché eri lì? «Ero con il comandante Abdul Samei Khan che combatteva dalla parte dei talebani». Il caso di Gulbuddin e del suo comandante non è affatto infrequente. Per anni le alleanze si sono fatte e disfatte a seconda delle convenienze del momento, delle alleanze tribali e, soprattutto, del vantaggio dei vari comandanti. Ce n' era uno, Ahmed Shah Massud, che aveva abbastanza autorità e fama da mettere tutti gli anti-talebani d' accordo. Ma è stato ucciso. Le stra de di Faizabad sono piene delle sue fotografie. Tutti sembrano avere un ricordo personale di lui («Mi ha accarezzato i capelli quando avevo tre anni» o «Ha salvato mio zio mujaheddin»). Un ragazzino di nove anni, Pilal, gira la ruota di una biciclett a collegata ad una macchina da cucire e ricama così dei fiorellini sulla tela: «Massud era un uomo diverso da tutti gli altri» dice. Pilal ha perso i genitori in guerra e la mattina gira la ruota perché l' orfanotrofio di Faizabad non ha abbastanza s oldi per i quaderni e il riso dei quaranta ospiti. Che cosa pensi dell' America? «Ci aiuterà a sconfiggere i talebani». Andrea Nicastro



sabato , 29 settembre 2001
GUERRA CIVILE
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«Amici, aiutateci ma non avventuratevi qui»


«Condividiamo la lotta al terrorismo. Abbiamo avuto contatti diplomatici, ma non abbiamo ancora ricevuto mezzi militari dagli americani»
Andrea Nicastro

Parla il presidente «mujaheddin» Rabbani, alleato dell' Occidente «Amici, aiutateci ma non avventuratevi qui» DAL NOSTRO INVIATO FAIZABAD (Afghanistan del Nord) - «Osama Bin Laden non sta mai fermo più di qualche notte nello stesso rifugio. Subito do po gli attacchi terroristici in America ha lasciato la sua base di Jalalabad per rifugiarsi nell' Afghanistan centrale». Burhanuddin Rabbani, presidente dell' Afghanistan anti-talebano, non dice di più, ma affidando il messaggio a un gruppetto di gio rnalisti stranieri fa sapere di essere in grado, se qualcuno glielo chiedesse, di poter scoprire molte cose sul nemico numero uno dell' America. «I nostri informatori», insiste come a sollecitare l' interesse di ascoltatori diversi, al Pentagono maga ri, rispetto a quelli che ha davanti. Il quartier generale del presidente Rabbani è una spettacolare casa circolare a un piano aggrapata a uno spunzone di roccia proteso sul fiume Kukcha, che taglia in due la capitale. È una delle quattro, cinque cas e in muratura della parte vecchia di Faizabad, l' ultima «capitale» rimasta al presidente dopo che i talebani hanno conquistato pezzo a pezzo il novanta per cento del Paese. Secondo quanto è trapelato da Washington squadre speciali statunitensi e bri tanniche sono già entrate in Afghanistan a fianco degli anti-talebani. Ma il presidente smentisce: «Non abbiamo alcun soldato americano o occidentale sul nostro territorio». Niente aiuti dall' Occidente, quindi? «Nessun commando o testa di cuoio è co n noi - sostiene Rabbani con evidente rammarico -. Abbiamo avuto dei contatti diplomatici, ma ancora nessuna assistenza militare logistica». Barba bianca come il turbante, il presidente parla con voce bassa e calma, come si compete a un professore di teologia. «Lo Stato islamico d' Afghanistan combatte il terrorismo da 7 anni. Sono i talebani ad alimentarlo. Prima dell' attacco all' America, nessuno ascoltava i lamenti del popolo afghano. Ora noi siamo a fianco della campagna mondiale contro il terrore. Per noi c' è anche una ragione in più, vogliamo salvare il nostro popolo». Che cosa potrebbe suggerire all' Occidente per eliminare il pericolo rappresentato dai talebani? «Noi siamo contro un intervento diretto in Afghanistan. La storia spi ega che nessuno straniero è riuscito a prendere il Paese e quando ci ha provato ha solo creato distruzione e sofferenze. Gli afghani devono poter decidere da sé, attraverso un' assemblea di anziani, un referendum o elezioni generali». Il re Zahir, in esilio a Roma, potrebbe essere l' uomo superpartes? «No, può aiutare se vuole, ma non è una soluzione». I suoi comandanti sono da anni sulla difensiva, senza Massud (ucciso in un attentato), molti sono convinti che non abbiate la forza di rovesciare la situazione militare. «L' amnistia per chi ha combattuto dalla parte dei talebani sta dando i suoi frutti e dozzine di loro soldati stanno passando dalla nostra parte. La comunità internazionale deve invece far sentire la sua pressione sul Pakista n. Deve impedire che cittadini pachistani vengano qui a combattere e deve chiudere i canali di rifornimento per i talebani. Se poi gli Usa vorranno adoperare altre armi per sradicare il terrorismo, noi saremo al loro fianco». A. Ni.



domenica , 30 settembre 2001
GUERRA CIVILE
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I talebani cercano di comprare i mujaheddin


Agenti del regime diffondono tra i combattenti del Nord offerte milionarie in cambio del tradimento
Andrea Nicastro

I talebani cercano di comprare i mujaheddin Agenti del regime diffondono tra i combattenti del Nord offerte milionarie in cambio del tradimento DAL NOSTRO INVIATO KALAFGHAN (Afghanistan del Nord) - Il comandante mujaheddin scosta una mitragliatrice a nastro e prende un mazzo di fogli spiegazzati, tenuti assieme da un elastico. «Ecco qui la lettera dell' ultima spia che ho fatto arrestare. Ma ne ho anche altre, almeno una decina, qualcuna come questa del mullah Omar, altre dell' emiro Osama Bin L aden, il terrorista». La carta è poco più grande di un bloc-notes, con un' intestazione stampata che dice «Emirato islamico d' Afghanistan», lo Stato dei talebani. In fondo c' è un timbro blu: «Ministero della Difesa, Kabul». E la firma: «Il segretar io di sua Eccellenza Mullah Omar», il misterioso, invisibile capo dei talebani. «Doveva essere la prova che la spia parlava a nome del mullah - spiega il generale Pir Mohammed - e che i 300 mila dollari che mi stava offrendo per passare dalla sua par te sarebbero effettivamente arrivati». Trecentomila dollari, almeno 650 milioni di lire (335mila euro): nell' Afghanistan che sembra mai uscito dal Medioevo, sono una cifra capace di cambiare la vita. Sulla pista sterrata che porta alla casermetta de l generale ci sono decine di operai, dai 9 ai 60 anni, che spalano sassi e rompono rocce a colpi di piccone per rendere appena più percorribile la «strada». Per un mese di lavoro ricevono 5 chili di riso a testa da un' organizzazione svedese per lo s viluppo (la Swedish International Council). Gli stessi mujaheddin del generale, guadagnano l' equivalente di 400 lire al giorno, ma in farina e olio. «Un altro messaggero inviato da Bin Laden - racconta Pir Mohammed - voleva che fossi io a decidere i l prezzo. Mi ha avvisato solo che l' emiro è una persona ricca e che, nel nome della guerra santa per il vero Islam, sarebbe stato disponibile a farmi avere il denaro che chiedevo». Pir Mohammed ha deciso di non tradire, «tutti i messaggeri sono dive ntati prigionieri di guerra», e invece di comprarsi una casa in Pakistan, in muratura con elettricità e acqua corrente, è restato a difendere Kalafghan, la porta nord occidentale della zona controllata dall' Alleanza del Nord, gli anti talebani. Non sono tanti i mujaheddin che si sono comportati come lui. Nel ' 97 le colonne talebane sono arrivate alla periferia di Kabul senza sparare un colpo. I comandanti di guardia alla strada che dal Pakistan conduce alla capitale afghana si erano fatti da p arte senza combattere. Forse proprio per qualche centinaia di milioni. I messaggeri del tradimento sono in fondo un' ulteriore variante di kamikaze: non si fanno saltare in aria e non dirottano aerei contro i grattacieli, ma si presentano al comandan te nemico senza darsi possibilità di fuga. Se l' ufficiale accetta di cambiare bandiera, l' intermediario diventa un eroe della jihad. Altrimenti finisce in un campo di prigionia, da dove potrebbe anche non uscire per tutta la vita. Pir Mohammed, 40 anni, è rimasto sul fronte. Comanda, sostiene, 4 mila uomini e difende una prima linea lunga 15 chilometri. È stato ferito tre volte, in faccia, a una gamba e a un rene, ma tiene chiusa da 6 anni la porta verso l' altipiano di Faizabad e, da lì, la v alle del Panshir. Dopo qualche insistenza, accetta di mostrare la sua linea di fuoco a un gruppetto di giornalisti che è andato a trovarlo a Kalafghan. Le jeep slittano sulla sabbia, ma devono seguire il pick-up giapponese del comandante dentro la su a nuvola di polvere. Perché da una parte o dall' altra ci sono le mine. I mujaheddin del generale stanno aggrappati fuori dalle jeep, con i kalashnikov a tracolla e il volto protetto dal turbante come beduini. La pista sale ripidissima. Assieme al pi ccolo convoglio vanno verso la cima anche decine di asini carichi di razzi katiusha e bombe da 107 mm da carro armato. «Lotto 10-5-1997» si legge sul volantino in inglese che ne illustra le virtù belliche. «In quella valle - indica Pir Mohammed una v olta in vetta al monte Capasang, il punto più alto del fronte - abbiamo fermato l' offensiva talebana di dieci giorni fa. Hanno cominciato a bombardare di notte. Si sono mossi anche due loro caccia Sukhi 23 e poi hanno lanciato le jeep per conquistar e la cima di quel monte. Li abbiamo fermati». I tre tank T-55 che il generale tiene interrati in posizione strategica hanno sbarrato la strada. «Diciassette talebani sono morti e i loro corpi sono ancora nella valle, assieme alle carcasse delle autom obili che hanno bruciato prima di ritirarsi a piedi». Probabilmente nessun soldato occidentale potrebbe sopravvivere a questo genere di vita al fronte. I «baraccamenti» dei mujaheddin sono buchi scavati nelle trincee dove si dorme su stuoie consunte, uno attaccato all' altro, senza neppure sacchi a pelo, avvolti nei teli che di giorno si arrotolano a turbante. Il rancio è quello tipico afghano: riso e carne di montone o vacca. Cotto sulla legna. L' acqua però arriva con gli asini direttamente da l fiume Farkhar. La dissenteria è una certezza. Non c' è bagno, non c' è doccia, i turni durano almeno 15 giorni. Se mai gli Usa dovessero optare per un attacco via terra contro le basi di addestramento di Bin Laden dovrebbero organizzare un supporto logistico mastodontico. Qualunque alimento o bevanda dovrebbe arrivare dall' estero. Bisognerebbe importare perfino la benzina per le automobili. Quella che si trova qui farebbe grippare alla prima accelerata i sofisticati motori moderni. «Gli ameri cani non devono venire in Afghanistan a combattere - sostiene il generale -. Ci basta l' aiuto dell' aviazione, qualche fornitura di armi e munizioni e andremo noi a prendere Bin Laden». Lasciata a se stessa, è difficile che la coalizione anti taleba na, l' Alleanza del Nord, riesca a ribaltare una situazione statica da 6 anni. Nel 2000 proprio da questa parte del fronte, i talebani hanno conquistato Talaqan, un importante centro sulla via per Kalafghan. Ma neppure quello è stato un colpo decisiv o. Questa guerra non si combatte con cariche massicce. Le forze in campo dal punto di vista numerico sembrano equivalersi: 15/20 mila combattenti per parte. Quello che conta per un' avanzata, sembra essere la quantità di munizioni disponibili. E la c orruzione. Washington potrebbe voler giocare proprio questa carta. Andrea Nicastro anicastro@corriere.it



martedi , 02 ottobre 2001
VARIE
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Ismail Kahn, l' ultimo leone afghano sfuggito alle prigioni del mullah Omar


Eroe della resistenza antisovietica, fece a pezzi i suoi nemici e ne issò le teste sui bastoni
Andrea Nicastro

FRONTE AFGHANO REPORTAGE Ismail Kahn, l' ultimo leone afghano sfuggito alle prigioni del mullah Omar DAL NOSTRO INVIATO FAIZABAD (Afghanistan del Nord) - Eliminato un «Leone», il leggendario comandante Massud, i talebani se ne trovano di fronte un al tro, Ismail Kahn. L' ultimo per loro fortuna. Credevano di averlo tolto definitivamente dal gioco nel ' 97, quando sulla spinta della presa di Kabul, erano riusciti a catturarlo e a chiuderlo nella prigione di Kandahar, proprio a due passi da dove ab ita il mullah Omar, protettore di Osama Bin Laden. Da lì non avrebbe dovuto mai avere la possibilità di scappare. La città nel deserto è, più della stessa Kabul, il centro del regime talebano. E' sui tappeti della casa del mullah che vengono prese le decisioni importanti per l' Emirato Islamico d' Afghanistan e tutt' attorno, tra la gente, il consenso è fortissimo. Il trattamento riservato a Ismail Kahn, poi, era almeno proporzionale alla sua fama. Tra i mujaheddin anti-talebani girano storie ra ccapriccianti sulle sue prigioni. Per due anni Ismail Kahn sarebbe stato picchiato e torturato ogni giorno, tenuto incatenato mani e piedi e liberato solo per le 5 preghiere quotidiane e la pulizia. Leggenda o realtà, è un fatto che il Leone di Herat , a 50 anni suonati, sia riuscito a scappare proprio dalla roccaforte dei suoi nemici. A liberarlo sarebbe stato un «talebano» della guardia personale del mullah Omar. Integralista convinto ma anche afghano rispettoso degli ordini paterni. Così quand o il padre, ex ufficiale delle bande di Ismail Kahn, ha ordinato al figlio di aiutare il Leone in gabbia, la devozione filiale ha avuto la precedenza sulla religione e la politica. Risultato: Ismail Kahn è evaso sul Land Cruiser Toyota dai vetri oscu rati del pretoriano del mullah e, mentre tutti si aspettano che l' America cominci a colpire Bin Laden e i suoi protettori, il Leone di Herat è tornato a combattere. Il vecchio mujaheddin vanta già la conquista di una mezza dozzina di distretti a cav allo di tre diverse province. Accanto a lui ci sarebbe il figlio 30enne Mirwais. In più la sua offensiva si inserirebbe in un grande piano di accerchiamento di Kabul da Nord. La «tenaglia» dovrebbe partire dalle zone appena «liberate» da Ismail Kahn, salire a Nord-Est verso Mazar-i-Sharif dove una settimana fa è ricomparso il generale Dostum (un altro vecchio mujaheddin della resistenza anti-sovietica) per poi congiungersi alla zona rimasta sempre fuori dal controllo talebano che è quella difesa sino alla sua morte dal comandante Massud. Ci sarebbe addirittura una quarta sacca di resistenza, nel centro del Paese, dove vivono popolazioni discendenti dai soldati di Gengis Kahn e che oggi rispondono agli ordini di Kharim Kalili. Un giornale pa kistano solitamente vicino ai talebani, accredita in qualche modo questo ampio schieramento, anche se, precisa, l' «attacco di Ismail Kahn è stato respinto». A Faizabad c' è però anche chi racconta una storia diversa, meno propagandistica e più afgha na, tribale e complessa. Di sicuro lontana dall' idea occidentale di guerra, con spostamenti di truppe e carri armati. Turan Ismail Kahn non è alla testa di alcun battaglione in marcia. Quel che ha fatto è rientrare di nascosto nelle sue zone attorno alla città di Herat. Qui il «Leone» è un po' come l' Innominato manzoniano, un signorotto con al suo servizio tanti Don Rodrigo, ognuno dei quali ha il suo esercito privato di «bravi» che, invece degli schioppi, hanno i carriarmati rubati ai sovieti ci. Ismail Kahn ha governato per sette anni su tutto l' Afghanistan occidentale, garantendo una relativa sicurezza e guadagnandosi rispetto. La fama di combattente se l' era già conquistata ai tempi della rivolta contro uno dei governi-fantoccio impo sti da Mosca. Allora era solo un capitano dell' esercito afghano, ma collaudò i suoi denti da leone facendo a pezzi cento consiglieri sovietici presenti in città. Tanto per far capire al mondo con chi aveva a che fare, Ismail Kahn fece portare per le strade della città le teste dei sovietici infilzate in cima ai bastoni. La reazione fu altrettanto terrificante, con cinquemila morti sotto i bombardamenti. Cinquemila, ma non lui, che fu il primo mujaheddin a ricevere i missili Stinger terra-aria d agli americani e tra i primi a riconquistare dai sovietici la sua città. Ora ha cominciato a chiamare i suoi ex uomini, i capi-villaggio, i «comandanti» che, convinti o meno, con lui in cella, s' erano messi dalla parte dei talebani vincitori. Chiama gli uomini ed aspetta che gli Usa finanzino la sua milizia, come gran parte degli oppositori del regime integralista di Kabul. Nuovi abboccamenti sarebbero avvenuti proprio ieri. Nel frattempo rimette a lucido come può vecchi pezzi d' artiglieria e fa sapere al mondo che anche lui potrebbe servire a prendere Osama Bin Laden. Una volta attaccava le teste dei suoi nemici sui bastoni. Adesso è pronto a posarle su un piatto d' argento. Andrea Nicastro



venerdi , 05 ottobre 2001
POPOLAZIONI
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Gino Strada al fronte «Ci sono tbc e malaria. Bambini i più colpiti»


Il fondatore di Emergency: manca il cibo, nel Nord mandano pochi aiuti
Andrea Nicastro

IL CHIRURGO DI GUERRA Gino Strada al fronte «Ci sono tbc e malaria Bambini i più colpiti» DAL NOSTRO INVIATO ANOBA (Afghanistan del Nord) - Oggi l' ospedale di Emergency serve a quelli come Wasil, 9 anni, che lunedì lavorava nel campo di papà, vicino a casa, ma evidentemente anche troppo vicino al fronte tra talebani e oppositori. Una pallottola vagante l' ha colpito ad una spalla. È stato operato e da tre giorni non riesce a dormire. Appena chiude gli occhi, vede bocche di kalashnikov arrivargl i addosso. Lo tengono calmo a dosi di valium. Domani, però, l' ospedale potrebbe diventare punto di riferimento per un' ondata di profughi: prima i bombardamenti americani in risposta al terrorismo, poi la rottura delle linee talebane, quindi la mare a dei fuggiaschi. Verso il Pakistan, dove stanno arrivando tonnellate di aiuti internazionali o verso nord, nelle zone controllate dagli anti-talebani, dove non sta arrivando proprio nulla. Questa è zona di guerra e le agenzie umanitarie hanno quasi tutte evacuato il personale internazionale. Restano, a ranghi ridotti, Croce rossa, Medici senza frontiere e l' italiana Emergency che ha invece rafforzato il presidio. Gino Strada è il chirurgo fondatore di Emergency. «Chirurgo di guerra». Ha altri ospedali come questo del villaggetto di Anoba, nella valle del Panshir, in altre aree calde del mondo, ma appena si è cominciato a parlare di «reazione americana» si è messo in marcia. Dal Pakistan al Panshir, 5 giorni sulle mulattiere dei contrabban dieri, a piedi e a dorso d' asino. Che cosa si aspetta, dottor Strada? «Problemi. Almeno se ci saranno grossi movimenti di popolazione. Per il freddo innanzitutto. Già qui, dov' è l' ospedale, siamo a 1.400 metri e di notte la temperatura scende pare cchio. Fra un mese arriverà il gelo. Le tende, ammesso che possano esserci, non basteranno. E poi che cosa mangeranno gli sfollati? Questa è una enclave con enormi problemi di approvvigionamento. L' ultima volta che noi abbiamo portato rifornimenti p er 40 tonnellate ci abbiamo impiegato 22 giorni. Ma ammettiamo pure che sopravvivano a pane e acqua. Saranno comunque ammassati e senza accettabili condizioni igieniche». Sarà la volta delle infezioni? «Già in condizioni "normali", dopo 22 anni di gu erra, ci sono problemi di tubercolosi e di malaria. Si stanno anche rivedendo bambini con la poliomelite perché per anni non ci sono state vaccinazioni. Con un' ondata di profughi, chissà?». Dal Pakistan arriva l' allarme per un' epidemia di febbre e morragica. «A me non risulta. Ancora, almeno». In sé l' ospedale di Emergency non è nulla di speciale. Quattro camerate per un centinaio di letti, due sale operatorie, una macchina a raggi X. I colori sono il bianco e il rosso. Le pareti verniciate d i smalto lucido, i letti fatti in legno dagli artigiani della valle. Niente computer, niente Tac, niente risonanza magnetica nucleare. La tecnologia dei nostri ospedali è rimasta là, qui tutto è spartano, semplice, pulito. Eccezionale. Il fatto è che questo ospedale italiano, nell' Afghanistan del Nord controllato dagli anti-talebani, è l' unica struttura in muratura che s' incontra in ore e ore di strada. I villaggi che negli anni ' 80 hanno respinto l' invasione sovietica sono fatti in legno e fango secco. I tappeti, che danno un' aria tanto esotica agli interni, servono proprio a coprire la terra sfarinata sotto i piedi. In tali condizioni, mantenere l' igiene di un ospedale è un incubo. Ad Anoba ci sono riusciti. Ma anche quest' oasi ve rrebbe travolta dai profughi. Perché, mentre tutti scappano, voi avete fatto il percorso inverso? Eroismo? «No, quando un mese fa la polizia religiosa dei talebani ha aggredito con i mitra il nostro ospedale di Kabul, abbiamo evacuato il giorno dopo. Da questa parte del fronte, però, non vedo pericoli imminenti per lo staff». E l' Onu, allora? Perché ha richiamato il personale? «L' ha fatto il giorno dopo gli attentati, con una fretta a dir poco sospetta. Io credo che l' Onu abusi della sua atti vità umanitaria per fare politica e questo non mi piace. Anche perché i politici sbagliano troppo spesso. Il caos di questo Paese ne è esempio lampante: prima americani e sauditi hanno finanziato i gruppi estremisti islamici attraverso i servizi segr eti del Pakistan. Ora che questi, grazie ai dollari, si sono dati al terrorismo, si preparano a bombardarli. No, da questi giochi stupidi e pericolosi gli aiuti umanitari devono rimanere fuori il più possibile». Andrea Nicastro



lunedi , 08 ottobre 2001
GUERRA
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L' Alleanza del Nord: «Finiremo noi il lavoro»


Nei territori afghani controllati dall' opposizione i mujaheddin si preparano all' offensiva contro Kabul. Abdullah Abdullah, ministro degli Esteri dell' opposizione: «Aspetteremo almeno il secondo attacco americano. Poi, verificati i danni subiti dalle forze governative, daremo l' assalto finale»
Andrea Nicastro

L' Alleanza del Nord: «Finiremo noi il lavoro» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SARAJ (Afghanistan del Nord) - C' era una perfetta notte da bombardieri ieri su Kabul. Il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord, gli anti-talebani, aveva appena congedato i giornalisti con un sorriso complice: «Il primo colpo sarà presto, molto presto». Il tempo di vedere le stelle ed ecco sulla piana di Shamali, tra la capitale e il fronte che divide talebani e mujaheddin, i primi bagliori. Missili Tomahawk probabil mente. La scia arriva da Sudest, dall' Oceano Indiano dove sono le portaerei e i sottomarini americani e britannici. Il lampo e il botto erano ad almeno quaranta chilometri da Kabul. Poi altri colpi, una decina nel giro di mezz' ora. Sempre alla peri feria settentrionale della città. La gente del bazar di Jabal Saraj, in territorio controllato dagli antitalebani, lasciava le botteghe per andare a guardare. «Mai visti botti così». «Non sono armi nostre». «È cominciato, è cominciato davvero». Sono le 18.30 in Italia, le 21 in Afghanistan. Jabal Saraj, dove sono confinati i giornalisti stranieri è sui primi contrafforti che portano alla valle del Panshir, almeno 400 metri sopra Kabul. Una sorta di balcone naturale. Ideale per vedere anche entra re in azione la contraerea talebana della capitale. Attorno alle 18.30 ora italiana. Le scie dei colpi salgono arcuate, come a formare una cupola. Intanto, più vicino al fronte, due luci si fanno più luminose. «Sono i depositi di munizioni o di carbu rante dietro alle linee talebane che bruciano», spiega un mujaheddin. Kabul diventa improvvisamente nera. Le luci della città vengono spente, sulla pianura si vedono solo i tracciati della contraerea, ma sembra poca cosa rispetto alle fiammate che sa lgono dal punto di impatto dei missili. Anche la voce ufficiale del regime integralista del mullah Omar tace improvvisamente. «L' antenna di Radio Shariat è stata colpita», esultano al bazar. Difficile, come hanno imparato a Belgrado, che i caccia sc endano di quota proprio la prima notte. Prima i missili e i bombardieri d' alta quota devono aprire loro la strada e neutralizzare proprio la contraerea che invece per almeno un' ora non risparmia munizioni. E si fa abbondantemente notare. Sono ormai le 22, le 19.30 in Italia, e un gruppo di giornalisti ha il permesso di partire verso la linea del fronte di Bagram. Man mano che ci si avvicina, si incontrano camion di mujaheddin che vanno nella stessa direzione. «Quando sarà il momento - aveva de tto il ministro della Difesa generale Fahim - saremo pronti ad approfittarne». Appena smette di agire la contraerea, i talebani fanno partire raffiche di Katiuscia. I mujaheddin rispondono con gli stessi razzi. Il convoglio di giornalisti arriva su u na collina. Vicino, forse troppo vicino alle linee talebane. Alla luce della luna si possono vedere alcuni esploratori mujaheddin sondare il terreno davanti. Poi un secondo gruppo di cameraman e fotografi arriva sulla cima con i fari delle auto acces i. Tanto basta per attirare il fuoco dei talebani. I giornalisti finiscono sotto una pioggia di proiettili di mortaio e di carro armato. Le auto ripartono per abbandonare la posizione, ma sono intrappolate in una stradina strettissima dalle altre che arrivano in direzione opposta. Qualcuno si butta a terra. I fari finalmente si spengono e alla spicciolata si riparte. I colpi più vicini forse sono caduti a un centinaio di metri, ma è stato il caos. A tarda notte qualche collega non era ancora rie ntrato a Jabal Saraj. Dal punto di vista militare, però questa è stata poco più che una dimostrazione di forza. Un modo, forse, per testare la consistenza delle rispettive posizioni. Dopo la precipitosa fuga dalla cima della collina, non è stato poss ibile verificare i movimenti di mezzi nei 500 metri di terra di nessuno che separano i due schieramenti. I mujaheddin hanno sostanzialmente risposto al fuoco, per aumentare ancora un po' la pressione sulle truppe avversarie e, a un certo momento, anc he per difendere la ritirata del plotoncino di giornalisti. Le cannonate hanno inseguito i giornalisti fino a Jabal Saraj. Alle 22, ora italiana, una dozzina di salve di cannone colpiscono proprio la periferia della cittadina considerata sicura. I ve tri di una delle case che ospitano i giornalisti hanno tremato più volte. Secondo quanto annunciato dal ministro degli Esteri dell' opposizione ai talebani, non c' era l' intenzione di tentare colpi di mano la notte scorsa. «Aspetteremo almeno il sec ondo colpo che sarà molto vicino al primo - ha detto Abdullah Abdullah -. Poi cercheremo di verificare quanti danni hanno subito i talebani alle loro strutture di comando e comunicazione. E solo allora potremo lanciare l' offensiva. Sarà non prima di tre o quattro giorni dall' inizio degli attacchi aerei». Una massiccia e sistematica distruzione delle postazioni talebane potrebbe anche non essere necessaria. Quando un Tomahawk esplode nel raggio di 500 metri è l' inferno. Psicologicamente, veder si cadere addosso degli ordigni del genere può paralizzare, terrorizzare chiunque. In più, voci raccolte al valico di Dernema tra i fuggiaschi da Kabul, parlano di coscrizione obbligatoria per gli afghani non pashtun, l' etnia che si è spesso identif icata con il movimento talebano. «I nostri ragazzi - rammentano i tagiki, seconda componente etnica nel Paese - sono stati mandati al fronte, proprio davanti alle nostre linee. Il mullah Omar vorrebbe che fossimo noi a sparargli. Li costringeranno ad attaccarci e se tenteranno di tornare indietro saranno le milizie straniere al servizio dei talebani, arabe e pakistane, a massacrarli». «I talebani - dice ancora il governo d' opposizione - devono contare su diversi comandanti locali per difendere le loro posizioni e non è detto che questi non decidano che è ora di passare dalla nostra parte. È già successo nei giorni scorsi solo all' idea di essere bombardati; ora che proveranno che cosa vuol dire, aspettiamo di vedere che cosa succede. Il lo ro fronte potrebbe sgretolarsi. Fino a oggi i talebani non hanno ancora probabilmente capito che cosa sta per capitare loro. Invece di prepararsi ai bombardamenti hanno continuato a inviare uomini ai confini. Gli ultimi otto-dieci mila soldati inviat i alla frontiera con l' Uzbekistan si giustificano solo con un tentativo di tenere alto il morale delle loro truppe. Militarmente è una sciocchezza. Hanno paura di mille americani?». I pochi giornalisti sul fronte di Bagram non hanno potuto verificar e la consistenza dei danni causati dai bombardamenti in area talebana. Né che installazioni civili, oltre che obiettivi militari fossero stati colpiti. Ma i mujaheddin attaccati alle radio militari annunciano di avere notizie di bombardamenti anche a Jalalabad, Kandahar e in altre città del Nord. Una radio gracchia e la voce arriva dall' altra parte del fronte. È un talebano che parla con i nemici. «Traditori, venduti agli infedeli. Non siete riusciti a colpire il mullah Omar e neppure Osama Bin Laden. Avete solo distrutto case vuote. La vendetta di Allah ricadrà su di voi». Dall' interno dell' Afghanistan talebano arrivano anche altre parole ai comandi mujaheddin. Parlano dei danni inflitti ai talebani dalla prima ondata di bombardamenti. È ancora Abdullah Abdullah, ministro degli Esteri, a parlare al Corriere. «I nostri informatori riferiscono di tre basi aeree talebane distrutte. Una era l' aeroporto di Kabul dove sono stati colpiti anche jet ed elicotteri, l' altra era a Jalalabad con altri veicoli inceneriti prima che potessero levarsi in volo, l' ultima a Kundus, nel Nord. I talebani avevano poco più di 20 caccia Mig 21 e Mig 22. Non credo ne siano rimasti molti. Sono stati colpiti anche due campi di addestramento per terror isti e l' abitazione del mullah Omar a Kandahar. Ma non abbiamo notizie di un loro coinvolgimento». Andrea Nicastro



martedi , 09 ottobre 2001
GUERRA
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I mujaheddin bevono tè e aspettano l' ordine


I comandanti dell' Alleanza del Nord assistono ai bombardamenti: «L' avanzata verso Kabul? Non c' è fretta»
Andrea Nicastro

I mujaheddin bevono tè e aspettano l' ordine I comandanti dell' Alleanza del Nord assistono ai bombardamenti: «L' avanzata verso Kabul? Non c' è fretta» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SARAJ (Afghanistan) - L' esercito che dovrebbe entrare trionfante a Kabu l, con una squadriglia di F16 americani sopra i turbanti, prepara il tè su fuocherelli a legna. Aqa Shirin, «comandante» d' artiglieria sul fronte di Chagram, il più vicino a Kabul, faceva l' ingegnere meccanico. Un' altra vita. Da 15 anni è mujahedd in e tra i tanti suoi meriti militari preferisce ricordare quello di veterano nella Guerra Santa contro i sovietici. Gli manca un incisivo, non ha divisa, sembra non possedere calzini e ha solo due paia di scarpe. Ciabatte da piscina e scarpe che sem brano ritagliate da stivali di gomma. Il suo sistema di comunicazione consiste in un walkie-talkie alimentato da una batteria d' automobile. L' antenna è inchiodata alla betulla che fa ombra alla casetta di fango dove dormono lui e i suoi 9 uomini. I n compenso, Shirin dispone di un mortaio da 8,2 chilometri di gittata puntato sulle linee talebane e di una jeep con lanciarazzi B12 al posto dei sedili di dietro. Munizioni? Poche. «Non abbiamo ordine di attaccare - dice -, ma siamo pronti. Quando s ono cominciati i bombardamenti siamo saliti sul tetto a guardare. Hanno subito centrato l' aeroporto di Kabul». Poi non molto altro, ma dalla capitale sono arrivate tantissime «Datsun», le auto giapponesi omaggio dall' Arabia Saudita ai talebani. Aqa Shirin ha visto bene. Anche il suo comandante in capo, il generale Babajan, conferma: «Le truppe nemiche si sono avvicinate in massa alla linea del fronte, perché qui si sentono al sicuro. Sono convinti che gli aerei non li colpiranno per paura di c oinvolgere anche noi». Probabilmente gli integralisti del Corano sbagliano. I bombardamenti di domenica e di ieri notte hanno aperto le porte dell' Afghanistan ai caccia. Distrutta l' intera rete radar, i talebani non saranno in grado di vedere arriv are i jet fino a quando non gli saranno addosso. E sembra che i talebani non abbiano più artiglieria contraerea da opporre. Ma l' opposizione al regime afghano non ne ha approfittato granché. Gli avanzamenti che l' Alleanza del Nord vanta in due prov ince non sono direttamente collegati ai colpi anglo-americani. Sono singoli comandanti che hanno deciso di cambiare bandiera. Mille talebani in pochi giorni, assicurano dal governo in esilio a Faizabad. Ma nella parte Nord dell' Afghanistan, tra i mu jaheddin, non c' è traccia di ammassamento di truppe. A ridosso dell' aeroporto di Bagram, obiettivo strategico dell' Alleanza, tiene la posizione un altro piccolo comandante, Mir Rakhmon. Le istruzioni, spiega, sono «solo di colpire eventuali assemb ramenti». Come domenica anche ieri sera talebani e mujaheddin si sono sparati bombe da mortaio e da artiglieria pesante, razzi katiusha e proiettili da carro armato. Un colpo ogni minuto, fin ben oltre la mezzanotte. L' organizzazione umanitaria ital iana Emergency ha registrato solo una vittima. Un mujaheddin colpito al petto prima che l' attacco internazionale avesse inizio. Normale amministrazione: il chirurgo Mohammed Qassim ha dormito come un bambino durante gli strike anglo-americani. Perch é i mujaheddin non accennano neppure ad avanzare? «Troppo presto - è la risposta del ministro degli Esteri dell' Alleanza, Abdullah Abdullah -. I bombardamenti hanno eliminato l' aviazione talebana. Senza aerei sarà molto più difficile per loro rifor nire le prime linee e presto dovremmo riuscire anche a tagliare la strada principale che attraversa il centro del Paese, così i talebani dovranno fare un percorso lunghissimo per arrivare a Nord e faranno da bersaglio ai caccia». Quando verrà lanciat a questa offensiva, Abdullah non lo dice. Rimane ambiguo. Soprattutto per quel che riguarda l' avanzata verso Kabul. «Settimana prossima, forse, ma non c' è fretta». In realtà tutto dipende da che cosa vorranno colpire gli F16: le basi di Bin Laden o le prime linee degli integralisti per sgombrare la strada all' Alleanza? Abdullah è probabilmente il primo a non saperlo. «Con gli americani condividiamo un obiettivo: quello di abbattere il regime terroristico dei talebani» spiega. Ma avere nemici in comune non significa essere amici. A Gulbahar, nella valle del Panshir, l' Alleanza del Nord ha allestito una lunghissima pista di atterraggio in terra battuta. Potrebbe servire ad aerei cargo carichi di munizioni e altri aiuti per dare ai comanda nti in ciabatte di plastica una spinta verso Kabul. Potrebbe, ma il governo dell' Alleanza ammette che non ci sono accordi di rifornimento militare con gli Usa, solo scambio di informazioni e intelligence. Più i mujaheddin dimostreranno di essere pre ziosi, più potranno chiedere. Forse per questo ieri il generale Babajan ha voluto far balenare il fantasma del ricercato numero uno. «Osama Bin Laden - ha raccontato al Corriere - è arrivato in elicottero sulle colline che sovrastano l' aeroporto di Bagram dove sono attestati i talebani, per controllare le difese e, forse, pagare la fedeltà dei comandanti. Con lui a fargli da guardia del corpo c' erano i soldati pakistani del Kashmir». Come dire: noi sappiamo dov' è, noi possiamo prenderlo. In c ambio di Bin Laden, i mujaheddin chiedono solo Kabul. Andrea Nicastro anicastro@corriere.it



mercoledi, 10 ottobre 2001
GUERRA
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«Io, talebano, prigioniero di falsi musulmani»


La testimonianza di un miliziano catturato dall' Alleanza: «Gli americani usurpano la Terra del Profeta»
Andrea Nicastro

«Io, talebano, prigioniero di falsi musulmani» La testimonianza di un miliziano catturato dall' Alleanza: «Gli americani usurpano la Terra del Profeta» DAL NOSTRO INVIATO PRIGIONE DI DOAB (Afghanistan del Nord) - «Mi chiamo Slahuddin Khalid e sono un talebano. Ho 27 anni, non sono sposato, ma un giorno, con l' aiuto di Allah, prenderò una moglie e avrò dei figli. Poi diventerò uno shaheed, un martire dell' Islam. Sei mesi fa sono stato catturato dai falsi musulmani dell' Alleanza del Nord sul fr onte di Charikar, a 40 chilometri da Kabul. Mi hanno interrogato e da allora sono in cella. Prego cinque volte al giorno, scendo al fiume a lavarmi e per il resto della giornata leggo con gli altri prigionieri il Sacro Corano. Tutti noi speriamo di e ssere presto liberati e di poter tornare a combattere la guerra santa. «Voi italiani non siete miei nemici. Il Sacro Corano non insegna a conquistare le terre di altre religioni, ma proclama la jihad, la guerra santa, per difendere la vera fede. È pe r questo che gli americani sono miei nemici. L' emiro Osama Bin Laden li aveva avvertiti tanti anni fa. Devono andarsene dai luoghi santi dell' Islam. Devono togliere le loro basi militari dall' Arabia Saudita, la terra del profeta, e devono smettere di finanziare i giudei d' Israele. Gli Stati Uniti spendono 300 miliardi di dollari all' anno (600 mila miliardi di lire pari a 310 mld di euro, ndr) per aiutarli a tenere occupata Gerusalemme. Ogni buon musulmano deve combattere e se necessario mor ire per liberare la Grande Moschea. «Io sono pakistano e sono venuto in Afghanistan proprio per diventare mujaheddin e liberare Gerusalemme. Ho chiesto al mio maestro, nella madrassa (la scuola coranica, ndr) di Karachi, il modo di entrare nella jiha d, e lui mi ha scritto una lettera di presentazione per un mullah di Kabul, ha raccolto i soldi per il viaggio tra i fedeli e mi ha fatto partire. In Afghanistan mi sono addestrato in un campo dell' emiro Osama Bin Laden ad usare kalashnikov, bombe a mano, lanciarazzi ed esplosivi. Ma soprattutto ci hanno insegnato a diventare shaheed, martiri. Il Sacro Corano non ammette il suicidio, ma se togliersi la vita aiuta la Guerra Santa, allora non è peccato. Diventare shaheed è facile. Solo chi non ha cuore e fede non capisce. Per essere shaheed devi imparare che non sei tu importante. Importante è Allah. «Vedi, io sono in carcere da tanto e non so come sono andate davvero le cose a New York e Washington. Per quello che immagino possono benissimo essere stati gli stessi americani. La loro è una società corrotta, senza fede, il marcio li divora dall' interno. Però potrebbero anche essere stati dei musulmani. E io lo spero con tutte le mie forze, li elogio e prego per loro. «Il World Trade Cen ter e il Pentagono non erano due obiettivi casuali. Tutti sanno che erano luoghi importanti per il governo americano e che chi ci lavorava era al servizio della politica imperialista e anti-islamica. Colpirli è stato, sempre ammesso che la mano sia d i musulmani, un messaggio al presidente George Bush. Basta aiutare Israele, basta occupare la Terra del Profeta, basta sfruttare il petrolio che Allah ha voluto dare all' Islam. «Gli Stati Uniti hanno molto petrolio, ne comprano altro dal Venezuela, ma non gli basta e vengono nel Golfo ad accaparrarselo a prezzi stracciati. I falsi musulmani che siedono nei governi sono corrotti dal dollaro. Non vogliono pensare che regalando in questo modo il petrolio condannano i popoli dell' Islam alla povert à. Guarda, tu sei seduto su un cuscino, sei arrivato in automobile e sei libero. Io sono seduto per terra, non ho nulla e sono prigioniero. È il risultato della politica americana e di quella dei falsi musulmani che stanno nei governi. «Ai tempi del Profeta, gli iraniani non si erano ancora convertiti alla vera fede, ma uno di loro Salmon I diventò musulmano e andò in pellegrinaggio a Medina. Gli iraniani lo chiesero indietro, ma il Profeta non glielo consegnò e tutti i fedeli difesero Salmon I con le armi. Oggi chi si dice musulmano dovrebbe impedire il bombardamento dell' Afghanistan e difendere l' emiro Osama Bin Laden. Gli aerei che uccidono i talebani arrivano da lontano sorvolando molti paesi musulmani. Il Sacro Corano impone a quei g overni di abbattere gli aerei americani. «Il mullah Omar è la guida dei talebani e di tutti i credenti. Otto anni fa, prima che conquistasse l' Afghanistan, in questo paese c' era un governo in ogni via, ogni comandante si comportava da re e ad ogni angolo c' era chi chiedeva una tassa. I falsi mujaheddin si combattevano tra loro e la vita dei credenti era distrutta. Con l' arrivo dei talebani, invece, l' Afghanistan stava risorgendo. I musulmani vivevano in pace, secondo la sharia (la legge isl amica, ndr). Questo attacco americano è un' aggressione all' Islam che qui sta risorgendo puro come ai tempi del Profeta. Anche quando Washington dava armi ai mujaheddin per combattere i sovietici, lo faceva per indebolire i musulmani: invece di darl e al legittimo governo islamico, le distribuiva a sette fazioni diverse che poi hanno finito per combattersi tra loro. Siccome, però, i talebani hanno vinto e portato la pace, Washington ha dovuto inventare una scusa per colpire ancora. Non ce la far à. Come la jihad ha sconfitto i sovietici, così oggi saprà sconfiggere l' America». Andrea Nicastro anicastro@corriere.it L' Alleanza del Nord antitalebana comincia a trarre vantaggio dai bombardamenti e vanta la conquista di nuove posizioni. Nella p rovincia occidentale di Ghor, al confine con l' Iran, un migliaio di talebani sarebbero accerchiati nel capoluogo di Chekhcheron. Anche la città di Bamian, vicina alla valle dei Buddha distrutti nel marzo scorso, sarebbe isolata. Ma sono due i succes si più significativi. Diecimila combattenti, fino a ieri schierati con il mullah Omar, hanno scelto di aderire all' Alleanza del Nord. Il secondo successo, arrivato forse proprio grazie al tradimento di alcuni comandanti locali, impedisce ai talebani di utilizzare la strada che da Kabul porta a Baghlan, grazie alla conquista di un villaggio in posizione strategica, Tolabrefak. La Kabul-Baghlan è un' arteria di rifornimento fondamentale per il fronte di Kalafghan, a nord-est.



venerdi , 12 ottobre 2001
GUERRA
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«Osama lascia il bunker, passo e chiudo»


Intercettati i messaggi radio dei talebani: «E' vero che i nemici ci vedono dallo spazio?» «I soldati in prima linea sul fronte del Nord non sono in grado di reggere un eventuale assalto»
Andrea Nicastro

«Osama lascia il bunker, passo e chiudo» Intercettati i messaggi radio dei talebani: «E' vero che i nemici ci vedono dallo spazio?» DAL NOSTRO INVIATO RADIO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - Nel centro del bazaar di Jabal Seraj, due edifici si gua rdano. A sinistra c' è il «Cofee», dove gli afghani dell' Alleanza del Nord passano i pomeriggi bevendo tè e non caffè, accovacciati a piedi nudi su stuoie sudice con i kalashnikov appoggiati alle finestre. A destra c' è quello che chiameremmo un «ce ntro servizi» e che qui è nero di sporcizia come qualunque casupola attorno: si superano le bancarelle di frutta sulla strada, si entra in un corridoio scuro con negozietti per abiti da donna in velluto rossoverde e si salgono le scale. Al secondo pi ano si aprono tre stanzette. In una c' è un ventiduenne che ha perso una gamba per una mina e ora dà lezioni d' inglese. Nell' altra c' è il posto telefonico del villaggio. Nell' ultima la «centrale radio». Nell' Afghanistan del Nord, rifugio degli a nti-talebani, non esiste rete telefonica. Chi può permetterselo compra un satellitare e i parenti vengono al posto pubblico per chiamarlo. Gli altri si arrangiano con le ricetrasmittenti. In famiglia c' è sempre uno che è in qualche milizia e, se pro prio serve, i walkie-talkie si vendono per 400 mila lire contro gli 8 milioni di un telefono satellitare. L' antenna montata sul tetto arriva con una serie di ripetitori fino in Pakistan e in Tagikistan, ma la stessa antenna può anche servire ad altr o. Ad intercettare le conversazioni radio dei talebani al fronte, per esempio. Non solo quelli sulla prima linea di Bagram, ma anche di comandanti talebani più lontani. A Kandahar, Kabul, Jalalabad. L' apparecchiatura che usiamo è una «Transreciever Yaesu Ft-70gh», cioè una radio ad altissima frequenza (Vhf). Quello che il Corriere fa per due ore al mattino e per due ore la notte, è routine per gli anti-talebani e da qualche settimana, anche per gli americani. I talebani non possono non sapere d i essere ascoltati. Infatti in alcuni casi abbiamo intercettato solo una sequenza di numeri che dovrebbero comporre un linguaggio cifrato. È anche possibile che tra tanti brandelli di conversazione ce ne siano alcuni diffusi di proposito per depistar e e confondere il nemico. Però i bombardamenti americani hanno distrutto i principali ponti radio ed è probabile che in molti casi ai talebani non resti altro che i walkie-talkie per comunicare. ORE 7.30 (Vhf 077180) - «Alle 6 di questa mattina 6 jet hanno attaccato l' aeroporto di Kandahar - dice una voce che sembra fare un riepilogo degli avvenimenti notturni -. Colpite anche le piste di Jalalabad e Kabul. Una grandissima esplosione al ministero dell' Informazione di Kabul. A Maidan - l' aerop orto internazionale di Kandahar, cuore del regime talebano - è morto il comandante Karim Jelo. Un amico che era con lui è rimasto ferito ed è stato trasportato al Comitato Internazionale di Ginevra (la Croce Rossa che agisce nell' Afghanistan taleban o solo con personale locale)». ORE 8.07 (Vhf 077180) - Aqabal, un famoso comandante talebano ora in servizio a Kabul, parla con il mullah Fahim, sulla prima linea di Bagram, a 30 chilometri dal nostro punto di ascolto. «Osama Bin Laden ha lasciato il suo bunker nella montagna di Derawete - sopra Kandahar -. Questa notte hanno usato bombe tanto potenti che il rifugio non è più considerato sicuro. In piena notte Osama e il mullah Omar sono andati con 15 automobili a Jalalabad. Moltissima gente sta scappando da Kandahar. Si dirigono a Chaman», al confine con il Pakistan. ORE 8.31 (Vhf 067180) - Un comandante chiama i suoi uomini al fronte. Il suo nome in codice è «Bakhter Uvai». Il primo a rispondergli è il mullah Ubai. «Tutto tranquillo. Ness un problema». Poi tocca al mullah Najeeb: «I soldati in prima linea non sono in grado di rispondere ad un eventuale assalto. Non riceviamo rifornimenti da due giorni. Abbiamo fame e sete. Scarseggiano anche le munizioni. Dovete inviarci al più presto delle vettovaglie o dovremo abbandonare la posizione». ORE 9.18 (Vhf 067080) - Il mullah Mhasfair si lamenta con il mullah Zamir, che sembra rispondere dall' area di Kabul. «Qui a Kandahar le condizioni sono pessime. Vi ho già chiesto un' auto per m andare la mia famiglia in Pakistan, ma non è ancora arrivata. Tutti vogliono scappare, nessuno però ha benzina». «Ho mandato un Land Cruiser per lei - si scusa il mullah Zamir -. Dovrebbe essere in arrivo». ORE 20.40 (Vhf 047470) - Un tale Achmal chi ama l' amico Rahmal per spiegargli che a Mazar i-Sharif, nel nord, le cose precipitano. «Faresti meglio a portar via la tua famiglia». Rahmal domanda: «Ma è vero che possono vedere quello che facciamo dallo spazio?». ORE 21.11 (Vhf 047470) - Una voce senza nome spiega che: «L' attacco americano è serio. L' aeroporto di Kandahar è distrutto e 16 talebani sono morti. Anche un aereo è in fiamme. La città è deserta, i civili in fuga verso Chaman. Nella Base 315 - vicino a Kabul - invece, sono state distrutte tutte le scorte logistiche e le munizioni. Alle 19 due missili sono caduti sulla centrale elettrica di Sarobi. È distrutta». ORE 21.33 (Vhf 051310) - Mullah Niasi da Kandahar chiede informazioni e il mullah Akhar risponde: «Stanno bombardan do ancora. Ci sono molti morti e feriti. Che cosa facciamo?». Mullah Niasi promette istruzioni in tempi brevi. E chiama il presidente dell' ospedale militare di Chahar Sadbestr: «Avete medicine e spazio libero per nuovi ricoveri?». «Mi spiace. L' osp edale è già pieno e abbiamo anche finito i farmaci». La notte è ancora lunga. Andrea Nicastro anicastro@corriere.it



sabato , 13 ottobre 2001
GUERRA
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Javet, il piccolo «Forrest Gump» dei mitra


Andrea Nicastro

IL BAMBINO DEL NORD Javet, il piccolo «Forrest Gump» dei mitra DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - Il piccolo Javet non ha mai visto «Forrest Gump» e probabilmente non lo vedrà mai. Ha solo 10 anni, ma sa smontare e rimontare un f ucile mitragliatore veloce come Tom Hanks nel film. Le piccole dita sganciano l' otturatore, liberano la molla, il percussore, il serbatoio e quello che era un kalashnikov diventa un cumulo di ferraglia. Pochi secondi e torna una macchina da guerra p erfettamente ingrassata anche se logora. Javet è assistente armaiolo in una delle tre botteghe specializzate di Jabal Saraj. Il lavoro non manca. Il fronte è a soli 30 chilometri, si spara tutte le notti. Javet lavora dalla scorsa primavera e rispett o ai suoi colleghi di 12 e 13 anni, Bobakhan e Jamil, è decisamente il meno esperto. Per il momento riordina la bottega, olia gli ingranaggi delle armi e tiene il punteruolo quando Hafisullah, il principale, usa la mazza. È suo compito anche spaccare la legna e alimentare la minuscola fornace di mattoni. Per lavorare 9 ore, 6 giorni su 7, prende 40 mila afghani, pane, tè e minestra inclusa. Due mila lire al giorno. I tre bambini sono la manodopera che l' ingegner Hafisullah può permettersi. Ha 2 3 anni e si fa chiamare «ingegnere» perché suo fratello, prima di morire da mujaheddin in combattimento, frequentava la facoltà d' ingegneria a Kabul. Javet non sa leggere né scrivere. È il nono di dodici tra fratelli e sorelle. Quando è nato, l' Afg hanistan era in guerra da 12 anni e per tutta la sua vita non è mai finita. Non riesce neppure ad immaginare un mondo senza soldati, bombe, proiettili. Che cosa vorresti fare da grande? Javet ci pensa un po' e poi mostra i denti candidi: «Riparare un M16, e i mitra dei marines americani». Andrea Nicastro



domenica , 14 ottobre 2001
GUERRA
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Il capo dei mujaheddin: «Saremo noi i primi a entrare a Kabul»


Andrea Nicastro

L' ALLEANZA DEL NORD Il capo dei mujaheddin: «Saremo noi i primi a entrare a Kabul» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - Al diavolo la politica. Avere le trincee a 30 chilometri da Kabul dovrà pur valere qualcosa. Agli occhi del ge nerale Fahim, erede del mitico Massud, il Pentagono non è l' unico protagonista della corsa verso Kabul. E tanto meno ne è l' arbitro incontestabile. Semmai è un concorrente come gli altri. Mohammed Fahim lo dice senza alzare la voce, con la naturale zza di chi per sei anni ha resistito all' assedio degli integralisti del Mullah Omar e poi degli aspiranti martiri di Osama Bin Laden. E ora che finalmente i talebani hanno perso l' appoggio aperto del Pakistan non c' è alcuna ragione per non approfi ttarne. «Il nostro attacco - dice il generale - sarà contemporaneamente da tutti i fronti. Massiccio quanto basta per sfondare la loro resistenza, arrivare nella capitale e garantire la sicurezza ai cittadini». Dagli Usa non sono arrivati materiali b ellici di alcun tipo all' esercito dell' Alleanza del Nord di Fahim. La «cooperazione» tra Washington e governo legittimo dell' Afghanistan (che preferisce essere chiamato Fronte unito) non garantisce neppure il bombardamento sistematico delle prime linee talebane. Si limita ad evitare che i raid coinvolgano le truppe di Fahim. In più la diplomazia internazionale sembra lavorare perché a gestire il dopo talebani sia l' ex re dell' Afghanistan, l' anziano Zahir Shah in esilio a Roma, e non il gov erno soppiantato nel ' 96 dal regime del Mullah Omar. Marginalizzati dal gioco americano, i mujaheddin sono decisi a giocare l' unica carta che è rimasta loro in mano: quella militare. E il generale Fahim salirà su uno dei suoi arrugginiti carri arma ti rubati ai sovietici e tenterà di entrare per primo a Kabul. «Non abbiamo missili Tomahawk e neppure jet - dice -, ma siamo qui, a mezz' ora di macchina dalla capitale. Con o senza l' aiuto dei caccia americani è nostro dovere garantire la sicurezz a della città. Dobbiamo inviare una forza di sicurezza prima di qualunque altra milizia, altrimenti sarebbe il caos». Al contrario di Massud, il generale Fahim è per la comunità internazionale un perfetto sconosciuto. Eppure era stato il comandante s comparso ad indicarlo come successore. Massud aveva 48 anni, Fahim ne ha quattro di meno, ma anche lui è della Valle del Panshir: è nato solo qualche chilometro più in alto in un villaggio di fango chiamato Omars. Come Massud, Fahim è uomo d' armi ch e non ha mai lasciato i suoi uomini per gli ozi in Pakistan o in Iran. Ancora come il comandante ucciso, indossa il pakul, il cappello tradizionale afghano, ma i suoi abiti sono più occidentali. Buon parlatore, ex studente di giurisprudenza, Fahim è leggermente sovrappeso, ma questo non incide sul rispetto che suscita nei soldati: oggi nessuno mette in discussione il suo diritto a raccogliere l' eredità del Leone del Panshir. Siete in contatto con le forze americane? «Noi siamo in guerra contro gli integralisti e i terroristi da diversi anni. Abbiamo uno stato maggiore che studia la strategia e diffonde gli ordini ai comandanti sul campo. Gli americani ci hanno interpellato mentre noi stavamo già combattendo. E sì, da allora, siamo in conta tto con loro». Avete indicato all' aviazione americana gli obiettivi talebani che potrebbero aprirvi la strada verso Kabul? «Noi rappresentiamo il governo legittimo dell' Afghanistan. Sul seggio Onu riservato a Kabul siede un nostro diplomatico, non un talebano. È naturale accogliere aiuti militari da qualunque paese straniero per scacciare usurpatori e terroristi. Con gli americani collaboriamo, ma non abbiamo ricevuto alcuna fornitura bellica. Solo un reciproco scambio di informazioni. Non abb iamo chiesto supporto aereo e, d' altra parte, non ci è stato offerto». Aspetterete il via libera americano prima di lanciare l' offensiva terrestre? «Gli americani ci hanno avvertito dell' inizio dei loro bombardamenti e noi li informeremo prima del nostro attacco. Questo è tutto». È vero che controllate la strada nord-sud di rifornimento per le linee talebane? «No, non è completamente in mano nostra. Talebani e terroristi sono ancora in grado di rifornire via terra le loro postazioni in tutte le regioni del Paese. Ma per loro è molto più difficile rispetto a una settimana fa e ciò ha quasi annullato la loro capacità di una controffensiva. Noi dobbiamo solo aspettare il momento giusto per attaccare. Potrebbe essere una questione di giorni più che di settimane. La situazione sul campo cambia velocemente, in ogni caso non abbiamo fretta, siamo pronti». Siete in grado di prendere Taloqan, la città del nord persa nel settembre del 2000? «Sì, in qualunque momento». Da quale fronte partirà l' offensiva? «Non appena ci saranno le condizioni attaccheremo contemporaneamente su tutti i fronti. Lanceremo un unico colpo. Sarà formidabile, ma non posso dire di più». In quali circostanze deciderete di attaccare la capitale? «Quando troveremo l a situazione favorevole per liberare Kabul lo faremo. Di sicuro prima che altre milizie occupino la città e possano nuocere alla popolazione civile». Che informazioni avete sui movimenti delle truppe talebane, in particolare sui volontari stranieri p resenti tra le loro file? «La maggior parte dei talebani ha lasciato le precedenti posizioni. Cercano di stare in movimento e si avvicinano tutte le notti alle nostre linee. Si ammassano al fronte pensando di mettersi così al riparo dai bombardamenti aerei. L' hanno fatto sin dai primissimi giorni del raid anche le milizie straniere. Intercettiamo moltissime comunicazioni radio tra arabi, kashmiri, cinesi e pakistani. In ogni caso si spostano solo coloro che hanno ancora benzina per muoversi». D ove sono il Mullah Omar e Osama Bin Laden? «Circolano molte informazioni sbagliate sul loro conto. La notizia più falsa di tutte è che Osama abbia lasciato il Paese. No, è ancora in Afghanistan. E lo dico con sicurezza. Bin Laden e Mullah Omar si nas condono in località differenti». Andrea Nicastro Comandante L' ALLEANZA Contro il regime dei talebani, insediatosi a Kabul nel ' 96, lottano i mujaheddin (già combattenti contro i sovietici) dell' Alleanza del Nord, che controlla circa il 15 per cent o del Paese. Il loro comandante, Massud, è stato ucciso un mese fa in un attentato IL GENERALE Mohammed Fahim, tagiko, è l' erede di Massud, al quale si unì nei primi giorni di guerra contro i sovietici: aveva 22 anni, allora, quattro meno di Massud, ed era uno studente di legge senza alcuna esperienza militare



martedi , 16 ottobre 2001
GUERRA
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«Sparano agli aerei con i fucili, e i bambini piangono»


«Le donne non escono più di casa, metà dei negozi sono chiusi»
Andrea Nicastro

AL TELEFONO CON KABUL «Sparano agli aerei con i fucili, e i bambini piangono» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del nord) - «Salam. «Bale, befermaet?». «Pronto, chi parla?». Non è mai stato facile telefonare a Kabul. Lo è ancora meno da dom enica notte, quando i raid americani hanno colpito Lataband, e distrutto le centraline dei due operatori telefonici cittadini, uno cinese e uno pakistano. Ora per parlare con Kabul esistono delle linee governative che passano dal Pakistan, le radio a d alta frequenza e qualche telefono satellitare. Tre negozietti che offrivano questo servizio, ieri, sembravano aver staccato l' apparecchio. A Kabul esistono però telefoni satellitari privati. Sono illegali, vietati come le tv dal regime integralist a. Ma chi può, nasconde l' antenna del telefono o la parabola tv. Il problema è che ad essere scoperti con un telefono satellitare non dichiarato si rischia la prigione. A parlare con uno straniero, il reato potrebbe diventare spionaggio e la pena l' impiccagione. Per ragioni di sicurezza non diremo né il nome dell' interlocutore del Corriere a Kabul né l' identità di chi ha permesso il contatto. Come state? «Bene, a parte il fatto che non riusciamo più a dormire. Già le bombe degli aerei sono t remende. I missili però sono molto peggio. Tutta la casa trema. I bambini piangono e non si riesce a farli smettere. Non dormono per tutta la notte e di giorno appena chiudono gli occhi si svegliano per gli incubi. Non credevo che esistesse qualcosa di così potente. Prima senti un sibilo, a volte anche la contraerea, poi il botto. Come un terremoto. Anche se colpiscono l' aeroporto si sente in tutta la città. Mi meraviglio che non siano ancora caduti dei palazzi». Come fate ad avere il telefono acceso? C' è corrente? «No, è stata staccata dalla prima notte. Il nostro telefono funziona con una batteria d' automobile». Avete da mangiare? «La città si è svuotata e metà dei negozi sono chiusi. Nei primi giorni della settimana scorsa i prezzi de lla frutta e della verdura sono scesi. Tutti accaparravano farina, olio e riso. Ma non la frutta, perché si deteriora. Oggi sono stato al bazar i prezzi hanno ricominciato a salire». Com' è al Shahar, il bazar principale? «I negozianti hanno portato a casa la maggior parte della merce. Hanno paura che qualcuno gli sfondi la serranda. Di notte le strade sono deserte. C' è chi se ne approfitta. I talebani lasciano la città, vanno verso la prima linea per evitare le bombe. Alle 17, quando scende il tramonto, sotto le nostre finestre passano decine di automobili». Come si fa a sapere che sono talebani? «Perché hanno auto nuove, giapponesi, sono gli unici ad averle. E solo loro hanno benzina in questi giorni. Subito dopo i primi bombardamenti, " gli arabi" ne hanno comprata da tutti, a qualunque prezzo. Il resto è stato requisito». Avete paura? «Di giorno no. Ci sono pochi bombardamenti. Io vado in ufficio la mattina, mi faccio vedere dal capo, me ne torno indietro. Così non perdo lo stipend io, ma per "ragioni di sicurezza" è meglio non restare negli edifici pubblici. Mentre rientro vedo tutta gente come me, che non lavora, fa la spesa e si chiude in casa. Le scuole sono chiuse. le donne non escono. Kabul sembra una città di soli uomini ». Perché le donne non escono di casa? «Meglio che restino in casa. Sono i talebani a spaventare di più, soprattutto adesso che la maggior parte di loro sono stranieri e non afghani. Si comportano stranamente. Due giorni fa hanno bombardato che erano le 10 del mattino. Ho visto un gruppo di arabi salire sul loro pick-up e partire a tutta velocità sparando in aria, come se potessero colpire l' aereo. Ridevano e cantavano. Possono fare qualunque cosa. Insultano la gente per niente e nessuno può di re nulla». Perché non venite via da Kabul? «Non abbiamo più la macchina. Ce l' hanno rubata». Andrea Nicastro



mercoledi, 17 ottobre 2001
GUERRA
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I ribelli del Nord conquistano una base aerea


Sono arrivati alle porte di Mazar-i-Sharif. Ma mancano uomini e mezzi per puntare sulla capitale afghana Il comandante Hagi Sudik difende il fianco destro dello schieramento anti integralista. Poiché non ha a disposizione carri armati per attaccare, ha fatto sistemare un container sulla strada e l' ha riempito di sassi
Andrea Nicastro

I ribelli del Nord conquistano una base aerea Sono arrivati alle porte di Mazar-i-Sharif. Ma mancano uomini e mezzi per puntare sulla capitale afghana DAL NOSTRO INVIATO VALLE DI GHURBAN (Afghanistan del Nord) - Il comandante Hagi Sudik esagera di si curo. Muove il braccio a indicare le vette a sinistra, poi quelle a destra e spara: «Mille mujaheddin». Sarebbero i suoi soldati, quelli che impediscono ai barbuti talebani d' infilarsi nella valle di Ghurban e tagliare la strada tra il Panshir, fort ezza naturale della resistenza, e la pianura. Hagi Sudik deve difendere il fianco destro dello schieramento anti integralista. Siccome però non ha «momentaneamente a disposizione» carri armati per avanzare, ha fatto sistemare un container sulla strad a che corre lungo il fiume e l' ha riempito di sassi. Per maggior sicurezza ha fatto anche franare dieci metri di camionabile. Di lì si passa solo a piedi o con l' asinello. Dei suoi mille guerrieri, il comandante ne può mostrare al momento solo una mezza dozzina. Certo, con tante scuse e solo per «la sicurezza del giornalista ospite». Bisogna abbandonare il fondovalle, arrampicarsi per una mezz' oretta sulla cresta ed ecco lì la trincea. Un buco scavato nella roccia serve sia da dormitorio sia da santabarbara con una ventina di granate da mortaio e altrettanti razzi anticarro. «Giù la testa, i talebani sono là in fondo». Il comandante guarda attraverso il mirino della mitragliatrice pesante: in linea d' aria saranno cinquecento metri, ma è esattamente dall' altra parte della valle su una cresta sassosa come questa e, si può immaginare, con il medesimo buco scavato nella roccia, le medesime mitragliatrici sovietiche e il medesimo mortaio trasportato a dorso d' asino. «Due mesi fa - rac conta ancora - i talebani hanno cercato di sfondare, ma li abbiamo bloccati». Avanzavano con i carri armati? Il comandante ci pensa per un po' . «Sì e ne abbiamo distrutti dieci». Peccato che non si possano vedere i rottami. Fanfaronate a parte, è ev idente che anche sul fianco destro del fronte anti talebano verso Kabul, i mujaheddin non hanno, al momento, alcuna possibilità di avanzare. Non hanno abbastanza armi, munizioni, uomini. Fino a otto giorni fa erano sulla difensiva. Più o meno come da sei anni a questa parte. Resistevano grazie a vallate strettissime come quella di Ghurban, in cui basta davvero un container zeppo di pietre per rallentare una colonna corazzata ed esporla al fuoco di un lanciarazzi trasportato a spalla. Fino a quan do gli americani non hanno cominciato a bombardare e da allora non devono più difendersi perché i nemici non attaccano più. Il comandante Hagi Sudik, piccolo «ufficiale» al fronte, dorme ora tranquillo. «I talebani non possono più contare sulla loro aviazione. Di tanto in tanto arrivava un Mig e ci bombardava. Un bel fastidio. Quel buco lì è una bomba d' aereo, fosse caduta più vicino, addio postazione. E poi gli americani sono riusciti a colpire i loro depositi e sulla prima linea stanno finend o munizioni e carburanti. Ho sentito l' edizione afghana della Bbc». La scarsa o nulla azione bellica su questo fronte non deve ingannare. Kabul rimane un sogno a cui i mujaheddin dell' Alleanza del Nord non sono disposti a rinunciare. Tanto più che l' accordo di ieri tra Pakistan e Stati Uniti per un governo post-talebano ridimensiona drasticamente le ambizioni dell' Alleanza (soprattutto di etnia tagika) per rilanciare il ruolo dell' etnia pashtun (da cui proviene il 90 per cento dei talebani) e dei monarchici in esilio (in maggioranza pashtun). L' opzione militare rimane per il momento la più valida, se non l' unica a disposizione dei tagiki per mettere i bastoni tra le ruote al progetto di Washington e Islamabad. L' obiettivo può essere quello di guadagnare terreno, prendere più città possibili e poi reclamare altrettante poltrone nel governo post-talebano. È probabilmente vero che senza un aiuto statunitense dal cielo i mujaheddin non sembrano in grado di fare granché. Almeno non con l' apparato bellico che hanno allestito sul fronte di Kabul. Però, in una settimana di bombardamenti, sono riusciti ad aprire altri due fronti. Uno a Herat, quasi al confine con l' Iran, dov' è tornato in armi l' ormai sessantenne Ismail Kahn, l' altro a Mazar-i-Sharif, nel nord. I comandanti dell' Alleanza annunciano che l' accerchiamento di Herat è quasi completato. Per la città di Mazar-i-Sharif, invece, ci sono ancora maggiori aspettative. È lo stesso ministro degli Esteri dell' Alleanza , Abdullah Abdullah, a spiegare che «questa stessa notte le truppe del generale Dostum potrebbero entrare in città». L' aeroporto è stato conquistato ieri sera, ma la capitolazione dell' intera Mazar-i-Sharif, se davvero è questione di ore, dipenderà probabilmente dalla resa dei talebani rimasti. «I combattimenti sono in corso - annunciava Abdullah -: 12 talebani sono stati uccisi. Domani mattina conosceremo l' esito della battaglia». L' Alleanza del Nord punta sull' effetto che le bombe Usa han no sul morale dello schieramento integralista. Molti signori della guerra locali si sono uniti al mullah Omar e a Bin Laden per convenienza più che per islamica convinzione. Ora potrebbero decidere che è arrivato il tempo di cambiare barricata. Ieri sono comparsi i primi 15 talebani pentiti in carne, ossa e barba incolta. Si sono presentati a Sengendara, dove corre la trincea più vicina a Kabul. Andrea Nicastro



sabato , 20 ottobre 2001
GUERRA
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Arrivano otto «consiglieri» americani. L' Alleanza del Nord spera


Andrea Nicastro

I comandanti dei mujaheddin ammettono di essere stati respinti dalla controffensiva talebana a Mazar-i-Sharif Arrivano otto «consiglieri» americani. L' Alleanza del Nord spera DAL NOSTRO INVIATO JANGALEC (Afghanistan del Nord) - Nessuna jeep, nessun camion ansimante poteva ieri passare sotto «la collina dei martiri», nel cuore della valle del Panshir. Decine di mujaheddin buttavano legna sotto un enorme pentolone, in equilibrio tra due pietre per non soffocare il fuoco. I maschi di Jangalec eran o lì, tutti, dai due agli ottant' anni. Con loro, centinaia di soldati senza Kalashnikov e i comandanti in divisa. La moschea senza cupola di Jangalec non bastava a contenerli. Erano sulla stradina verso il tempio, lungo il fiume, persino sul tetto d ella piccola moschea e pregavano. In file ordinatissime, la fronte rivolta alla Mecca. Pregavano per il comandante Massud ucciso il 9 settembre da due kamikaze inviati da Osama Bin Laden. Le barbe nere e le rughe non nascondevano gli occhi lucidi. Ta giuddin, il padre della vedova Massud, ha organizzato ieri la celebrazione dei quaranta giorni dalla scomparsa del genero. Con il pentolone sono stati preparati quasi 500 pasti. Un primo mujaheddin riempiva il piatto di riso bianco, un secondo aggiun geva un boccone di carne, il terzo uvette e mandorle, il quarto un pezzo di pane. Quindi il piatto passava di mano in mano per trecento metri, lungo una fila di uomini e bambini, fino alla moschea. E lì gli ospiti mangiavano usando il pane e la mano destra per raccogliere il cibo. «Seguiremo la sua strada» diceva chiunque accettasse di parlare. «Puniremo i suoi assassini». «Mai e poi mai accetteremo un governo imposto dal Pakistan, noi afghani vogliamo essere liberi». Con Massud vivo, le cose an drebbero in modo diverso. Invece, a due settimane dall' inizio dei bombardamenti americani, i mujaheddin non sono riusciti a raggiungere alcun vero risultato. La presa della grande città del Nord, Mazar-i-Sharif, è rinviata di giorno in giorno. La da ta dell' attacco frontale su Kabul slitta verso l' inverno. Colpa del fatto che gli americani non bombardano i talebani al fronte, dicono i generali del Fronte unito. Attorno a Mazar-i-Sharif combatte il generale Dostum, uzbeko. Con lui, ci sono anch e combattenti hazari e tagiki. E ora anche otto americani. «Li ho visti, so che sono con il generale Dostum - ha detto il comandante Ustad Attah, alle porte della città -, ma non so quali siano i loro compiti». Il capo del Pentagono Donald Rumsfeld i eri ha ammesso per la prima volta la collaborazione con i guerriglieri anti-talebani: «C' è un buon coordinamento tra gli aerei e le forze sul terreno, specie al nord». Il Fronte unito ne ha bisogno: «Avevamo preso l' aeroporto, ma l' abbiamo abbando nato - ammette dal suo telefono satellitare Attah al Corriere -. Avevamo interrotto le linee di rifornimento talebane a Marmol, ma una controffensiva ci ha respinti». Troppo logore e scarse le risorse belliche del Fronte unito: anche considerando le perdite inflitte dai bombardamenti Usa ai talebani. Per questo, probabilmente, il ministro della Difesa generale Faim è volato ieri in Iran. Se gli Usa non riforniscono i mujaheddin di armi ci potrebbero pensare gli alleati di questi sei anni di resi stenza antitalebana: i russi, incontrati mercoledì in Tagikistan, gli indiani, interessati a limitare le ambizioni di Islamabad in Afghanistan e in Kashmir, e gli iraniani, appunto. Gli ayatollah, sciiti, sono sempre stati contrari all' avventura int egralista del mullah Omar, sunnita, e i mujaheddin sperano in aiuti concreti. «Abbiamo almeno venti carri armati che aspettano il via libera dall' Uzbekistan» dicono fonti mujaheddin. Fosse anche vero, prima bisogna liberare Mazar-i-Sharif e poi, for se, i venti tank potranno partecipare alla battaglia per Kabul. Gli orfani di Massud vogliono provarci e devono farlo presto. Prima che i milioni di dollari che la Cia sta buttando nella partita afghana convincano qualche comandante talebano che l' a vventura integralista è finita, ma il dominio dei pashtun sugli altri gruppi etnici afghani può continuare. Andrea Nicastro



domenica , 21 ottobre 2001
GUERRA
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E i mujaheddin temono i trucchi della diplomazia


I jet Usa bombardano le prime linee talebane Ma Powell non vuole l' Alleanza a Kabul La presa della capitale darebbe ai combattenti del Nord un valore politico ritenuto eccessivo da Washington e Islamabad
Andrea Nicastro

E i mujaheddin temono i trucchi della diplomazia I jet Usa bombardano le prime linee talebane Ma Powell non vuole l' Alleanza a Kabul DAL NOSTRO INVIATO JABAL SARAJ (Afghanistan del Nord) - Sono passate tre ore, ma l' emozione si sente ancora nella v oce del generale Ustad Attah, comandante del settore nord dei mujaheddin. «Sì è vero, i bombardieri americani hanno colpito le posizioni dei talebani proprio davanti alle nostre trincee. I miei soldati riferiscono di pesanti danni inferti al nemico, ma non siamo ancora in grado di valutarli con precisione». È la prima volta che gli aerei americani agiscono in modo tanto ravvicinato. Fino ad oggi si erano limitati a distruggere le installazioni dell' aeroporto di Mazar-i-Sharif e qualche deposito a una ventina di chilometri dal fronte. «In questa occasione è stato diverso. Il raid è cominciato puntuale alle 15.30 ed è stato massiccio. Esattamente come mi avevano preannunciato». Ma allora, comandante, voi del Fronte Unito state collaborando c on gli americani? «Effettivamente avevamo suggerito più volte un' azione del genere. Per noi è un grandissimo aiuto». Concorderete altri raid? Il comandante tentenna: «Staremo a vedere». La realtà è probabilmente meno entusiasmante di quella che i su oi mujaheddin hanno ammirato soddisfatti ieri pomeriggio. Gli americani non vogliono il Fronte Unito (o Alleanza del Nord) come testa d' ariete per sfondare le linee talebane, preferiscono usarlo come elemento di disturbo all' azione dei caccia e del le forze speciali. Il comandante Dostum e il generale Attah che combatte con lui devono però considerarsi fortunati. Almeno ieri hanno ottenuto supporto aereo ravvicinato, al contrario di altri settori della resistenza. Per Attah la colpa è del Pakis tan, «burattinaio di tutti i complotti»: dalle liti interne ai mujaheddin all' omicidio del comandante Massud, alla nascita dell' integralismo talebano. Durante i colloqui di Islamabad tra il segretario di Stato Colin Powell e il presidente pakistano , generale Musharraf, «l' America si è fatta convincere ancora» dice deluso Attah. L' incontro si sarebbe concluso, secondo i mujaheddin, con questa frase di Powell: «L' Alleanza del Nord può anche prendere Mazar-i-Sharif, ma non deve assolutamente e ntrare a Kabul». La presa della capitale avrebbe un valore politico eccessivo, darebbe l' opportunità al Fronte Unito di guidare la transizione post-talebana e gli americani non vogliono un governo che escluda l' etnia pashtun, diffusa anche in Pakis tan, ma quasi assente nel Fronte Unito. Le regole fissate nel secolo scorso per il «grande gioco» sull' Afghanistan tra impero zarista e britannico non sono cambiate. Se una potenza lascia una casella libera, subito un' altra è pronta a occuparla. Il generale russo a due stelle Vladimir Popov assicura al Fronte Unito «tutto l' aiuto necessario, senza bisogno di richiederlo ad altri Paesi che non siano la Russia». E, tanto per rafforzare il messaggio, auspica che sia proprio il professor Rabbani, leader dei mujaheddin, il «futuro presidente dell' Afghanistan liberato». Popov non è il presidente Putin, è solo il capo del gruppo operativo russo in Tagikistan, ma la sostanza non cambia. Con il Fronte Unito si schierano la Russia per mantenere l a sua influenza nell' Asia centrale e gestire il mercato del petrolio del Caspio, l' Iran sciita che vorrebbe neutralizzare l' aggressività dei talebani sunniti e l' India interessata a ridimensionare l' integralismo islamico che minaccia il suo Kash mir. Le bombe americane cadute ieri attorno a Mazar-i-Sharif daranno nuovo slancio all' assedio della città. Sono giorni che il Fronte Unito ne promette la cattura, ma il colpo del ko non arriva. I talebani sono stati persino in grado di rompere l' a ssedio nel distretto di Marmol e far arrivare viveri e munizioni. Ieri invece Marmol, importante snodo viario, è stato ripreso grazie anche alla diserzione di quattro comandanti talebani che hanno portato in dote al Fronte Unito 250 soldati. È eviden te che gli aerei Usa fanno danni non solo con le bombe, ma anche con la paura. Eppure se e quando Mazar-i-Sharif sarà in mano al Fronte Unito, i mujaheddin potranno aprire la strada ai rifornimenti promessi da Mosca. Carri armati e artiglieria pesant e, sufficienti per non far rimpiangere i caccia-bombardieri. Andrea Nicastro



lunedi , 22 ottobre 2001
GUERRA
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Fuoco sulle prime linee intorno a Kabul


L' America conferma l' intervento diretto di forze di terra accanto ai mujaheddin
Andrea Nicastro

Fuoco sulle prime linee intorno a Kabul L' America conferma l' intervento diretto di forze di terra accanto ai mujaheddin DAL NOSTRO INVIATO JABAL SARAJ (Afghanistan del Nord) - Quando gli aerei americani vanno a bombardare Kabul, il rombo si sente p er almeno mezzo minuto, poi si vede sbucare la sagoma già avanti sulla pianura. Volano alti, forse 6 mila metri, ma per chi sta a 30 chilometri da qui, al di là della linea del fronte che divide i mujaheddin dai talebani, deve essere un suono terrifi cante. Libro degli armamenti alla mano, gli esperti militari assicurano trattarsi di F14 Tomcat, F15 Eagle e F15 E-Eagle. «Quello che ha sganciato a 4 chilometri dall' aeroporto di Bagram, proprio sulle linee degli integralisti che difendono Kabul, e ra di sicuro un F15». Altri dicono F18 Hornet. Ma forse hanno ragione tutti, perché da ieri è difficile trovare chi passi la giornata con il naso in aria a riconoscere i caccia. Ne passano sempre di più, a tutte le ore. Il segretario di Stato Colin P owell ha dato il suo imprimatur all' operazione. «Stiamo sostenendo l' Alleanza del Nord anti-talebana - ha dichiarato ieri per la prima volta - e stiamo notando un comportamento più aggressivo da parte dei mujaheddin nei confronti delle postazioni t erroristiche. L' Alleanza del Nord potrebbe puntare su Kabul. Osama Bin Laden imprendibile. Il mullah Omar ancora alla testa delle sue truppe integraliste a dominare l' 80 per cento del Paese. Meglio allora giocare la carta mujaheddin. Pronti però a rimetterla nel mazzo appena il mostro talebano sarà al tappeto. «L' Alleanza del Nord - ha spiegato Powell - rappresenta una parte minoritaria del mosaico etnico afghano, attorno al 15 per cento, e non possono quindi aspirare a un ruolo dominante nel governo post-talebano». Appoggio aereo ravvicinato in cambio della rinuncia alla presidenza: chissà se il patto è stato concordato? Di certo è l' intenzione di Washington e tanto basta a prevedere che presto, anche sul fronte di Kabul, si comincerà a fare sul serio. Il regime integralista denuncia: «Bombardamenti senza precedenti» su Herat, Kandahar, Kabul e Jalalabad, «comprese le aree residenziali». Vittime anche tra i civili, 60 ad Herat, la città al confine con l' Iran, e 20 a Kabul. Fra i morti anche il figlio di 10 anni del mullah Omar. Il bambino sarebbe rimasto ferito nei primissimi raid, quando la casa del mullah venne distrutta. Ieri sarebbe morto in ospedale. A Kandahar un aereo americano sarebbe invece atterrato per scaricare t ruppe d' assalto nell' area dell' aeroporto, ma la reazione degli «studenti del Corano», sempre secondo il loro ministero dell' Informazione, li avrebbe costretti a ripartire lasciando sul campo 20 corpi. Il Pentagono smentisce. Se il rombo dei jet s erve a indebolire i nervi di chi sta sul fronte, i talebani cercano di mettersi al riparo da diserzioni sempre più frequenti usando il pugno di ferro. A Mazar-i-Sharif, altra città sotto assedio mujaheddin, il governatore integralista, mullah Niazi, ha ordinato l' esecuzione di 5 «traditori». Due di loro erano «comandanti» (Saboor e Iussuf), gli altri semplici combattenti. «Sono stati trovati colpevoli di spionaggio a favore degli anglo-americani e di istigazione alla rivolta», annuncia il gover no integralista. Impiccati e che serva di lezione. Il generale dell' Alleanza del Nord, Dostun, al telefono con il Corriere, parla di «affari interni allo schieramento terroristico», ma sembra che i cinque stessero distribuendo armi ai civili. Il gen erale Dostum conferma anche che tra i suoi uomini ci sono esperti militari stranieri. «Sono venti - specifica per la prima volta - e guidano le azioni dei caccia dal suolo». L' appoggio americano annunciato da Powell trova altri riscontri sul terreno . L' ex ministro mujaheddin, Younis Qanuni, parla di tre gruppi di consiglieri militari stranieri presenti nell' area controllata dall' Alleanza del Nord, «a Kojabauddin, nella valle del Panshir e a Dar i-Suf». In tutto i militari occidentali nell' A fghanistan del Nord potrebbero essere fra i trenta e i cinquanta. Nel molo off-limits del porto pakistano di Karachi è attraccata intanto, secondo fonti del Corriere, una gigantesca nave militare statunitense che sta sbarcando duemila uomini e tonnel late di materiale. A una ventina di chilometri dal fronte di Kabul, a Sherkat, i mujaheddin hanno ultimato una pista di atterraggio in terra battuta. «Serve - dicevano le fonti ufficiali fino all' altro ieri - a far atterrare gli aerei cargo degli ai uti umanitari». A chiederlo di nuovo ieri, i rappresentanti del governo in esilio ridevano e cambiavano discorso. «Due ingegneri americani hanno diretto i lavori» ha ammesso Qanuni. L' atmosfera tra americani e mujaheddin è davvero cambiata. Andrea N icastro www.corriere.it Sul sito del Corriere, lo speciale con audio, video, grafici animati e tutte le notizie sul conflitto ATTACCO AL TERRORISMO LA GUERRA I consiglieri di Washington impegnati anche nella costruzione di un aeroporto. I talebani: « Abbiamo ucciso 20 invasori» Il regime integralista ha ordinato l' esecuzione di 5 militanti per tradimento, spionaggio e istigazione alla rivolta



martedi , 23 ottobre 2001
GUERRA
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«Qui Kabul, i talebani si sono tolti il turbante»


Un afghano racconta via radio: «Hanno paura, cercano di mimetizzarsi e dormono in moschea». «Sono proibite le comunicazioni: chi tenta di violare la consegna al silenzio rischia l' accusa di spionaggio». «La polizia non è più in divisa. Un palazzo è stato colpito da una bomba: 12 i civili morti»
Andrea Nicastro

«Qui Kabul, i talebani si sono tolti il turbante» Un afghano racconta via radio: «Hanno paura, cercano di mimetizzarsi e dormono in moschea» DAL NOSTRO INVIATO GULBAHAR (Afghanistan del Nord) - Per quattro giorni nessun segno. Eppure due emissari fid ati avevano affrontato i bombardamenti ed erano andati a Kabul per portare il messaggio. «Chiamateci, mettetevi in contatto con noi. Raccontateci che cosa succede nell' Afghanistan talebano». Nessuna risposta. Che cosa sarà successo? Sono scappati? O peggio: le lettere sono state intercettate dai soldati alla frontiera o dalla polizia religiosa a Kabul? Oppure, semplicemente, non trovano un posto sicuro per telefonare e rispettare l' appuntamento alternativo fissato alla ricetrasmittente? Poi la chiamata alla radio, sulla frequenza stabilita. «Aurè», «Aurè», «Aurè, mi sentite? Mi sentite? Mi sentite?». Sì, sentiamo forte e chiaro. Che vi ha preso? Perché non vi siete fatti vivi prima? «Non è facile chiamare. A Kabul sono rimasti solo tre po sti telefonici pubblici e ci sono gli agenti della "polise makhfi", la polizia segreta, che ascoltano tutte le conversazioni». Ma allora non è vero che gli americani hanno distrutto le centrali telefoniche? «È vero. I telefoni normali non funzionano più, ma in quei posti pubblici usano telefoni satellitari». E adesso, come fate ad evitare la «polise makhfi»? «Siamo da amici, quindi non ci sente nessuno». Si è aperto così, ieri sera, uno spiraglio nel muro di mistero che avvolge l' Afghanistan ta lebano. Nei territori controllati dal regime integralista non ci sono stranieri. Sono stati espulsi alla vigilia dei bombardamenti. Ma anche agli afghani è stato messo il bavaglio. I dipendenti locali delle agenzie umanitarie possono comunicare via r adio o telefono satellitare con la casa madre o con gli uffici nella parte nord del Paese. Divieto assoluto però di parlare della situazione del Paese, con il mondo esterno si parla solo di indispensabili questioni di lavoro. Il regime vuole il monop olio assoluto sull' informazione: chi tenta di violare la consegna del silenzio rischia l' accusa di spionaggio. Domenica, cinque talebani sono stati impiccati a Mazar-i-Sharif per aver passato informazioni agli americani. Almeno così ha sostenuto l' ulema, il giudice islamico, che li ha condannati a morte. Gli amici afghani che hanno accettato di raccontare al Corriere quel che vedono a Kabul, lo fanno sapendo di rischiare. Ma, oltre ad evitare parole chiave che risveglino l' attenzione di agen ti in ascolto, l' accordo è: nessun eroismo, al primo sospetto di pericolo, meglio mandare tutto a monte e non sentirsi più. L' aspetto paradossale della vicenda sta nel fatto che, se è vietatissimo parlare con gli stranieri, non è invece proibito pa ssare le linee tra i due eserciti. Per organizzare l' appuntamento via radio, due diversi messaggeri sono andati, a 48 ore di distanza l' uno dall' altro, ad avvertire gli amici di Kabul. Un passaggio in auto da Gulbhar, nell' Afghanistan del Nord, a Kabul costa un milione di afghani, circa cinquantamila lire. Bisogna camminare un' ora e mezza per superare il Passo di Dernama e il viaggio dura in tutto 6, 7 ore. Per 30 chilometri è moltissimo, ma se si considera che si passa da un mondo a un alt ro è poco e fin troppo facile. In Afghanistan del Nord continuano ad arrivare da Kabul 200 rifugiati al giorno, c' è però anche chi fa il percorso inverso. Per comprare qualcosa che si trova solo nella capitale, per andare a visitare i genitori o per portare una lettera. Come si comportano i talebani? «Sono nervosi. Da quando gli americani hanno cominciato a bombardare le trincee a nord di Kabul, hanno smesso di partire tutte le sere per passare là la notte». E cosa fanno adesso? «Si nascondono. Moltissimi, direi quasi tutti, si sono tolti i turbanti bianchi e neri che erano il loro segno distintivo. Anche la polizia non è più in divisa. Ora riconosci che sono talebani solo perché portano il mitra a tracolla. Dev' esserci stato un ordine, p erché all' improvviso, da ieri, non si sono più visti i turbanti a Kabul. Al bazar si dice che abbiano paura di essere notati dai satelliti e che gli elicotteri bombardino se ci sono tanti turbanti neri in un unico luogo». Se non vanno al fronte, dov e dormono? «Nelle moschee. Appena fa buio entrano nelle moschee. Pensano che gli americani non oseranno colpirle. Hanno ragione, no?». La gente come vive? Ha paura? «Fino a pochi giorni fa qualcuno saliva sui tetti a guardare gli aerei. Ora invece le bombe hanno incominciato a colpire i quartieri civili e non solo le basi militari. Noi abbiamo visto almeno tre case distrutte, ma qualcuno dice che sono state di più. Proprio questa notte (quella tra domenica e ieri, ndr.) dei parenti che abitano a Khiarkhana, un quartiere a nord-ovest del centro, sono venuti a dormire da noi perché il loro appartamento tremava tutto per le bombe. Il loro palazzo è vicino alla Base militare 315, ma non così vicino. Prima non si erano mai spostati, invece ieri hanno fatto bene a venire da noi». Perché? «Al mattino li abbiamo riaccompagnati e una casa vicina alla loro, a Porejajadid, era stata colpita. Nessuno ha cercato di aiutare la gente che c' era dentro, perché di notte nessuno era lì a vedere. Solo al mattino hanno cominciato a scavare tra le macerie. Anche noi abbiamo lavorato sperando di salvare qualcuno, ma alla fine abbiano trovato solo 12 corpi». Civili? «Sì, gente normale. È per questo che adesso sempre di più vogliono andarsene da Kabul. Chi può, chi sa dove trovare un rifugio, almeno. Dicono che sia successo lo stesso a Kandahar: prima bombe solo sulle caserme, poi anche in città». Buona fortuna. «Grazie, a presto». Andrea Nicastro



venerdi , 26 ottobre 2001
VARIE
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«Gli americani devono colpire le prime linee degli integralisti»


«Il regime del mullah Omar ha mandato gli uomini migliori al fronte. Gli altri sono pronti a tradire»
Andrea Nicastro

L' OPPOSITORE AL REGIME «Gli americani devono colpire le prime linee degli integralisti» DAL NOSTRO INVIATO DOLANGSANG (Afghanistan del Nord) - «Se Washington non cambia tattica al più presto, il semplice fatto di resistere alla prima potenza globale regalerà agli integralisti un' aura di invincibilità capace di attirare fanatici fondamentalisti da tutto il mondo islamico». «La via d' uscita da questa crisi, può venire solo da un' avanzata militare del Fronte unito, che spezzi le prime linee tal ebane. Dopo di che, Kabul per prima e poi il resto del Paese, si solleveranno contro il mullah Omar e consegneranno Osama Bin Laden agli Usa». Difficile trovare una mente tanto lucida in Afghanistan. Mohammed Iounis Qanuni imposta il problema («Gli a mericani stanno mancando l' obiettivo») e propone la soluzione («appoggiare l' avanzata degli antitalebani confidando in una rivolta popolare»). Certo, come elemento di punta dello schieramento politico antintegralista, ciò che propone andrebbe tutto a suo vantaggio: lo porterebbe a Kabul sul carro armato dei vincitori, con un diritto di precedenza politica che Washington non pare disposta a concedere. Dottor Qanuni, la coalizione internazionale bombarda da giorni le prime linee talebane. Eppure non sembra che la loro forza sia diminuita. «Sono state distrutte molte installazioni, ma i talebani tengono in movimento i loro armamenti e portano le truppe migliori al fronte. Per infliggere perdite significative gli Usa dovrebbero modificare la tattica e colpire le trincee con missili di precisione invece che con qualche bomba». Perché le prime linee sono così importanti? «Lì si ammassa il nocciolo duro della forza talebana: gli stranieri, arabi e pakistani, che combattono con loro, e gli a fghani cresciuti nelle scuole coraniche del Pakistan. Gente della stessa pasta di chi ha condotto gli attacchi suicidi in America e contro il comandante Massud. Non credo si arrenderanno mai. Bisognerà eliminarli fisicamente. Gli altri talebani sono stati confinati nelle retrovie, proprio dove ci sono i bombardamenti più pesanti. Il mullah Omar e Osama Bin Laden non si fidano di loro, pensano a ragione che al primo attacco potrebbero lasciare le armi e aprirci il passaggio. Su 50-60 mila soldati talebani, il 30 per cento è formato da irriducibili». Quanto durerà la guerra? «Dipende dalla qualità dell' azione Usa. Ma anche da quanto il Pakistan avrà la possibilità di rifornire i talebani. Anche se qualcosa è cambiato nella leadership di Isla mabad, il Pakistan ha tutto l' interesse a prolungare gli scontri, perché nel frattempo lavora a un governo post talebano di suo gradimento». Pensa ad Abdul Haq, afghano in esilio, che si dice abbia tentato di comprare la diserzione di alcuni comanda nti talebani con 20 milioni di dollari (circa 40 miliardi di lire)? «Ammettiamo pure che sia vero. Evidentemente ha fallito, perché i talebani sono rimasti dov' erano». Andrea Nicastro



domenica , 28 ottobre 2001
GUERRA
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Al telefono dalla capitale afghana: «Pregano in moschea con il mitra»


«Con benzina e sabbia hanno mimetizzato tutti gli automezzi nei campi. In città non si lavora e non si parla più»
Andrea Nicastro

LA TESTIMONIANZA / «Le banche hanno congelato i conti, il mullah Omar ha destinato tutti i fondi per la Difesa» Al telefono dalla capitale afghana: «Pregano in moschea con il mitra» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - «Auré, auré, auré». «Mi senti?». Si riapre dopo qualche giorno il canale di comunicazione con Kabul. Gli amici afghani hanno riacceso la radio ad alta frequenza che li mette in contatto con il Corriere, a 70 chilometri dalla capitale sotto bombardamento. Ma hann o più paura della prima volta. Se scoperti a parlare con uno straniero, giornalista per di più, rischiano l' impiccagione per spionaggio. Sussurrano nel microfono, attenti che neppure i vicini di casa possano sentirli. L' accordo rimane lo stesso: al primo sentore di pericolo, chiudere le comunicazioni. «Siamo stati alla Hagi Yaqub per la grande preghiera del venerdì», raccontano. La Hagi Yaqub è una delle più grandi moschee della capitale, la cupola bianca domina il quartiere di Shaharnaow con viali alberati e belle case moderne dove prima dei bombardamenti vivevano anche molti stranieri. «A guidare la preghiera c' era il mullah Mohammed Hasef». È un mullah famoso? «Sì, e anche se non è di Kabul è un mullah colto, non come tanti altri tale bani». Che cosa ha detto? «Abbiamo preso appunti per non dimenticare. Ecco, adesso ti leggo il suo sermone: "Fratelli carissimi, la guerra santa incombe su tutti i musulmani ed è un dovere per ciascuno lottare contro chi cerca di allontanarci dal sen tiero della vera fede e vuole condurci nelle tenebre. Siate certi che nessuno può sconfiggerci se confidiamo in Allah Onnipotente. Questo mondo effimero e materialistico non è fatto per il vero credente, niente vale più del martirio. Fratelli, questa guerra è stata voluta dall' Occidente per distruggere l' Islam e controllare l' Afghanistan. Noi dobbiamo alzarci, tutti assieme, e resistere agli infedeli, fino a che avremo una sola goccia di sangue nelle vene». C' era tanta gente nella moschea? « Pienissima, anche in giardino, il discorso si sentiva dagli altoparlanti. Accanto a noi c' era un arabo grande e grosso che ha posato sul tappeto della preghiera il kalashnikov, la pistola e il walkie-talkie. Doveva essere un comandante importante». Portano le armi nella moschea? «Sì, tutti loro lo fanno. Appoggiano il mitra sul tappeto e poi si inginocchiano». Come reagivano alle parole del mullah Hasef? «Secondo noi, non capivano neppure. Sono arabi, non parlano pash tun». E il mullah ha detto altro? «Sì, ha detto che non dobbiamo farci ingannare dalla propaganda dell' Occidente: "I nostri diritti sono l' indipendenza della nazione e la castità di donne e uomini - ha detto -. L' attacco angloamericano è criminale perché diretto sui civili e le autorità talebane fanno del loro meglio per aiutare la popolazione. Pattugliano le strade per salvare dalle macerie i feriti e portarli in ospedale"». Ed è vero? «Da qualche giorno i talebani sono diventati più gentili. Anche se non hai la barb a abbastanza lunga o i pantaloni al polpaccio, non ti fermano. Adesso dicono di essere fratelli, venuti per la Jihad contro gli infedeli. Ma si vede che si sentono in pericolo. Molti dormono nelle moschee, altri hanno affittato ville intere e vivono tutti assieme, ma ne abbiamo visti anche nei sacchi a pelo sul marciapiede». Dormono in strada? «Sì, e sono riusciti a nascondere anche le automobili. Le sporcano di benzina in modo che la sabbia rimanga appiccicata e poi le parcheggiano nei campi. C osì camuffate non si possono davvero vedere. Figuriamoci dagli aerei». Di Osama Bin Laden non si dice nulla a Kabul? «Ne ha parlato il mullah Hasef. Ha ripetuto che è un ospite e che ha combattuto al nostro fianco nella Jihad contro i sovietici. Che non sarebbe giusto consegnarlo agli americani senza avere visto le prove di ciò di cui lo si accusa». Ma la gente cosa dice? «Nulla, Kabul è praticamente deserta, non si lavora, non si parla. Il fruttivendolo sotto casa in un giorno incassa solo 50 m ila afghani (circa 2 mila lire, ndr), vorrebbe scappare ma non sa dove, perché non ha soldi. Le banche hanno congelato i conti. Il mullah Omar ha destinato i depositi al ministero della Difesa. Se sei fortunato e trovi qualche cassiere, quello prende nota della richiesta e ti dice solo di aspettare. Fino a quando, non si sa». Andrea Nicastro IL PAESE LA POPOLAZIONE L' Afghanistan ha venticinque milioni di abitanti. Due milioni di profughi afghani vivono in Pakistan. L' aspettativa di vita media è di 45 anni. FORZE ARMATE L' esercito talebano ha pochi carri armati e pochi aerei. E' strutturato in gruppi di guerriglia. Ha in dotazione missili Scud di fabbricazione sovietica e missili Stinger americani.



martedi , 30 ottobre 2001
GUERRA
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La «Jihad» di Alberto italiano in prima linea tra i mutilati del nord


Andrea Nicastro

MEDICI AL FRONTE La «Jihad» di Alberto italiano in prima linea tra i mutilati del nord DAL NOSTRO INVIATO SHERKAT (Afghanistan del Nord) - Iusuf, studente 23enne che si è improvvisato interprete, questa volta può riposare. Per parlare con il «Doktar Albertò», come gli afghani chiamano il piemontese Alberto Cairo, non c' era bisogno di lui. Così Iusuf ha seguito i due italiani nel reparto ortopedico dell' ospedale della Croce Rossa a Sherkat. Il suo responso: «Quel che si dice di Doktar Albertò è vero: è un uomo giusto che sta combattendo una Jihad». La Jihad che noi occidentali traduciamo come guerra santa e accostiamo alle nostre crociate, è per i musulmani qualcosa di più profondo, una sorta di lotta interiore per migliorare se stessi. Se condo Iusuf, Alberto Cairo ha scelto di crescere spiritualmente curando moncherini di afghani mutilati dalle mine, dalle ustioni e dalle malattie. Nella sua jihad costruisce protesi e insegna a camminare a chi non ha più le gambe. Al posto della mano spappolata da una bomba a grappolo, sceglie di dare un gancio a chi deve portare pesi, e un anello da infilare nel manico della vanga ai contadini. «Doktar Albertò» (alcuni occidentali lo chiamano «l' angelo di Kabul») è in Afghanistan da 12 anni, d a 9 è responsabile di tutti e sei i reparti di ortopedia che la Croce Rossa ha allestito nel Paese. Il suo lavoro è stato insignito del premio Balzan, 1 milione di franchi svizzeri (oltre un miliardo e duecento milioni di lire) nel ' 96. Da cinque se ttimane ha dovuto lasciare Kabul espulso dai talebani con quasi tutti i «kafir», gli infedeli, e da quattro giorni ha ripreso a lavorare nell' unico angolo dell' Afghanistan che gli era consentito, nella parte nord controllata dagli anti-integralisti . A chiedergli perché lo fa, risponde: «Mi sveglio contento di andare a lavorare, ma forse più banalmente non saprei fare altro». Oggi il fisioterapista italiano darà il via alla distribuzione di cibo per i 25 mila rifugiati accampati sulla piana di Shamali. «Sarà l' occasione anche per tentare di non avere un' ondata di pazienti nel prossimo futuro - aggiunge Cairo -. Se la linea del fronte dovesse spostarsi, se l' Alleanza del Nord spingerà le trincee talebane verso Kabul, questa gente tornere bbe immediatamente a casa propria. Dobbiamo avvertirli che sarebbe pericolosissimo perché tutta la zona è minata». Quando verranno a ritirare i pacchi alimentari, troveranno anche una sorta di rappresentazione per spiegare il rischio mine a bambini e analfabeti: «Saranno gli stessi amputati a mostrare gli ordigni e le loro conseguenze. Un metodo un po' rude, forse, ma se la gente vede quel genere di conseguenze si ricorda meglio di fare attenzione». Quanto ce ne sia bisogno lo fa capire il 16enn e Farik, seduto su una panca in attesa della visita. Sei mesi fa ha trovato una mina appena fuori da Kohistan, il suo villaggio, e l' ha presa a sassate per aprirla. Ora non ha più l' avambraccio destro, non vede da un occhio ed è coperto di cicatric i. Il reparto ortopedico di Sherkat è poca cosa rispetto a quello di Kabul. «Qui trattiamo 25-30 pazienti al giorno, nella capitale dieci volte tanto. Ma in piccolo l' organizzazione è la stessa» spiega il «Docktar». Cairo mostra l' officina dove ven gono costruite le protesi su misura, gli ambulatori per le visite, il magazzino con gli scaffali zeppi di piedi di gomma di ogni misura in ordine intransigente. E la palestra dove insegnare ad usare le gambe finte? Cairo si mette a ridere e indica il cortile: «Eccola, all' aria aperta. Era inutile buttare soldi per un tetto. Il tempo è quasi sempre bello e quando piove o nevica non ci sono pazienti perché non si muovono da casa». Più risorse riesce a mettere in protesi, più gente riuscirà a far camminare. E la sua personale jihad sarà vittoriosa. Andrea Nicastro S.O.S. Afghanistan Dall' emergenza profughi al rischio malaria POPOLAZIONE L' Afghanistan ha oltre 20 milioni di abitanti. La vita media non supera i 45 anni. Due milioni di rifugia ti afghani vivono da anni in Pakistan: una delle più alte concentrazioni di rifugiati nel mondo. EMERGENZA Sono oltre 7 milioni secondo le agenzie umanitarie internazionali le persone in Afghanistan che hanno bisogno di cibo e aiuti per sopravvivere e che rischieranno la vita nei prossimi mesi, malgrado gli aiuti paracadutati dagli americani (oltre 100 mila razioni di cibo). Particolarmente a rischio sono le 500 mila persone che vivono nelle zone ad alta quota che diventeranno irraggiungibili da lle organizzazioni umanitarie con l' arrivo dell' inverno. I CAMPI L' Onu ha allestito quindici campi che possono ospitare fino a 150 mila persone. Ma che per ora restano in gran parte vuoti. Il Pakistan ha sigillato i confini, impedendo a nuovi prof ughi di entrare nel Paese. Mentre gli oltre 80 mila afghani entrati in Pakistan dallo scorso 11 settembre hanno paura di raggiungere i campi per timore di essere rispediti in Afghanistan. L' APPELLO Ruud Lubbers, alto commissario dell' Onu per i rifu giati, è giunto a Islamabad e ha lanciato un appello affinché le autorità pakistane aprano le frontiere e forniscano garanzie che i profughi non saranno deportati. S.O.S. MALARIA Ieri l' Organizzazione mondiale della Sanità ha confermato che nel mese di settembre centinaia di bambini afghani sono stati ricoverati per malaria. E che la situazione si aggraverà con il proseguire della guerra. Le condizioni climatiche tra ottobre e novembre favoriscono la proliferazione delle zanzare portatrici del morbo.



mercoledi, 31 ottobre 2001
GUERRA
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I mujaheddin giurano: «Tra quattro giorni attaccheremo»


«I soldati Usa sono sulla montagna, nascosti. I nostri bambini portano loro da mangiare e bere» «Al momento giusto daranno indicazioni agli aerei per eliminare le postazioni nemiche»
Andrea Nicastro

LA PRIMA LINEA I mujaheddin giurano: «Tra quattro giorni attaccheremo» DAL NOSTRO INVIATO GHANIKHIL (Afghanistan del Nord) - I leader dell' Alleanza del Nord sono rimasti chiusi in riunione per tutto il giorno. Escono al tramonto solo per annunciare che la conclusione del «consiglio di sicurezza» è rinviata a oggi, quando arriverà anche il ministro della Difesa, generale Fahim. Ma il presidente Rabbani, il ministro degli Esteri Abdullah, il mediatore Qanuni hanno tutti ripreso a sorridere come n on facevano dai primi giorni dei bombardamenti americani. Sorride perfino Hagi Qadir, fratello di quell' Abdul Haq catturato e ucciso la settimana scorsa dai talebani mentre cercava di organizzare un' opposizione interna al regime. Qualcosa è nell' a ria. Qualcosa sembra possa accadere. E se i politici non parlano, si può provare a interrogare i soldati in prima linea. La casa di mattoni colpita sabato per errore dai bombardieri americani è sulla sponda sinistra del fiume Panshir, in territorio c ontrollato dall' Alleanza del Nord. Superato il corso d' acqua, ci sono le prime linee talebane, protette dall' alto da un pinnacolo di roccia viva perfetto per un agguato apache. Lì si annidano i mortai di Osama Bin Laden e del mullah Omar. Basta un pugno di cecchini per bloccare qualunque reparto di fanteria tenti di guadare il Panshir. Non a caso il fronte è fermo in questo villaggetto chiamato Ghanikhil da sei anni. I mujaheddin non escono dalle trincee per non fare da bersaglio a quei cecch ini tra le rocce. I talebani non avanzano perché al fiume sarebbero falciati dai mujaheddin appostati su una montagnola identica a quella occupata dai talebani, ma sulla sponda sinistra del Panshir. Il comandante del villaggio, Salim Kahn, zittisce i l brontolio dei contadini. Vorrebbero essere risarciti per l' errore di sabato del Pentagono. Ma l' ufficiale è più interessato a ciò che, secondo lui, accadrà proprio qui fra «quattro giorni». «Attaccheremo per prendere le postazioni talebane sul co stone roccioso. Aspettiamo l' ordine politico, ma dal punto di vista militare la decisione è presa». Sì, ma come, se il fronte non si è mosso per sei anni? Salim Kahn sa a malapena leggere e scrivere, però ha fatto ventidue anni di guerra e guerrigli a. «I nostri carri armati arriveranno sino alla prima linea a martellare le loro posizioni disturbandone la capacità di fuoco. Noi avanzeremo con pickup e jeep sino al fiume. Questione di minuti. Poi tenteremo l' assalto a piedi. Tra le mine, purtrop po, ma non c' è altro da fare». E i cecchini acquattati tra le rocce? «È per questo che sono venuti gli americani». Americani? «Sono sulla montagna a sinistra del Panshir, nascosti. I nostri bambini portano loro da mangiare e da bere. Al momento oppo rtuno daranno indicazioni agli aerei per eliminare le postazioni nemiche». Che interesse potrebbe avere Salim Kahn a mentire? La vanità gioca a tutti brutti scherzi, però dal punto di vista militare ciò che dice ha senso. Le bombe Usa possono essere guidate dal raggio laser di un aereo quando il bersaglio è in pianura. Ma per eliminare le postazioni su un pendio scosceso ci vuole qualcuno che di fronte a loro possa vederli e indicarli con il laser. Possibilissimo quindi che un' unità speciale Us a sia là sopra. Tre ore di jeep e, con un lungo giro per evitare le zone controllate dai talebani, si arriva all' aeroporto di Bagram. In linea d' aria dalla casetta bombardata per errore dagli americani dista solo una decina di chilometri. Ieri test imoni hanno raccontato che nella zona di Bagram, sulle prime linee talebane, un aereo americano ha sganciato una bomba che ha creato una colonna di fumo alta almeno 300 metri: la più potente e distruttiva dall' inizio della campagna, un altro segnale che qualcosa si sta preparando. Si può dire che chi controlla la sponda destra del Panshir controlla anche la retrovia dell' aeroporto. Attorno alla pista bucherellata altri piccoli comandanti dell' Alleanza del Nord raccontano di visite di consigli eri militari Usa interessati a capire quali ostacoli ci siano al totale controllo dell' aeroporto. Anche qui c' è una collina infestata di talebani, ma, per sfortuna, non ci sono montagne dirimpettaie per i puntatori laser. Un' avanzata dei mujaheddi n dovrebbe essere appoggiata dal fuoco degli elicotteri o degli Ac130 Specter, le cannoniere volanti. Un sostegno più rischioso per i piloti angloamericani. «Abbiamo pronti cinquemila soldati delle truppe speciali» confida però un comandante. Quattro giorni all' attacco, dice Salim Kahn. Forse troppo ottimista, ma gli americani, seppur ancora invisibili, sono tra i mujaheddin. Non saranno cinquecento come denunciano i talebani, ma ci sono. «Ci stiamo coordinando con gli Stati Uniti», ha detto il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord Abdullah. L' inverno si avvicina e Washington ha bisogno di una base aerea in Afghanistan per l' offensiva di primavera. Può essere Mazar-i-Sharif, nel Nord, ma là i mujaheddin non sfondano, anche se il ministro Abdullah assicura che presto i mujaheddin «libereranno una vasta area a sud della città». Può anche essere, perché no?, l' aeroporto di Bagram: a dieci chilometri dalla casetta colpita per errore e a trenta da Kabul. Andrea Nicastro



giovedi , 01 novembre 2001
GUERRA
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«Il dopo-talebani? L' Afghanistan ha già un governo, il mio»


Andrea Nicastro

IL CAPO DELL' ALLEANZA DEL NORD «Il dopo-talebani? L' Afghanistan ha già un governo, il mio» DAL NOSTRO INVIATO SHERKAT (Afghanistan del Nord) - «Sul piano militare le truppe del Fronte Unito sono pronte ad un attacco di terra. Dovete aspettarvi qual cosa molto presto». La barba bianca di Burhanuddin Rabbani rimane immobile, appoggiata sul petto. Ciò che dice al Corriere non è utile alle spie talebane. Il presidente dell' Alleanza del Nord non avverte quando e dove i suoi mujaheddin attaccheranno . In compenso però, seduto su un cuscino di velluto rosso in una caserma di Sherkat, 70 chilometri a nord di Kabul, lancia un messaggio ai suoi alleati del Fronte Unito. E un altro ancora agli americani. Nelle scorse settimane, nonostante un forte so stegno aereo americano, i soldati del generale Dostum non sono riusciti a strappare Mazar-i-Sharif ai talebani e forse il presidente non ne è del tutto dispiaciuto. C' è chi sostiene che ben pochi mujaheddin di Rabbani siano arrivati in soccorso del generale. Il vecchio comandante uzbeko è un personaggio ingombrante, avesse potuto offrire agli americani l' aeroporto di Mazar-i-Sharif, chissà che cosa avrebbe poi chiesto in cambio. Forse proprio la poltrona su cui siede, a dispetto dei talebani, il professore di teologia Rabbani. Caso vuole che l' unico altro aeroporto afghano disponibile a fare da trampolino per i raid anglo-americani sia Bagram. A portata di mano dell' esercito presidenziale e non di Dostum. I mujaheddin di Rabbani occupan o già quel che resta della pista a 30 chilometri da Kabul, ma sulle montagne attorno ci sono i cannoni talebani. Prima di fare atterrare un solo aliante, quelle alture devono essere liberate. Se gli Usa vogliono la base potranno probabilmente averla, ma alle condizioni del presidente perché saranno i suoi soldati sul campo a prenderla. E se gli stessi alleati di Rabbani all' interno del Fronte Unito hanno intenzione di far da sponda alle manovre di Washington per procurarsi un posto nel governo post-talebano sponsorizzato dagli Usa, devono fare i conti con chi ha ancora il comando dell' esercito, o almeno di una grossa parte di esercito: il presidente dello Stato islamico d' Afghanistan, professore di Scienze coraniche Burhanuddin Rabbani e il suo ministro della Difesa Generale Mohammed Fahim. Presidente, venendo in questa caserma per intervistarla, abbiamo incrociato altri carri armati che scendevano dalla Valle del Panshir verso Bagram. Da due giorni i bombardamenti americani sembran o concentrarsi sulla zona dell' aeroporto. State preparando un' offensiva? «Sul piano militare siamo pronti e dovete aspettarvi qualcosa molto presto». Frutto di un coordinamento con l' aviazione americana? «Con Washington non c' è alcuna cooperazion e formale, solo dialogo. Concordiamo in pieno sulla necessità di combattere il terrorismo e se continueremo ad avere il medesimo obiettivo raggiungeremo il successo». Vuol dire che non ci sono consiglieri militari americani tra i mujaheddin? Che non indicate i bersagli ai bombardieri? «Qui sono venuti alcuni esperti Usa e se ne arriveranno altri saranno i benvenuti. Ma non vogliamo una presenza stabile di soldati americani in Afghanistan. Noi abbiamo concesso il diritto di bombardare le basi ter roristiche di Osama Bin Laden e dei suoi complici talebani. Non di impiantare una base militare permanente o allestire un governo fantoccio. Se qualcuno ha intenzione di farlo, ci opporremo». Rabbani è in una posizione davvero difficile. Senza i cacc ia Usa i mujaheddin non hanno speranze contro i talebani. Ma il professore non può neppure perdere la faccia davanti ai fratelli musulmani per avere aperto le porte di Kabul ai kafir, gli infedeli. Presidente, se Washington chiedesse l' uso della bas e di Bagram, gliela concederebbe? «Ogni cooperazione temporanea è possibile, purché non si tramuti in una presenza permanente». Lei ha spesso denunciato l' appoggio del Pakistan ai talebani. «Purtroppo dal Pakistan continuano ad arrivare aiuti al mul lah Omar e allo stesso Bin Laden. Volontari pakistani, munizioni e vettovaglie entrano in Afghanistan destinati ai terroristi. Confido però che questo atteggiamento possa cambiare». Perché? «Qualcosa - risponde sibillino - potrebbe convincere il Paki stan». Ha in mente una soluzione politica? «Sarà il popolo afghano a deciderlo. Noi siamo il governo legittimo del Paese e sta a noi garantire la sicurezza e lo svolgimento di elezioni appena possibile». Accetterebbe un governo di transizione guidato dalle Nazioni Unite? «Non ne vedo la necessità. L' Afghanistan ha già un governo e io ne sono il presidente». Andrea Nicastro Il professor Rabbani dal governo alla resistenza PROFESSORE Burhanuddin Rabbani (nella foto), 59 anni, di etnia tagika, è s tato professore di filosofia islamica PRESIDENTE Rabbani guidava il governo afghano spodestato dai talebani nel settembre del 1996. Il suo governo unitario si era insediato a Kabul solo due mesi prima. Il Paese si chiamava allora «Stato islamico dell ' Afghanistan». La milizia dei talebani lo trasformerà in «Emirato islamico dell' Afghanistan». Le Nazioni Unite riconoscono ancora Rabbani come presidente legittimo dell' Afghanistan LEADER Rabbani è il leader del partito Jamiat-i-Islami (Società is lamica), ala politica del «Fronte di unità nazionale e islamico per la salvezza dell' Islam» (Unifsa), più noto come Alleanza del Nord, principale gruppo di opposizione al regime dei talebani. Il suo vice è il generale Abdul Rashid Dostun. Il comando militare dell' Alleanza era affidato al generale Massud, ucciso a settembre in un attentato



venerdi , 02 novembre 2001
GUERRA
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«Due giorni di raid duri e sfonderemo le linee»


Andrea Nicastro

«Due giorni di raid duri e sfonderemo le linee» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - Un gruppetto di mujaheddin fa l' autostop di ritorno da una prima linea particolarmente calma, con pochi colpi d' artiglieria e ancora meno bombar damenti americani. Una volta a bordo sistemano le armi come possono e c' è solo da sperare che la sicura regga perché le buche della strada fanno saltellare l' auto come una cavalletta. I soldati anti-talebani vanno a far compere al bazaar di Charigr am e chiacchierano sereni delle loro divise nuove e delle scarpe che il comandante ha promesso entro due giorni, perché poi, «ci ha detto, dobbiamo essere pronti ad attaccare». Il conto alla rovescia per l' offensiva anti-talebana continua. Almeno a parole. Ieri è stata la volta del ministro degli Esteri del fronte unito Abdullah Abdullah: «Sabato raggiungeremo la massima concentrazione delle nostre forze. E se i bombardamenti americani saranno intensi per almeno 2 giorni consecutivi saremo pron ti a lanciare un attacco massiccio e sfondare le linee dei terroristi». Abdullah non nasconde la pochezza del suo esercito. «Non abbiamo tutto ciò che sarebbe utile avere, e d' altra parte in questa stagione non è neppure possibile ricevere troppi ai uti. Da 3 lati abbiamo i talebani e, alle nostre spalle, sull' unica via di rifornimento disponibile, c' è il Passo di Angiman, 4.440 metri, in cima alla valle del Panshir. Il problema è che è bloccato dalla neve. L' aeroporto che stiamo costruendo n on è ancora in grado di far atterrare neppure i piccoli aerei. Noi però siamo abituati a combattere con pochi mezzi. Se contro i sovietici avessimo aspettato di avere tutto ciò che era "necessario", saremmo ancora un protettorato di Mosca. E anche co ntro i talebani, soverchianti per sei anni come numero e armamenti, abbiamo dovuto fare a meno di ciò che sarebbe stato importante avere. Eppure ce l' abbiamo fatta». L' «occidentale» Abdullah, uno dei pochi leader mujaheddin in grado di parlare ingl ese, si cala l' elmetto del soldato e in conferenza stampa parla la stessa lingua dei piccoli comandanti in trincea. La sua retorica, però, non può ignorare che il punto di svolta consiste nei «due giorni di intensi e continui bombardamenti Usa» senz a i quali neppure i coraggiosissimi mujaheddin sarebbero in grado di fare un passo senza essere falciati dalle mitragliatrici dei talebani. Il ministro degli Esteri ha buone ragioni per sperare che le cose vadano come auspica. L' arrivo di Paul Burns , inviato del premier britannico Tony Blair, a esempio, è un segno di una diversa considerazione internazionale. Ma anche i colloqui di lunedì in Tagikistan tra il ministro della Difesa Fahim e il responsabile americano dell' operazione «Libertà dura tura», generale Tommy Franks. «Il dialogo - ha sostenuto Abdullah - verteva sul coordinamento tra le nostre azioni sul terreno e i raid anglo-americani dal cielo. Fahim ha definito l' incontro "molto utile" e forse i recenti bombardamenti sulle trinc ee talebane ne sono i primi risultati». Altro indizio su un miglioramento delle relazioni tra Fronte Unito e America è un misterioso lancio notturno di «aiuti umanitari nella valle del Panshir». A raccontarlo, Abdullah sorride ammiccante sull' aspett o «umanitario» dei rifornimenti paracadutati. Se questo inedito idillio tra americani e mujaheddin è un bluff, ci vorranno pochi giorni per scoprirlo. Altrimenti si vedranno in azione i bombardieri B-52. Andrea Nicastro



martedi , 06 novembre 2001
GUERRA
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E settemila «zarbatì» mostrano i muscoli: «Pronti all' offensiva finale»


Andrea Nicastro

Le forze speciali dell' Alleanza del Nord, volute dal defunto comandante Massud, hanno tenuto la loro «ultima» esercitazione Settemila «zarbatì» mostrano i muscoli: «Pronti a prendere Kabul» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - L' orgoglio dell' esercito dell' Alleanza del Nord è schierato in plotoni stretti stretti, più per difendersi dalla sabbia sollevata dal vento che per rigore geometrico. «Sono settemila - dicono gli antitalebani -. Settemila zarbatì pronti a prendere Ka bul». Sono appena dietro le case di Jabal Seraj, alla fine della Valle del Panshir e danno le spalle al loro vero obiettivo, ad appena settanta chilometri, Kabul. Ma questa è solo un' esercitazione. Anche se così importante da essere definita «l' ult ima». Gli zarbatì sono i commando, le forze speciali volute dal comandante Massud. Non si tratta più di fare imboscate e sabotaggi, come contro i sovietici, ma di avanzare carro armato contro carro armato. Oggi il nemico è costituito da una manciata di pietre dipinte di bianco su un pendio di terra arida e polverosa. Da tre lati si muovono i tank e partono i primi colpi. Preparano la strada ai blindati trasportatruppe. I gusci di metallo avanzano sprizzando nuvole di fumo nero dai motori diesel. I colpi delle mitragliatrici tagliano l' aria, i cannoni dei tank non smettono di martellare la collina. I fanti si gettano fuori dai veicoli, pancia a terra. Da una pattuglia più avanzata torna indietro di corsa un fante e se ne riparte dopo aver p reso la radio da campo che aveva dimenticato. Razzi terra-terra danno un ulteriore spallata al nemico e in quindici minuti gli zarbatì sono in cima alla collina. Quando se ne vanno, i sassi bianchi sono ancora là. Non proprio in pila come prima dell' attacco, ma neppure polverizzati da tanta potenza di fuoco. È facile fare dell' ironia su questi militari. Hanno tutti una divisa, ma la mira non è granché, anche se il forte vento è un' attenuante. La disciplina, scarsa. In attesa del presidente Ra bbani, con tutti i papaveri politici sul palco d' onore a guardarli, un paio di reparti si sono messi a sedere per terra. La logistica è quanto meno carente: per arrivare sul pendio dell' esercitazione la metà è andata a piedi e almeno un quarto ha u sato autobus scassati. La tattica deve fare i conti con la scarsità di mezzi. Invece di scagliare una forza soverchiante di carri armati sul punto più vulnerabile del fronte nemico, gli zarbatì usano i tank come fossero artiglieria e poi, a lanciare l' assalto vero e proprio, vengono mandati i fanti. Se i sassi bianchi avessero avuto i kalashnikov, prendere la collina di Jabal Seraj sarebbe costato decine di vite. Forse però hanno ragione loro. «Prima della sua morte, il comandante Massud stava progettando l' offensiva su Kabul. Doveva essere - dice al Corriere il ministro della Difesa dell' Alleanza del Nord, Mohammed Fahim - per una certa data nei mesi prossimi. È per questo che siamo pronti». Come il geniale Massud pensasse di farcela, r imane un mistero. Certo, con i bombardieri Usa in azione e i corpi speciali sul terreno, le possibilità di riuscita sono più alte. Già ieri, mentre i tank mujaheddin mancavano i loro bersagli fittizi, i jet della coalizione internazionale sganciavano tre bombe laser guidate sulle postazioni talebane a nord di Kabul. Da una parte le nuvolette di polvere sollevate dall' esercitazione, dall' altro i funghi delle esplosioni vere. Ma per i mujaheddin l' insistenza sulla presunta capacità di azione au tonoma ha un valore politico enorme. Devono mettersi al riparo da accuse di collaborazionismo con i kafir, gli infedeli, e potrebbero venire da altri Paesi islamici. Difendersi dalla retorica di cui è capace Osama Bin Laden nei suoi appelli attravers o la tv Al Jazira. «Osama Bin Laden - ha dichiarato il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah - non ha alcun diritto di parlare a nome del mondo islamico perché i suoi sono crimini contro l' umanità, musulmana e non musulman a. Durante il Ramadan i combattimenti non cesseranno perché proprio nel mese più sacro dell' Islam è dovere di ogni buon musulmano combattere contro la brutalità, la crudeltà dei terroristi e rigettare gli appelli malati di Osama Bin Laden alla Guerr a Santa». Andrea Nicastro



giovedi , 08 novembre 2001
GUERRA
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«Qui Kabul, oggi ci bombardano con i volantini»


Andrea Nicastro

VOCI DALLA CITTA' ASSEDIATA «Qui Kabul, oggi ci bombardano con i volantini» DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - È l' immagine di una Kabul popolata da gente in fila alla ricerca di qualcosa da mangiare e da soldati talebani che se mbrano esistere solo di giorno, quella che arriva dalla voce degli amici afghani rimasti nella capitale. Il contatto sulla radio ad altissima frequenza è buono, la voce gracchia solo un po' . Decidiamo di cambiare sintonizzazione abbastanza spesso e ci comunichiamo le nuove coordinate in inglese, sperando di ridurre il rischio di essere intercettati. Probabilmente è una precauzione un po' ridicola perché i talebani non sembrano amare la modernità tanto da saper rintracciare elettronicamente due radio in dialogo tra loro. Ma tant' è. Chi parla da Kabul con uno straniero rischia la pena di morte e questo saltabeccare tra una frequenza e l' altra dà un briciolo di sicurezza in più. Come si vive dopo cinque settimane di bombardamento? «È una gu erra strana. La più strana di tutte quelle che abbiamo avuto da vent' anni a questa parte. La vita sembra normale e poi ti accorgi che sopra la testa volano aerei carichi di bombe che potrebbero ucciderti. Bevi il tè e a due chilometri esplode qualco sa che è come un terremoto. È un' atmosfera strana, non sappiamo spiegare. Oggi, per esempio, gli americani hanno davvero bombardato a tappeto Kabul. Ma l' hanno fatto con dei volantini lunghi e stretti, come due cucchiai messi assieme. Ce ne erano d i vari tipi. Scritti in farsi e pashtun. La scena era davvero ridicola. La gente li guardava scendere dal cielo e aveva una curiosità incredibile di vedere cosa fossero. Però con gli arabi nelle vicinanze nessuno si azzardava a raccoglierli. Poi un v ecchio che probabilmente non sapeva neppure leggere si è chinato, ne ha preso uno e mentre si avvicinavano dei talebani ha cominciato a dire ad alta voce che era una vergogna e che gli americani stavano insultando l' Islam. Ha stracciato il volantino e se n' è andato tutto contento. Allora anche noi ci siamo arrischiati. Bastava raccoglierli, leggerli per bene e poi buttarli via con indignazione». E che cosa dicevano i volantini? «Frasette di propaganda con a fianco foto di talebani che bastonan o delle donne. "Volete che le vostre mogli e le vostre figlie vivano così?". Oppure: "Cacciate i terroristi e gli stranieri dal vostro Paese"». Che cosa fate durante il giorno? «Ieri abbiamo aiutato dei parenti a cambiare casa. Abitano nel quartiere di Khairkhan vicino alla Base 315 - alla periferia nordoccidentale di Kabul - dove i talebani hanno giustiziato Abdul Haq. Ci sono tanti palazzi lì attorno e la gente credeva di essere al sicuro perché dopo i primi raid aveva capito che gli aerei Usa non bombardano i civili. Una volta in verità è successo e sono morte dodici persone, ma i nostri parenti non se ne sono andati per quello. È che a furia di tremare per le bombe, nei muri e nei soffitti si sono formate delle crepe e la loro paura era che la casa crollasse, non che venisse colpita». E adesso dove sono? «Hanno affittato un appartamento in un quartiere più tranquillo». Quanto pagano? «Dieci dollari al mese» (circa 25 mila lire). Guadagnano abbastanza da poterselo permettere? «Già, è un problema. In città nessuno lavora più. Chi aveva i soldi in casa ce la fa, ma per quanto ancora? I ricchi se ne sono andati in Pakistan, così al bazar ci sono ancora la metà dei negozi aperti ma i clienti sono pochissimi. Soprattutto arabi. Ce n e sono tantissimi e sembrano gli unici a poter spendere qualcosa. Si vedono solo durante il giorno e la notte è difficile sapere dove vadano. La gente di Kabul invece non riceve lo stipendio e i conti correnti nelle banche sono congelati». Non capisc o. «Prima dei bombardamenti era normale ricevere la busta paga con qualche mese di ritardo. Ora non arriva proprio. Si dice che il mullah Omar abbia sequestrato i depositi bancari e i fondi dei ministeri per coprire le spese di guerra. Non sappiamo s e è vero o meno. Ma quando siamo andati a chiedere i soldi in banca ci hanno fatto compilare un modulo e ci hanno detto di ripassare». Quando? «Inshallah», a Dio piacendo. Chi non ha risparmi come fa a tirare avanti? «Ci si aiuta, chi ha da mangiare lo dà agli altri, ai parenti meno fortunati. Arriva anche qualcuno dal Pakistan o dalla Valle del Panshir e porta qualche soldo. Poi si spera nell' aiuto di Dio». I talebani hanno fatto sapere all' estero di essere pronti a riaprire le porte agli aiu ti umanitari internazionali. «Benissimo, non lo sapevamo. Forse è per questo che da tre giorni il Pam (Programma alimentare mondiale, n.d.r.) sta distribuendo cibo in tutta la città. Prima sono passati casa per casa a registrare i residenti. Ora inve ce avvisano quando nel tal quartiere avverrà la consegna. La gente si presenta, loro chiamano, consegnano una tessera per ogni appartamento e con quella si può ritirare il pacco dal camion lì vicino». Che cosa c' è nel pacco? «Farina, olio e fagioli» . È sufficiente? «Per un po' sì, poi vedremo. Il problema rimane per quelle famiglie che condividono l' appartamento. Pare che non abbiano diritto a una tessera per famiglia. Chissà perché il Pam ha deciso di darne una per appartamento, non per famig lia. Forse capiranno di aver sbagliato e cambieranno metodo». Inshallah? «Inshallah». Andrea Nicastro



sabato , 10 novembre 2001
GUERRA
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Cade Mazar-i-Sharif, talebani in fuga


Nove ore di assedio, poi il Fronte dell' opposizione conquista la roccaforte dei mullah
Andrea Nicastro

Cade Mazar-i-Sharif, talebani in fuga Nove ore di assedio, poi il Fronte dell' opposizione conquista la roccaforte dei mullah DAL NOSTRO INVIATO JABAL SERAJ (Afghanistan del Nord) - «Mazar-i-Sharif è caduta in nove ore - esulta il generale Rashid Dos tum -. La città è sotto il nostro completo controllo». Sono le 22 in Afghanistan, le 18.30 di ieri in Italia. Un' ora dopo anche i talebani ammetteranno la sconfitta. Mazar era stata l' ultima grande città afghana a cadere nelle loro mani nel 1997 ed è stata la prima a liberarsene. La voce del generale uzbeko, che ha guidato l' assedio del Fronte unito anti-talebano alla principale città del Nord del Paese, sembra tranquilla. «I talebani sono in rotta. Scappano a ovest e a est». Le vittime, gene rale, ci sono state vittime? «Abbiamo contato 90 vittime talebane, tra morti e feriti. Cinquecento sono stati invece fatti prigionieri. Trentacinque invece tra i nostri uomini». Ma siete già entrati in città? Ci sono stati scontri anche nelle strade? «I combattimenti sono stati soprattutto alla periferia, attorno alla base militare di Kala-i-Jangi alle porte di Mazar-i-Sharif e anche attorno al piccolo aeroporto di Dahdadi. Poi i talebani si sono dati alla fuga e hanno abbandonato le città. Li s tiamo inseguendo». La vittoria è anche merito dei bombardieri americani? «La loro azione è stata molto efficace e ottimo il coordinamento con le nostre forze a terra». I walkie talkie dei mujaheddin avevano cominciato a rilanciare le voci dell' offen siva su Mazar-i-Sharif già a metà pomeriggio. «La città sta per cadere e dopo toccherà a Kabul», si infiammavano. La presa di Mazar da parte delle forze anti-talebane apre la porta dell' Afghanistan all' installazione di una base aerea americana. Dal punto di vista militare sarebbe un passo importante per poter incrementare il numero, la durata e quindi l' efficacia delle missioni dei bombardieri. A complicare il flusso delle notizie, un comunicato della Tv Al Jazira, la stessa che diffonde i vi deo di Osama Bin Laden, parlava di offensiva anche sul fronte di Kabul. Voce credibile, tanto più che il ministro della Difesa anti-talebana, generale Fahim, è da due giorni chiuso in riunioni con i comandanti della prima linea. La verifica, e in que sto caso la smentita dell' offensiva sulla capitale, era più semplice, perché Kabul è a circa 30 chilometri da dove sono confinati i giornalisti stranieri. Nella visita notturna alle postazioni di mujaheddin non c' era traccia di battaglia. Riserve d i carburante e munizioni sono state spostate dalle retrovie della valle del Panshir alla prima linea. Ieri notte, i soldati se ne stavano avvolti nei patu, le coperte che fanno loro anche da cappotto, sui tetti delle casupole di fango a godersi l' ef fetto che i raid Usa avevano sui nemici. Due «stringhe» da 25 bombe l' una cadono proprio davanti a Sengendarà, 40 chilometri dalla capitale. Il frastuono è assordante. Il cielo si illumina con i lampi delle esplosioni. «Abbiamo tenuto questo fronte per sei anni - dice Qader, il piccolo comandante di turno -. Ora tocca agli americani aprirci la strada. A noi conviene che i talebani ci credano pronti ad attaccare, così manderanno rinforzi nelle trincee proprio sotto le bombe e quando arriverà il nostro momento troveremo meno nemici da uccidere». Di ritorno in piena notte a Jabal Seraj, gruppi di irregolari sparavano in aria per festeggiare la presa di Mazar. «Poi toccherà a Kabul - spiega un comandante - quando i talebani saranno stanchi di tanti giorni di bombardamento». Dal fronte di Kabul è infatti evidente l' incremento dell' attività militare americana: i segnali sono tanti, dal rombo di jet Usa ai sempre più frequenti funghi delle esplosioni sulle trincee fondamentaliste. L' offen siva di ieri è stata preparata in sordina. Martedì 800 fondamentalisti avevano disertato a Okcoprok, passando ai mujaheddin del Fronte Unito. Mercoledì era stato ucciso in battaglia Gargarei, un comandante delle forze integraliste, ex celebre mujahed din, diventato talebano nel ' 98. Il mullah Omar e Osama Bin Laden, però, non sembrano pronti a cedere le armi e il loro controllo sul territorio resta ottimo. Ieri sera i mujaheddin sostenevano di aver tagliato tutte le strade che da Sud portano al Nord del Paese. Quasi al confine con l' Iran il comandante Ismail Khan aveva preso il controllo (per la terza volta in una settimana) del passo di Kotalesabzak tra Herat e Mazar. Al centro del Paese il comandante Azara Khalilì blocca le difficili pis te di montagna alternative alle strade principali, mentre la via diretta tra Kabul e Mazar è interrotta da 15 giorni. Se le posizioni mujaheddin dovessero reggere un' eventuale controffensiva, le truppe talebane delle province nord-orientali non sara nno più in grado di ricevere rifornimenti e tutto il quadrante potrebbe cadere. Una vittoria ancora più importante di quella di ieri a Mazar, perché consentirebbe di fare affluire rifornimenti e aiuti da Uzbekistan e Tagikistan verso il fronte di Kab ul. Il sogno di riconquista della capitale si farebbe ancora più realistico. Andrea Nicastro TONY BLAIR Ciò che sappiamo è che vi sono stati progressi sostanziali nel Nord dell' Afghanistan. Non sappiamo con precisione quale sia al momento lo stato d el gioco laggiù, ma non vi è dubbio che il vento della guerra è girato decisamente a nostro favore ATTACCO AL TERRORISMO LA GUERRA La presa della città apre la strada all' installazione di una base aerea americana all' interno dell' Afghanistan Ieri notte i soldati se ne stavano sui tetti avvolti nei patu, le coperte che fanno anche da cappotto, a godersi la vittoria



domenica , 11 novembre 2001
GUERRA
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Ma il Fronte Unito è un' instabile intesa tra capi clan


Ex nemici, unitisi contro i talebani, rappresentano etnie e interessi diversi
Andrea Nicastro

L' ANALISI Ma il Fronte Unito è un' instabile intesa tra capi clan DAL NOSTRO INVIATO BAGRAM (Afghanistan del Nord) - In Afghanistan basta possedere una dozzina di kalashnikov, non importa quanto vecchi, e si è automaticamente promossi a rango di «co mandante». Una posizione sociale di prestigio che consente al titolare di arruolare miliziani, controllare un territorio, trattare con gli altri «comandanti». Prima dell' arrivo dei talebani in Afghanistan c' era un comandante in ogni via. La consegu enza erano i continui taglieggiamenti ai commerci, violenze e soprusi. Il regime integralista talebano ha spazzato via questo feudalesimo in cui, conclusa la guerra contro i sovietici, era precipitato il movimento dei mujaheddin. Gli anti-talebani di oggi sono gli stessi che cinque anni fa, invece di preoccuparsi dell' avanzata degli «studenti del Corano», continuavano a spararsi a vicenda. Il generale Dostum, venerdì trionfatore a Mazar-i-Sharif, bombardava Kabul occupata dagli uomini di Rabban i. L' esercito di questo massacrava nella capitale un incredibile numero di hazara, i discendenti di Gengis Khan. E oggi i sopravvissuti alla strage sono alleati sia di Dostum sia di Rabbani contro il mullah Omar e Osama Bin Laden. La coalizione cui gli americani hanno aperto la strada a forza di bombe è un collage di signori della guerra, capi clan e leader etnici che hanno dimostrato contro Mosca di saper combattere e vincere assieme, ma che hanno anche provato di non essere altrettanto dotati come governanti. È anche per questo che Washington è stata a lungo restia ad appoggiare militarmente gli anti-talebani del Fronte Unito o Alleanza del Nord. Ma la cattura e l' esecuzione di Abdul Haq, possibile calamita per talebani moderati, ha las ciato gli Usa senza alternative all' appoggio della coalizione guerriera. Quanti comandanti controlla l' «arabo» Sayaff? E quanti il tagiko Rabbani? E l' uzbeko Dostum? E l' hazara Khalilì? E quanti il ministro della Difesa Fahim, esponente del clan della valle del Panshir? Religione, etnia, parentele, addirittura buon vicinato: tutto serve a capire quanto sia disunito il Fronte Unito. Ci sono i capi etnici alla Dostum e alla Khalilì. Il generale uzbeko riceve aiuti da tutta l' Asia che parla di aletti di origine turca, da Istanbul a Tashkent. Il capo degli hazara beneficia della solidarietà di Teheran in virtù del fatto che il suo piccolo popolo con gli occhi a mandorla rappresenta un' isola sciita nel mare sunnita dell' Islam afghano. Ma c i sono anche capi religiosi come Rabdul Sayaff, un integralista di fede wahabita (la stessa di Bin Laden) che però milita nel Fronte Unito. Sayaff è stato per anni finanziato dall' Arabia Saudita, almeno fino a quando non è comparso il mullah Omar. È pashtun, come il nocciolo duro talebano, e se il radicalismo islamico ha attecchito in profondità, potrebbe essere lui a raccoglierne l' eredità spirituale e politica dopo la fine dell' avventura talebana. Nella religione, nell' etnia e nella lunghi ssima militanza politica giace il potere del presidente Rabbani, tagiko. Il professore ha buoni rapporti con la Russia e ha in mano alcune leve economiche dello Stato sopravvissuto all' avanzata integralista. La sua preoccupazione oggi è quella di co nservare il posto di presidente anche in un Afghanistan riunificato, dove il peso dei pashtun potrebbe schiacciare quello dei tagiki. Il suo futuro, come quello di molti altri, dipende dal mistero chiamato generale Fahim, ministro della Difesa, tagik o del Panshir. A lui formalmente tutti i comandanti devono obbedienza. Da lui dipendono l' 80 per cento delle munizioni e dei salari per i soldati, gli elicotteri e gli unici reparti veramente addestrati. Fahim però non parla. E non ha il fascino di Massud, suo predecessore. Ma prima che arrivasse tre giorni fa sul fronte di Kabul, tutto era cristallizzato. Ora sembra un fronte vero, con i tank che arrivano dal Panshir giorno e notte e i soldati che studiano il campo di battaglia. Gli obbedirann o davvero? E da che parte starà Fahim? Per il momento passa le giornate con i consiglieri militari americani. Poi si vedrà. Andrea Nicastro



domenica , 11 novembre 2001
GUERRA
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Gli anti-talebani: «Tutto il Nord è nostro»


I mujaheddin prendono altre quattro province settentrionali e giurano: «Entreremo nella capitale»
Andrea Nicastro

ATTACCO AL TERRORISMO LA GUERRA I soldati coranici si nascondono o passano con i vincitori, come 300 arabi e pakistani. «Alcuni adesso sono prigionieri» Le vittime della battaglia di venerdì per entrare a Mazar-i-Sharif secondo il generale Dostum sar ebbero meno di cento Gli anti-talebani: «Tutto il Nord è nostro» I mujaheddin prendono altre quattro province settentrionali e giurano: «Entreremo nella capitale» DAL NOSTRO INVIATO BAGRAM (Afghanistan del Nord) - Caduta la diga di Mazar-i-Sharif gli anti-talebani dilagano in tutto il Nord dell' Afghanistan. Più che combattere, le truppe integraliste svaniscono, lasciano l' artiglieria e i carri armati come a Mazar e Aybak, cento chilometri a est, passano dalla parte dei vincitori o si nascondon o, come hanno fatto 300 arabi e pakistani in una scuola della città catturata venerdì notte. «Li abbiamo trovati poche ore dopo essere entrati a Mazar-i-Sharif - ha dichiarato il generale Dostum -. Alcuni hanno fatto resistenza e abbiamo dovuto uccid erli. Altri si sono arresi e ora sono prigionieri di guerra». Il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah, diffonde un bollettino trionfalistico della giornata di ieri: «Cinque province catturate. Tre a ovest di Mazar-i-Sharif : Faryab, Jowzjan e Sar-i-Pol. Una a est: Samangan. Ma la possibilità di riunificare tutti i nostri fronti adesso è molto vicina. Il Nord del Paese è nostro». L' espansione dell' area di controllo a occidente apre la via dei rifornimenti dall' Uzbeki stan, uno degli obiettivi strategici del Pentagono. La marcia a oriente potrebbe invece mettere sotto assedio le guarnigioni talebane al confine con il Tagikistan. «L' obiettivo - precisa Abdullah - è liberare l' intero Afghanistan». Poi, travolto da entusiasmo, si attribuisce meriti discutibili. «Senza nulla togliere al contributo dato dalla Coalizione internazionale - dice il ministro -, il merito della caduta di Mazar va alle truppe di terra dell' Alleanza del Nord del presidente Burhanuddin Rabbani». Le ultime due volte che Mazar era passata di mano, nel ' 97 e nel ' 98, le vittime si contavano a migliaia. Venerdì, se c' è da credere al generale uzbeko Dostum, sono state meno di cento. Segno che i talebani, come stanno facendo nelle alt re province del Nord, scappano invece di combattere contro i mujaheddin. E più che per paura di un nemico che hanno dominato per anni ciò è dovuto essenzialmente ai raid anglo-americani. I bombardamenti continuano. Secondo l' agenzia d' informazioni Afghan Islamic Press, 130 civili sarebbero rimasti sepolti dalle bombe Usa in un villaggio a sud di Kandahar. Solo qualche superbombardiere B-52 invece sul fronte di Kabul e questo perché, secondo gli esperti militari, i caccia erano ancora impegnati nella zona di Mazar a inseguire le colonne di talebani in fuga e a spianare la strada all' avanzata mujaheddin. La presa del Nord apre prospettive nuove all' alleanza anti-talebana. Il controllo del 30 invece che del 10 per cento dell' Afghanistan i nnanzitutto. Ma anche la possibilità di ospitare le forze americane nella base aerea di Mazar, di far affluire munizioni e armamenti da Uzbekistan e Tagikistan, di aprire la grande autostrada Nord-Sud che porta a Kabul attraverso il tunnel di Salang. Tutte precondizioni per un' offensiva sulla capitale che gli americani però continuano a non volere, essendo preoccupati di preservare la capitale afghana da ulteriori lotte intestine fra le varie etnie, tribù, potentati militari che si contendono i l Paese. Il ministro Abdullah gli risponde direttamente: «Siamo pronti a entrare a Kabul, la gente della capitale ci vuole». Ieri notte i carri armati scendevano per la prima volta dalla valle del Panshir per andare in massa al fronte. «Siamo pronti - ammetteva un importante comandante mujaheddin chiedendo l' anonimato - ma senza il supporto aereo Usa non si va da nessuna parte». A. Ni. Obbiettivi e strategie L' ASSEDIO Venerdì 9 novembre, dopo nove ore d' assedio, i mujaheddin dell' Alleanza de l Nord, guidati dal generale Dostum, entrano a Mazar-i-Sharif, nel Nord-Ovest del Paese LA CITTA' Mazar-i-Sharif era stata l' ultima città conquistata dalle milizie talebane, nel 1997. E' collocata in un punto strategico per i collegamenti tra Afghan istan ed ex Urss. L' espansione dell' area di controllo a occidente apre la via dei rifornimenti dall' Uzbekistan L' AVANZATA Ieri gli anti-talebani hanno annunciato di aver conquistato tutto il Nord dell' Afghanistan. Adesso controllano il 30 per ce nto del Paese (prima dell' inizio della campagna erano relegati al 10 per cento) GLI STATI UNITI Ad aprire la strada alla avanzata sono stati gli intensi raid anglo-americani sulla regione. La presa della città apre adesso la strada all' installazion e di una base aerea americana in Afghanistan



lunedi , 12 novembre 2001
GUERRA
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E a Mazar liberata tornano la musica e il rasoio del barbiere


Andrea Nicastro

E a Mazar liberata tornano la musica e il rasoio del barbiere DAL NOSTRO INVIATO BAGRAM (Afghanistan del Nord) - C' è la coda dai barbieri di Mazar-i-Sharif. Scappati o uccisi gli integralisti col turbante, bisogna prendere il biglietto e fare la fil a per regolare finalmente la barba. Ottocento lire e sulla pelle si prova la sensazione che l' incubo talebano, almeno a Mazar, è finito. Dalle radioline a transistor, per la prima volta da anni, invece delle melodie coraniche escono canzoni d' amore . L' idea che il mullah Omar ha dell' Islam fa della musica una pericolosa distrazione dalle preghiere con il risultato che sono banditi non solo il satanico rock occidentale, ma anche i romantici cantautori locali. Ieri, Radio Mazar, intatta nonosta nte i combattimenti, ha ripreso le trasmissioni con una non-stop di successi di Ahamad Zahir, il Battisti afghano. Negli anni Settanta Zahir era un ragazzo tanto bravo e affascinante che, si dice, il presidente Hafizullah Amin lo fece uccidere per to glierlo dalla testa della figlia. La tomba dell' artista a Kabul era un luogo di culto per migliaia di ragazzine che sapevano le sue canzoni a memoria fino a quando i talebani, sempre loro, non fecero saltare il monumento funebre. Ieri però Zahir ha avuto la sua rivincita. Nonostante i divieti qualcuno a Mazar aveva conservato i nastri del bel Zahir e tutte le radioline della città le rimandavano al massimo volume. Anche il centro telefonico pubblico contattato dal Corriere ne era inondato. «La gente balla per le strade - ha detto Balkh, l' operatore -. Anche nel mio negozio c' è la coda come dal barbiere. Tutti vogliono parlare con i parenti all' estero, rassicurarli, spiegare che stanno bene». «Mazar deve tornare a essere il centro di cul tura che è sempre stato, aperto alle donne e al resto del mondo» è il proclama di Rashid Dostum, il generale uzbeko che ha guidato le forze dell' Alleanza del Nord alla riconquista della città. Attraverso il telefono satellitare, Dostum spiega al Cor riere il programma per la rinascita post-talebana. Mazar come la Berlino dei tempi sovietici, quando dall' altra parte del muro i cittadini del socialismo reale spiegavano le luci e il benessere offerti dal capitalismo. Mazar i-Sharif liberata venerd ì dovrà, secondo Dostum, convincere il resto dell' Afghanistan che il modello talebano non funziona, che si vive meglio, più liberi e non per questo meno rispettosi della religione, senza proteggere terroristi internazionali alla Osama Bin Laden e fa natici integralisti alla mullah Omar. Il generale Dostum dice di essere seduto su quella che è stata per anni la sua poltrona di governatore nel forte dalle cupole azzurre di Mazar-i-Sharif. Da lì era riuscito a garantire alla città una relativa tran quillità anche quando Kabul, Herat e Kandahar venivano bersagliate dalle varie fazioni mujaheddin in lotta. Dostum mandava i suoi Mig a bombardare la capitale, ma la vita a Mazar proseguiva quasi normale. Nel ' 97 i talebani l' avevano costretto a ri fugiarsi in Uzbekistan. Ora il generale è di nuovo a Mazar, la minoranza uzbeka si riconosce in lui, tutto il Nord dell' Afghanistan sta per cadere nelle mani del Fronte Unito, presto comincerà l' avanzata verso Kabul e, un giorno, Dostum avanzerà pr etese su qualche importante e remunerativo ministero. I giochi però sono già cominciati, in termini di rapporti con amici stranieri e relativa influenza all' interno dell' alleanza antitalebana. «Ho incontrato oggi - dice Dostum - i comandanti e le a utorità interessate a riaprire l' università e le scuole togliendo il veto talebano alle studentesse. Lanceremo un appello a tutte le donne che lavoravano prima dell' arrivo dei terroristi perché tornino nei loro uffici. La città deve riprendere a vi vere. Chiedo che le organizzazioni umanitarie aprano senza timori i loro uffici a Mazar-i-Sharif, chiedo che il mondo ci aiuti a lasciare alle spalle il buio da cui veniamo». Nel passato diversi esponenti del Fronte Unito si sono resi responsabili di atti brutali contro i civili al momento dell' occupazione militare di una città. Come vi siete organizzati perché quegli episodi non si ripetano a Mazar? «Stiamo allestendo tre basi militari alla periferia e la città sarà smilitarizzata. Non ci devo no essere kalashnikov per le strade. Un regolare corpo di polizia sarà l' unica forza autorizzata a portare armi». Il generale non pensa solamente a ricostruire. Ieri è rimasto in contatto radio con i suoi ufficiali che inseguivano a occidente i tale bani in fuga e che, soprattutto, facevano sicurezza alle strade che dall' Uzbekistan portano a Mazar. Con una via di terra aperta agli aiuti internazionali, Dostum pensa in grande. «Vogliamo potenziare l' emittente radio locale. Trasformarla nella vo ce dell' Afghanistan liberato. Vorremmo anche allestire una televisione, magari via satellite. I talebani l' avevano vietata, ma il Paese ha diritto ad uscire dal medioevo del mullah Omar e tornare nel mondo contemporaneo». Non è improbabile che quan to Dostum dice sia una recita a beneficio dell' Occidente, di cui il generale vorrebbe essere il più stretto alleato all' interno del Fronte Unito. La Turchia lo finanzia e forse garantisce per lui nei confronti di Washington. Ma neppure Dostum come tanti altri signori della guerra afghani ha la coscienza immacolata. Tutt' altro. E non si tratta solo degli eccidi del passato. Interrogato sulle voci di una strage di talebani stranieri, compiuta dai suoi uomini in una scuola di Mazar tra venerdì e sabato, l' uzbeko minimizza: «Erano trecento, chi ha fatto resistenza è stato eliminato, gli altri sono stati fatti prigionieri». Diversa la versione di un suo alleato nel Fronte Unito, l' hazara Mohaqaq, che parla invece di una strage a sangue fred do di oltre mille fondamentalisti. Ci vorrà del tempo prima che Mazar diventi davvero una vetrina di libertà. Andrea Nicastro



martedi , 13 novembre 2001
GUERRA
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Cannoni, pane e sangue sulla via per Kabul


E il comandante mujaheddin mostra i passaporti dei prigionieri: «Vengono da Arabia, Yemen, Pakistan» Viaggio a sud di Bagram seguendo la linea del fronte, tra colpi di mortaio e agguati per la strada: dopo dieci ore di fuoco arriva l' ordine di stop all' offensiva
Andrea Nicastro

Cannoni, pane e sangue sulla via per Kabul E il comandante mujaheddin mostra i passaporti dei prigionieri: «Vengono da Arabia, Yemen, Pakistan» DAL NOSTRO INVIATO KALAKON (Nord di Kabul) - È notte quando i mujaheddin arrivano alle porte di Kabul. Nov e, dieci ore di combattimenti, fuoco d' artiglieria, mine, sangue e odore di benzina. Con le schegge di mortaio che fischiano troppo vicine e la polvere che entra negli occhi, in bocca, sotto la pelle quando la bomba esplode e i massi intorno diventa no, improvvisamente, insignificanti ripari dalla paura. Da dentro una vecchia Volga color panna, con una bandiera bianca sull' antenna della radio che dice «italian journalist», l' avanzata degli antitalebani sino a Shakardarà ha l' aspetto di una gu erra vera. Ma a guardarla dalle trincee ormai deserte da cui siamo partiti al mattino, a guardarla sulla cartina come fa il comandante Mirza che ha bloccato la Volga e l' ha obbligata a fare dietrofront, appare più come una marcia trionfale davanti a l nemico in fuga. Ora per le prime linee mujaheddin la capitale afghana è a sei chilometri. Alle spalle hanno lasciato l' intera piana di Shamali, davanti hanno solo le montagne dalle quali i talebani sperano di far capire che, almeno da lì, non se n e sono ancora andati. La strada per Kabul sembra aperta, ma nessuno si azzarda ad attraversarla. Potrebbe essere minata e gli «arabi» di Osama sono appostati sulle creste. A ben vedere non c' è fretta. Dopo sei anni, un giorno in più o in meno non fa differenza. I comandanti principali hanno ordinato di fermare l' offensiva. I piccoli vorrebbero tentare lo sfondamento. I loro soldati sparano in aria per festeggiare la vittoria e a loro sembra di essere davvero diventati d' un tratto un' armata i nvincibile. Fa gola il bottino che si potrebbe fare conquistando Kabul. Ma preoccupa anche il nemico di sempre, il Pakistan. «Se non prendiamo noi la capitale, il Pakistan s' inventerà qualche trucco, convincerà gli americani e farà arrivare qualche talebano travestito. Dobbiamo entrare noi a Kabul». La battaglia comincia verso le 10, dopo una notte di fitti bombardamenti. Ora tocca ai mujaheddin. Colpi di artiglieria, katiusha, missili terra-terra, tank. I B52 americani fanno qualche passaggio, sganciano e se ne vanno. Lo stesso fanno una dozzina di F18. Due i punti presi di mira: la collina di Totakhan che sovrasta l' aeroporto e il fianco destro della piana di Shamali, dove da giorni i caccia Usa tentano di snidare le postazioni «terrori stiche». I talebani rispondono con decisione, ma le nuvole di fumo che si vedono alla base di Totakhan vengono dalle ruote dei pick-up fondamentalisti. Stanno scappando, lasciano dietro di sé poche unità d' artiglieria leggera per proteggere la ritir ata, ma se ne vanno. Il comandante Shirpasha non è contento, in una giornata come questa ha altro a cui pensare che non alla sicurezza della Volga di un «italian journalist». Però ha famiglia e sei figli da sfamare. Si parte. Il walkie talkie dice ch e a Karabokh due comandanti hanno lasciato le file talebane. Karabokh, spiega, è un villaggio sulla vecchia strada per Kabul. Da lì, se i disertori resistono, i talebani non possono scappare, prenderanno delle vie secondarie, le stesse che la Volga s i ingegna a superare. Dal villaggio dei disertori arrivano indicazioni preziose sui campi minati. Si entra nel primo villaggio dopo Bagram. La jeep con montata sul cassone una mitragliatrice da contraerea spara sugli spigoli dei mattoni cotti al sole . Nessuno risponde. I due gruppi di mujaheddin corrono tra i campi. Ad ogni salto chi li guarda trema all' idea di una mina, ma il comandante Shirpasha pare sicuro delle informazioni ricevute dai disertori. Ha ragione lui. Si prosegue. Sopra la testa continuano a volare i proiettili dell' artiglieria mujaheddin. «Conquistato l' aeroporto di Bagram», annuncia il walkie talkie. Un altro villaggio è «liberato». I bambini escono dalle case. Non sembrano neppure spaventati. In ogni paese gli uomini d el comandante Shirpasha sanno in quali case entrare e in quali no. «Qui abitano tagiki, amici, inutile sfondare la porta con i mitra alla mano». Da una pista che arriva direttamente dalla collina di Totakhan sbuca un pick-up avvolto nella polvere. Ci sono due feriti a bordo: mujaheddin. Uno ha la giacca annodata al polpaccio, l' altro la pancia squarciata. Non hanno neppure provato a tamponare la ferita. Un soldato riconosce il moribondo, è del suo stesso villaggio, e sale sul pick-up a consolar lo. L' auto rimane ferma fino a che il ragazzo muore con la mano nella mano del vicino di casa. La Volga avanza ancora. Le stradine sono tortuose, si addentrano tra i muri che circondano case e giardini. Bisogna salire su un tetto per vedere l' aerop orto di Bagram lontano dietro di noi. Alle 14 il gruppo del comandante Shirpasha cede la prima linea a un' altra squadra. I soldati mangiano seduti per terra. Passa un ragazzo, ha i baffi neri, ma ancora pochi peli sulle guance. Distribuisce pane non lievitato e patate arrosto. Alla radio chiamano il comandante. Ci sono dei prigionieri da portar via da Kalakon. La jeep verde parte spruzzando olio dal tubo di scappamento, dietro due pick-up colorati e il camion che fa insieme da autobotte per la benzina e da «trasporto truppe». La Volga, al solito, arranca ed è una fortuna perché il secondo pick-up taglia una curva e calpesta una mina. La cabina si apre come una scatola. Il convoglio si ferma, si tenta di medicare i feriti, ma non c' è neppu re un infermiere. Dal camion scendono alcuni soldati per attendere i soccorsi e si prosegue verso i prigionieri. Sono 50, tra arabi e pakistani. Li hanno catturati gli «zarbatì», le truppe speciali del comandante Mirza che ora si rigira in mano un pa cco di passaporti. «Ecco - mostra il comandante - Arabia Saudita, Emirati Arabi, Pakistan, Yemen, Pakistan...». Gli «stranieri» sono appena stati stivati sul camion quando qualcuno grida e il comandante si butta a terra. È una granata da mortaio che arriva troppo lunga, dietro un muretto che fortunatamente regge all' urto. La seconda cade più vicino, le schegge volano a meno di venti centimetri da terra, ma c' è ancora il muro di un giardino a proteggere la truppa. Solo il camion dei prigionieri ha due ruote squarciate e si affloscia sul davanti. Gli «zarbatì» appostati a 300 metri rispondono al fuoco. Dalla postazione talebana nessun segno di reazione. «Via, via» ordina il comandante Mirza. Ormai è buio, Mirza fa strada sul suo gran Cheroc kee e in un quarto d' ora porta la Volga sulla vecchia strada per Kabul. Da lì è tutto una corsa sull' asfalto. Dalla linea del fronte partono scariche di mitra che salutano la vittoria. «Domani sera - dice Mirza - gli stessi kalashnikov festeggerann o a Kabul». Andrea Nicastro anicastro@corriere.it ATTACCO AL TERRORISMO FRONTE NORD Sul cassone della jeep è montata una mitragliatrice. Il convoglio si ferma: l' automezzo davanti è saltato su una mina Nella polvere sbuca un pick-up. Porta due ferit i: uno ha la giacca annodata al polpaccio, l' altro la pancia squarciata



mercoledi, 14 novembre 2001
GUERRA
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Il piccolo Khasim libera l' aquilone dai muri del cortile


Andrea Nicastro

DIARIO DALLA CAPITALE Il piccolo Khasim libera l' aquilone dai muri del cortile DAL NOSTRO INVIATO KABUL - La faccina sporca che guarda in alto, Khasim, 8 anni, lotta con un filo di vento per far volare il suo aquilone. Sta sull' orlo di un fossato d i cemento e la mamma non c' è a tremare nel vederlo sempre in pericolo di cadere. È chiusa in casa per paura che il passaggio di potere tra talebani e mujaheddin si risolva in un' ennesima sparatoria per le strade di Kabul. Khasim invece è sui marcia piedi di Khora i-Sadorat, il quartiere centrale dove vive, in mezzo al traffico che riprende lentamente dopo l' arrivo delle «forze di sicurezza» del Fronte Unito. Ma nessuno si cura di lui e dell' aquilone. Solo i tassisti si arrabbiano quando il su o gioco perde quota e rischia di finire sul parabrezza. L' aquilone non è granché: due legnetti, un sacchetto di plastica aperto a fare le ali e qualche metro di nylon. Però vola, bene, a cinque-sei metri sopra la testa tonda del bambino. Appena ieri l' aquilone era «harram» per le regole di vita e morale talebane: vietato. Khasim non si scompone, sente la parola «harram» e sfodera una doppia fila di denti sporchi. «Sì, sì, era vietato, ma oggi no. Quindi gioco». Logica ineccepibile, simile a qu ella degli «studenti del Corano» che vedevano nei divertimenti per bambini il germe peccaminoso delle scommesse. In fondo, tenere in volo un aquilone fatto di niente è davvero una scommessa. Come giocare a biglie o «a noci», quello che per noi sono l e bocce, o «a shkhanbosi», una versione di bowling dell' età della pietra che è sempre piaciuto ai bambini afghani. E per far volare il suo aquilone bisogna che Khasim sia davvero bravo. Ma come ha fatto ad imparare? Quando i talebani entrarono a Kab ul, aveva solo due anni, troppo pochi per avere già imparato a far volare sacchetti di plastica e legnetti. E allora? Qualcuno ti ha insegnato questa mattina, Khasim? Il piccolo se la ride che è un piacere, alla faccia dell' ingenuità del giornalista e della rigidità del mullah Omar, il capo supremo del movimento talebano. «Ma va' ! Noi abbiamo sempre giocato con gli aquiloni nei cortili di casa. Bastava solo non farli salire oltre il tetto e nessuno diceva nulla». Si è radunata una folla attorn o al bambino. Coetanei stupiti dello stupore del «khariji», lo straniero. E adulti nullafacenti, disoccupati e curiosi di vedere ancora occidentali in città dopo più di un mese di bando. Ma certo, c' erano le leggi talebane, ma a chi importava? Nei c ortili, nelle case, le regole rimanevano quelle di sempre. Da ieri sono tornate valide anche per le strade di Kabul. A. Ni.



mercoledi, 14 novembre 2001
CARCERI
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Nella prigione dei «peccatori»


Ore e ore di rieducazione. Tra i video sequestrati, il Gesù di Zeffirelli
Andrea Nicastro

Nella prigione dei «peccatori» Ore e ore di rieducazione. Tra i video sequestrati, il Gesù di Zeffirelli DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Sono le 14 e Ahamad Joivid non ha ancora fatto in tempo ad accorciarsi la barba. Dall' alba, Kabul non è più talebana, ma i negozi di parrucchiere non hanno ancora alzato le serrande. La rieducazione morale a cui i talebani lo avevano sottoposto otto mesi fa non deve aver funzionato in pieno, perché Ahamad persiste nel peccato: la barba se la taglierà del tutto, pri ma di sera. Ora ci scherza, ma quando stava passando venti giorni a pane e minestra in una cella con trenta altri «viziosi», senza neppure lo spazio per allungare le gambe, deve aver maledetto la sua cocciutaggine a usare il rasoio. «Sono stato in pr igione proprio qui, a Sarak i-Ansarì» dice Ahamad. Il portone di metallo è bloccato dall' interno da una scala a pioli. Ma qualcuno ha già forzato il passaggio e con un paio di spinte si è dentro. Ahamad fa strada. «La mia cella era qui a sinistra». Fino a lunedì c' erano ancora i prigionieri dell' Amar Bil Maroof Wa Nahi An al-Munkar, il Dipartimento della polizia religiosa talebana per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Oggi sembra una catapecchia abbandonata. «Stamattina qu alcuno dev' essere entrato e deve aver portato via tutto quello che i talebani si erano lasciati dietro». Hanno strappato le prese della corrente e perfino i fili murati. Ci sono calcinacci ovunque. «Era tremendo. Soprattutto in cella, tutti ammassat i. Io sono stato qui d' inverno e almeno si stava caldi, ma per quelli che erano dentro in estate dev' essere stato anche peggio. L' unica consolazione, e forse il loro scopo era proprio questo, erano le cinque preghiere al giorno. Dovevano farci usc ire e lavare. Era l' unico momento in cui respiravo davvero». Mentre le celle non avevano nulla di umano, non un materasso, non uno spazio privato, i bagni per le abluzioni che per i musulmani devono precedere le preghiere, hanno perfino le porte di legno nuove, lavabi lunghi e stretti e un aspetto decente. «Appena al di là del cortiletto c' erano le aule per le lezioni di morale e religione e gli uffici dei commissari del vizio e delle virtù». Nell' aula sono rimasti i cuscini per sedersi, quat tro grandi cartelli azzurri con lunghe citazioni dai primi quattro califfi dell' Islam e una Darrà appesa allo stipite della porta. La Darrà è una striscia di cuoio larga e pesante che, secondo la Sharìa, la legge coranica, dovrebbe essere usata da u n giudice come punizione simbolica nei confronti del peccatore. «I talebani invece la usavano come una vera e propria frusta. Spogliavano il malcapitato e lo colpivano con tutta la forza possibile. Erano gli stessi che avrebbero dovuto insegnarci a p regare, ma erano ignoranti e sapevano solo ripetere il Corano a memoria senza capire quello che dicevano». Sul tetto dell' aula di teologia sono ammonticchiate, ormai arrugginite e inservibili, tutte le antenne paraboliche sequestrate nel quartiere. All' interno sono rimasti i libri di catechismo musulmano per i prigionieri, molti i volumetti di Hadith, le profezie del profeta Maometto. «I talebani pretendevano che imparassimo a memoria alcune Hadit e ci uniformassimo a esse senza discussioni». È proprio tra le profezie di Maometto che gli «studenti del Corano» hanno trovato le ragioni per vietare la televisione o imporre la barba agli uomini, alcune tra le più bizzarre regole religiose introdotte nell' era talebana. La prigione di Sarak i- Ansarì è diversa dalle altre del Dipartimento sparse in città. Funzionava anche da deposito e centro di investigazione. Le stanze accanto all' aula di teologia erano magazzini e archivi dei più svariati generi di peccato. Ci sono le videocassette, sp arse per terra e spaccate dagli sciacalli del mattino. Molte, di film americani o europei, erano state distrutte al momento del sequestro, ma altre come una versione inglese del «Gesù» di Franco Zeffirelli conservate forse per studiare meglio i kafir , gli infedeli. Ci sono i cd rom di giochi. Libri stranieri, il diario di una suora inglese, cartoline dell' Afghanistan e perfino la fotografia di una bambina bionda. Dietro un nome e la data: Melissa, 13-5-1998. Chissà qual era il suo peccato perch é le sequestrassero la fotografia. A. Ni. IL MINISTERO DELLA MORALE PURI IN ALLAH Il ministero per la Promozione della virtù e la Prevenzione del vizio fu istituito dai talebani all' indomani della presa di Kabul nel ' 96 per vigilare sull' applicazi one delle regole imposte dal regime in conformità con la «sharia» (la legge islamica) tramite i suoi temutissimi agenti di polizia IMPURI Oltre all' obbligo delle cinque preghiere quotidiane prescritte dal Corano, il ministero ha promulgato centinaia di editti: alcuni destinati specificamente alle donne (dall' obbligo del burqa al divieto di guidare l' auto), altri a tutta la popolazione: niente tv, niente musica, niente Internet, niente festa del 1° maggio; vietato anche tagliarsi la barba, all evare uccelli, far volare aquiloni



mercoledi, 14 novembre 2001
GUERRA
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Hanno preso la città con gli asini e i taxi


Il racconto dell' inviato del «Corriere»: la gente è andata incontro ai liberatori e li ha accompagnati nelle strade
Andrea Nicastro

Fermati alla periferia i carri armati. Pochi morti. Intorno al collo di un cadavere il nastro di una musicassetta Hanno preso la città con gli asini e i taxi Il racconto dell' inviato del «Corriere»: la gente è andata incontro ai liberatori e li ha a ccompagnati nelle strade di ANDREA NICASTRO KABUL - In bicicletta, a dorso d' asino, a piedi, appesi ai finestrini di taxi già stipati all' inverosimile. E' un popolo quello che è entrato ieri mattina a Kabul, non un esercito d' occupazione. I carri armati sono rimasti fuori dalla città. I vecchi cingoli sovietici hanno resistito per i 20 chilometri che servivano a cacciare i talebani dalla pianura, poi li hanno fermati. Per una volta in Afghanistan c' è la speranza che la fine di una guerra non segni l' inizio di un' altra. I talebani, i fondamentalisti che volevano imporre un' interpretazione del Corano mai vista prima nella storia dell' Islam, sono in fuga. Sconfitti. Kabul invece si è aperta, è andata incontro ai mujaheddin per un abbra ccio fantastico. Fino al giorno prima erano nemici. Divisi dalle trincee. Gli uni con la barba lunga e incolta, il turbante e gli aerei americani a bombardare i «loro» soldati tra le loro case. Gli altri con la barba nera, appena più corta, e le divi se raffazzonate di un' armata vittoriosa reinventata in poche settimane. Due mondi che si sono incontrati e riconosciuti La gente della capitale è salita verso il passo di Khotali Khairkhana e si è mischiata a quella che aspettava lì il via dai mu ja heddin in armi. Si sono baciati, tirati l' un l' altro la barba con affetto, come solo gli afghani sanno fare. Non c' era più bisogno di aspettare altre autorizzazioni. La città era sicura, a garantire per loro c' erano gli stessi abitanti di Kabul. Dalle 10 del mattino una folla di tagiki e hazara, afghani del Nord avvolti nei patù, che servono da cappotto, coperta, cuscino, valigia e un' infinità d' altri usi, si era ammassata a Khotali Khair khana, il passo che dalla Valle Panshir porta alla conca della capitale. «A Kabul». «A Kabul». «Andiamo a Kabul». Non si sentiva altro. Un delirio, una frenesia collettiva e contagiosa. Da tutta la pianura, dal Panshir continuavano ad arrivare centinaia di persone. Rifugiati, abitanti della capitale fuggiti all' oscurantismo degli «studenti del Corano» e alla discriminazione che i pashtun talebani avevano istituito per ogni altra etnia del Paese. Il sottile velo di soldati che il Fronte unito aveva posto a sbarrare il passo era sempre più insuff iciente a reggere la pressione. I vecchi si erano messi in viaggio prima dell' alba, a piedi, e dicevano: «Andiamo a casa, andiamo a Kabul». I giovani che nella capitale hanno studiato e che a qualche festa di matrimonio hanno visto ballare le ragazz e senza burqa, «giuro, le più belle ragazze del mondo», non ne potevano più, volevano ricominciare a vivere: «Perché aspettiamo? Entriamo a Kabul». Una jeep verde con un lanciarazzi Rpg avvitato sul cassone ha tagliato la folla e si è messa di traver so sulla strada. Il soldato al cannoncino ha gridato qualcosa, qualcosa per lasciar capire che faceva sul serio. E la folla disarmata ha mosso un passo indietro. Per un' ora sono rimasti muti, a guardarsi l' un l' altro, a spiegare a chi arrivava che non era ancora il tempo per la capitale. Che forse c' erano dei combattimenti. Che gruppi di talebani stranieri si erano nascosti tra le case per fare scattare imboscate, per compiere attentati suicidi. Per un' ora il clima è tornato quello plumbeo degli ultimi sei anni. Con il mistero della potenza talebana, spuntata dal nulla. Poi dalla città qualcuno ha cominciato a salire verso il passo, a riconoscere un parente, un amico, un compagno di scuola e a riabbracciarlo. «Com' è a Kabul?». «Normal e», rispondevano i cittadini abituati da vent' anni a essere bombardati, conquistati, massacrati e ancora bombardati e riconquistati. «Non ci sono più talebani, non ci sono più talebani». E' scattata così la parola d' ordine. «Andiamo a Kabul». È sta ta una marcia trionfale, come può esserlo solo in Afghanistan. In testa si sono messi i «reparti di sicurezza» creati per l' occasione dai leader moderati del Fronte unito mujaheddin. Divise color piombo, cappellino con una striscia di nastro adesivo verde, scarpe da tennis, kalashnikov e lanciarazzi a tracolla. Hanno cominciato quasi in colonne di cinque, consapevoli del momento storico che stavano vivendo anche grazie alle telecamere che li riprendevano, ma poi lungo la discesa verso la capita le, l' ordine si è perso e i «reparti di sicurezza» si sono ammucchiati, dandosi gran manate sulle spalle o tenendosi per mano, con le dita intrecciate come da noi farebbero dei fidanzatini. Dietro a loro, davanti, in mezzo, i civili. La città che ha nno trovato è la capitale distrutta da due decenni di combattimenti. «Bombe americane?», chiedevano i giornalisti. «No, questo palazzo l' ha bombardato Heckmatyar», il super falco che all' inizio degli anni Novanta è stato il vero devastatore della c ittà. «Quest' altro, il comandante Massud». «Quest' altro, i talebani». Gli «studenti del Corano» hanno lasciato Kabul senza combattere. Hanno portato via tutto quello che potevano. Più come banditi che come uno Stato in ritirata. Oltre al «tesoro» d ella Banca centrale hanno derubato, mitra alla mano, i cambiavalute dei bazar. Avevano bisogno di automobili per fuggire e le hanno prese dove ancora ce n' erano, nelle sedi delle organizzazioni umanitarie internazionali. I camion a disposizione sono stati caricati di ogni bene trasportabile, dalle scrivanie dei ministeri ai letti, ai computer. L' ordine di evacuazione generale deve essere scattato al tramonto di lunedì, proprio mentre le avanguardie del Fronte unito valicavano i monti. Centinai a di auto e camion hanno percorso a luci spente le vie della città. Sopra di loro il rumore sordo degli elicotteri d' attacco americani. All' improvviso, dietro al parco di Sharinau, nel centro di Kabul, un pick- up carico di cinque talebani è stato illuminato a giorno dal faro di un elicottero. Pochi secondi e il missile aveva disintegrato la macchina. Alle 3 del pomeriggio quel che restava dei corpi era ancora sparpagliato nella via, contro i muri. È toccato all' italiano Alberto Cairo della C roce Rossa Internazionale, anche lui appena entrato a Kabul, ricomporre i corpi, scattare delle foto per permetterne, forse un giorno, ai parenti il riconoscimento. A 300 metri altri cadaveri. Tre. Giovanissimi. Tra i 16 e i 21 anni. Qualcuno dice ch e erano pakistani. «Ho il negozio all' angolo, quello lì lo conoscevo». Sono, erano talebani, «studenti del Corano» di qualche madrassa del Pakistan, venuti a Kabul con la promessa di combattere una guerra vittoriosa e santa. Sono morti all' alba, ra gazzi senza automobile abbandonati dai loro comandanti. «Hanno fatto resistenza», assicura qualcuno. «Quello si era arrampicato sull' albero per nascondersi». L' hanno abbattuto come un fringuello. I cadaveri sono stati offesi, mutilati. A uno hanno messo intorno al collo del nastro strappato a una musicassetta. Per i talebani la musica era una blasfemia, un insulto a Dio, e ora che i chioschi del bazar hanno improvvisamente portato da casa i successo di sei anni fa, quel nastro usato come la co rda per un impiccato è una condanna all' Islam cupo e violento inventato dai talebani. Episodi tragici, violenti. Come le parole di quel miliziano comparso verso sera su un pick-up a dare il cambio per la notte alle più rassicuranti «forze di sicurez za». «Mi hanno detto che ancora si nascondono in città dei talebani stranieri. Voglio trovarli, sgozzarli e bere il loro sangue». Fino al tramonto del primo giorno post-talebano, però, Kabul era una città senza sparatorie. Al mattino presto, prima de ll' arrivo delle avanguardie mujaheddin, in qualche quartiere si erano scatenati gli sciacalli e i talebani sbandati erano poi stati uccisi dai mujaheddin. Ma in città i morti per la presa di Kabul sembrano essere stati appena una ventina. Una prova di moderazione che, se reggerà, depone a favore dell' impegno alla pace del Fronte unito mu jaheddin e deve poter contare quando ci sarà da sedersi al tavolo per la ricostruzione. Per me, però, l' entrata a Kabul rimarrà legata all' immagine di una d onna coperta dalla burqa a bordo di un taxi. Doveva essere una signora benestante, abbastanza da permettersi un' auto per lei sola. Probabilmente una donna istruita, come ce n' erano tante nella capitale prima dell' ingresso dei talebani. Quando l' a uto con la scritta «Italian Journalist» le è stata a fianco, ha cominciato a battere le mani come una bambina. Batteva le mani e stringeva i pugni esultanti, in una felicità incontenibile. Poi il taxi ha proseguito e lei ha guardato attraverso il lun otto posteriore, ha sollevato la burqa e ha mostrato il suo sorriso di gioia. L' era talebana qui a Kabul è finita. Andrea Nicastro . SENZA STUDI Gli uffici e le attrezzature di Al Jazira, tv del Qatar, sono stati distrutti da un missile americano su Kabul IN DIRETTA Un missile è caduto a un centinaio di metri mentre William Reeve, inviato della Bbc da Kabul, sta trasmettendo COLPITO Il fotografo italiano Marco di Lauro mostra il giubbotto forato da un proiettile talebano, in uno scontro con i r ibelli Ap



giovedi , 15 novembre 2001
POPOLAZIONI
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E il devoto custode del santuario rimpiange i comunisti


Andrea Nicastro

E il devoto custode del santuario rimpiange i comunisti DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Lo ziorat, la tomba, di Shah i-Doshamshira, discepolo del profeta Maometto, è uno dei luoghi più venerati di Kabul. I fedeli vanno a pregare il «santo» che combatteva in nome dell' Islam con due lunghe sciabole e chiedono intercessioni. «Funziona», assicurano i ciechi mendicanti dai gradini del tempietto. Ma ai talebani anche questa devozione non piaceva. «Idolatria», sentenziavano i mullah e al custode della tomb a chiedevano di trascinare via le donnette inginocchiate da troppo tempo e togliere le bandierine che la gente di Kabul porta qui da secoli. «Io però non mi sono mai sognato di farlo», assicura Rahmi Khoda, il vecchissimo mullah che fa da guardiano. I talebani non l' hanno obbligata? «Dalla moschea qui di fronte è venuto un loro mullah per sostituirmi». E allora? Rahmi strizza tra le rughe un occhio azzurro. «Allora niente. Non me ne sono andato e non mi hanno cacciato». Ma perché? «Sarà la prot ezione dell' Onnipotente», sorride. Più che all' Onnipotente deve il suo posto alla rivolta del quartiere. «Se toccate mullah Khoda - hanno fatto sapere - vi spariamo». Dopo un po' di insistenze la versione del guardiano è più romantica e cita Mutana bi, poeta arabo: «Non potevano farmi nulla perché tutti mi conoscono, "anche la notte, il giorno, le stelle e la luna mi conoscono"». Rahmi Khoda ha una lunga barba e un turbante bianco come i talebani. «È il mio cappello da prima che nascessero. Non vedo perché dovrei cambiarlo». Imperturbabile come il suo ziorat. «Questi talebani erano proprio strani. Matti. Volevano che chiamassi il mullah Omar con l' appellativo di Amir ul Mominin (capo di tutti i credenti, ndr) ma io non l' ho mai fatto. Di cevano di essere musulmani solo perché recitavano l' Islam Kalimah (il Credo islamico, ndr) e poi spingevano la gente nelle moschee senza dar loro neppure il tempo per le abluzioni. Ma, dico io, si è mai visto uno scandalo del genere?». Rahmi Khoda s embra essere scivolato sugli anni talebani come sull' olio. È custode da oltre mezzo secolo e il suo «santo» va per il secondo millennio. Che cosa sono i sei anni talebani? «Tra i governanti che ho visto, re Zahir è quello che mi è piaciuto di più: c ' era pace, la gente pregava e le cose costavano poco. Poi sono arrivati i comunisti e non erano tanto male. Pagavano l' olio per le lampade e la vernice per i muri. Qualcosa ha fatto anche Rabbani. Gli "studenti", invece, nulla. Ora preghiamo Dio ch e i prossimi siano almeno migliori degli ultimi». A. Ni.



giovedi , 15 novembre 2001
GUERRA
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Tacchi alti, rossetti e tanta voglia di tv.


Al bazar di Kabul spuntano televisori e rossetti. Il primo giorno senza talebani. Molti uomini tengono le barbe lunghe, le donne il burqa: «Ma ora possiamo scegliere»
Andrea Nicastro

KABUL LIBERA Tacchi alti, rossetti e tanta voglia di tv di ANDREA NICASTRO KABUL - «Cassandre e denigratori adesso si cuciano la bocca». La prima notte con i mujaheddin padroni di Kabul è passata tranquilla. «Neanche una raffica di kalashnikov», proc lama soddisfatto il ministro dell' Interno Qanuni. Il giorno, poi, è andato ancora meglio: negozi aperti e il solito traffico di pedoni temerari e biciclette pronte a finire sotto le ruote dei taxi. Tutto nella norma, insomma, con i vigili urbani, ne ppure i soldati, a sorvegliare gli incroci. Non fosse per qualche talebano acquattato nelle cantine, scovato, ferito e arrestato, la presa del potere non poteva essere più morbida. A Kabul i segnali che quello di ieri fosse il primo giorno dell' era post talebana erano più in profondità, tra le bancarelle dei bazar e nei discorsi della gente, non nelle statistiche del nuovo governo in trasloco. C' è una grande stufa rovente al centro della sala e sui lati si aprono i gabbiotti delle docce. In un a capitale ridotta allo scheletro di se stessa da ventidue anni di guerra l' hammam, il bagno turco in versione afghana, è diventato un' istituzione per chi tenta di restare pulito. Anche se la temperatura di notte scende quasi a zero, nessuno accend e la stufa in casa. «Alla prima neve, forse», ci si sente ripetere. Figurarsi poi se qualcuno si può permettere di consumare la legna per scaldare l' acqua del bagno. Meglio quindi andare all' hammam dove con 10 mila afghani, 200 lire, ci si può spog liare senza battere i denti e fare una doccia calda. Perfino i rigidi talebani non avevano trovato niente da ridire su questo piccolo lusso. Ieri, però, all' hammam di Dani Bagh, nel centro della capitale, per la prima volta da sei anni il servizio p iù richiesto era quello completo: doccia, barba e capelli. Ci si lava, ci si riveste e così rilassati ci si siede su uno sgabello per sottoporsi all' opera del barbiere. Alle 10 del mattino già 50 clienti si erano fatti sbarbare. Un record. «Saranno affari loro», si incita da solo Sardor, maestro del rasoio. Ma se i talebani non volevano che ci si tagliasse la barba, che cosa facevano i barbieri sino a lunedì? Sardor abbassa la lama e cita una «Hadith», una profezia di Maometto: «"Lascia la barb a e regola i baffi". I baffi li abbiamo sempre tagliati, e poi ai talebani piacevano i capelli cortissimi, meglio se rasati alla maniera dei pashtun di Kandahar, la città del mullah Omar: Era lavoro anche quello». Complice l' intimità del bagno, l' a tmosfera è ridanciana. «Adesso è il turno di mio fratello e quando finisce non lo riconoscerò più», scherza un cliente. «Ha la barba fino al petto e ha deciso di tagliarla del tutto. Come faccio poi a sapere che è davvero lui?». Pochi escono completa mente glabri. I più si limitano a una radicale spuntata. Perché? «Mi piaccio di più così», è la risposta naturale. «Importante è poter scegliere, che non ci sia no talebani a dirci quello che dobbiamo o non dobbiamo fare». A fianco dell' hammam c' è il negozio del signor Karim. L' insegna dice:«Radio, Tv, Internet». Ma per gli ultimi due articoli non c' è stato mercato sotto il regime talebano. Tv e Internet erano vietati, «Harram», perché pericolosi mezzi di diffusione del dissoluto stile di vi ta degli infedeli. Eppure Karim ha battuto il record del suo vicino parrucchiere e ha venduto centocinquanta televisori in meno di tre ore. I clienti non dovevano andare troppo per il sottile. I modelli erano quelli che erano, vecchi come minimo di s ei anni, la maggior parte in bianco e nero. E anche lo stato di conservazione era dubbio. «Ma nessuno ha protestato - racconta Karim -. Pur di avere di nuovo la tv hanno pagato e si sono portati via tutti gli apparecchi che ero riuscito a salvare dai talebani. Quando, sei anni fa, sono arrivati a Kabul sapevo che mi avrebbero sequestrato la merce e così l' ho nascosta nell' unica stanza rimasta in piedi di un palazzo bombardato di fronte a casa. Nessuno l' ha scoperta per tutto questo tempo e st amane l' ho portata qui per venderla. Non che ci abbia guadagnato, ma almeno adesso potrò andare in Pakistan a comprarne di nuovi». L' Afghanistan è un Paese che sopravvive per miracolo. I nuovi padroni di Kabul sono arrivati in città con i loro Land Cruiser ammaccati, hanno visto le condizioni pietose degli uffici ministeriali saccheggiati dagli «studenti del Corano» prima della fuga e hanno fatto marcia indietro verso i loro nidi montani nella valle del Panshir. Al ministero della Difesa l' uf ficiale di collegamento che smista le informazioni tra i vari fronti ancora aperti, resta in contatto con i comandanti sul campo tramite una radio alimentata da una batteria d' automobile. I soldati che per l' offensiva sulla capitale avevano sfoggia to divise nuove, quasi tutte uguali, le hanno già tolte per non sciuparle e anche davanti agli uffici pubblici, il «picchetto di guardia» passa il tempo a fumare su poltrone sfondate in ciabatte e abiti per niente marziali. La scena produce una sorta di cortocircuito politico: le sentinelle statali che sembrano guerriglieri, l' insegna dell' Emirato islamico talebano con a fianco la fotografia del presidente Burhanuddin Rabbani. Nemici giurati che convivono sui portoni in questi giorni di passag gio del potere. Ci vorrà qualche tempo per mettere a posto almeno le insegne. Per ricostruire una rete telefonica e una organizzazione statale degna di questo nome, invece, ci vorranno i finanziamenti internazionali e, comunque, moltissimi anni. Temp o chiedono anche le donne. Non hanno buttato il burqa in massa. Chi l' ha fatto è un caso più unico che raro, che ha contribuito alla fortuna di qualche fotografo intraprendente. Fino a lunedì le donne avrebbero potuto essere lapidate per questo e ci vuole tempo e fiducia per abituarsi all' idea di essere libere. «La cosa paradossale - dice Khadria Iasdonior, ex professoressa universitaria di Kabul - è che quando ero ragazza io, 15 anni fa, il burqa lo portavano solo le contadine che venivano da lla provincia e le prostitute. Le prime per tradizione, le seconde per non farsi riconoscere dai vicini di casa. Una ragazza perbene della capitale non l' avrebbe mai messo. Con i talebani, invece, tutto si è rovesciato. È diventato un obbligo, un do vere religioso la cui violazione era punita con la frusta e le pietre. Ora dobbiamo abituarci, capire che non c' è niente da temere. Aspettate che le donne tornino al lavoro, che rientrino in patria le donne più istruite scappate in Pakistan, che com incino a togliersi il burqa in ufficio e poi, vedrete, si dimenticheranno di metterlo anche in strada e questa tornerà a essere una città normale». Se non il burqa, qualcuna ha già rispolverato in 24 ore vecchie abitudini. In vendita sulle bancarelle sono comparsi i rossetti, le calze di nylon, anche quelle vietate dal mullah Omar, e le scarpe con il tacco. Le donne, secondo i talebani, non dovevano sollecitare alcuno dei cinque sensi, quindi neppure l' udito maschile con il ticchettio dei tacch i sul marciapiede. A giorni si riunirà la commissione del ministero dell' Istruzione per riaprire scuole e università a bambine e ragazze. Davanti ai cancelli dell' ateneo, però, Nassrim sta già cercando informazioni sul prossimo anno accademico. Nie nte da fare, nessuno può dargliele. Da sotto il burqa, Nassrim spiega in un buon inglese come sei anni della sua vita siano stati bruciati dall' esperimento fondamentalista. «Ero brava al liceo - spiega - e avrei voluto continuare con l' università, ma sono arrivati gli "studenti del Corano". Non si sa che cosa avrei scelto. Forse lingue, forse giornalismo. Tutto bloccato. Così mi sono sposata e ora ho due figli maschi. Sono venuta a vedere, ma non credo di poter riprendere a studiare. È tardi p er me. Quello che so è che ora posso avere anche figlie femmine». Andrea Nicastro



venerdi , 16 novembre 2001
TERRORISMO
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Kabul, nella scuola del terrore di Bin Laden


Nella villetta degli aspiranti kamikaze i manuali per fabbricare veleni. E spuntano anche falsi timbri italiani
Andrea Nicastro

Kabul, nella scuola del terrore di Bin Laden In una villetta appunti e materiali degli aspiranti kamikaze. E spuntano anche falsi timbri italiani DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Le lezioni si sono tenute nell' agosto del 1999. C' è la data in cima a ogni pagina. L' allievo è molto ordinato, ha una bella grafia. Preciso anche nei disegni esplicativi. Scrive in inglese, ma infila qua e là degli errori che non ne fanno un madrelingua, Con ogni probabilità era l' insegnante ad essere un anglo-americano, un chimico forse. Sulla copertina del quadernetto una scritta in arabo: «Inizio il mio cammino nel nome di Dio buono e misericordioso». Poi, girata pagina: «Lezione prima. I detonatori. Se ne possono facilmente costruire di sei tipi. Per il primo è s ufficiente procurarsi acetone, acqua ossigenata e acido muriatico. Istruzioni. Mettere l' acetone in un' ampolla e portare alla temperatura di 65 gradi, quindi aggiungere...». Scuola per aspiranti «martiri» e terroristi internazionali. Non è un miste ro che Al Qaeda, l' organizzazione di Osama Bin Laden, avesse campi di addestramento e istruzione in Afghanistan. Gli americani nel ' 98 ne bombardarono 3, con raffiche di missili Tomahawk. La risposta arrivò l' 11 settembre a New York e Washington. Il giorno della grande fuga da Kabul, qualcuno a cui forse è possibile dare un' identità, ha dimenticato il quadernetto degli appunti di quel corso di chimica omicida negli uffici di Al Qaeda, in una villetta sulla 13ª Sarah I Panzdah. L' insegnante si preoccupava che i suoi allievi riuscissero a portare a termine il compito e dettava: «Attenzione, se la temperatura raggiunge gli 86 gradi centigradi il composto liquido esplode. Se lasciato seccare, esplode. Se è necessario trasportarlo è possibi le aggiungere carbonato di sodio». «Lezione 23. Inneschi», «Lezione 34. Veleni», ognuno con la sua brava casistica: «Uccide se ingerito o a contatto con la pelle», «attacca il sistema nervoso», «colpisce il fegato ed è letale nel 25 per cento dei cas i». Anche qui la preoccupazione principale del corso era offrire la possibilità di fabbricare armi letali con sostanze facilmente reperibili. Niente antrace, quindi, almeno in quella scuola dell' agosto ' 99. Allegato al quaderno però c' è un plico d i 50 foglietti illustrativi di medicine in commercio nei Paesi arabi e le dosi per i cocktail velenosi erano date direttamente con l' unità di misura delle pillole. Non ci può essere certezza, ma forse il diligente studente di terrorismo era un tedes co, convertito all' Islam, sui 32-35 anni. «Era alto, con la barba bruna che gli arrivava allo stomaco - racconta il padrone della bancarella all' angolo, Homayom -. Sapeva parlare arabo e un po' di persiano. Era gentile e pagava regolarmente. Il suo nome da convertito era Abu Dagial, non so come si chiamasse in Germania. La mattina di lunedì - il giorno della presa di Kabul da parte dei mujaheddin - è uscito alle 7 a comprare uova e marmellata per la colazione. Era con un altro talebano di Osam a Bin Laden, tale Warith, tutti gli altri erano scappati la sera prima. Due mi avevano anche rubato l' automobile. Una pattuglia di mujaheddin li ha visti e ha sparato con la mitragliatrice pesante, ma non li ha presi. I due talebani sono riusciti a scappare anche se non ad andare lontano. Ho sentito dire che sono stati uccisi a Micro Runian, un quartiere a ovest. Secondo altre voci, invece, si sono suicidati». L' ufficio di Al Qaeda dove il tedesco convertito Abu Dagial lavorava alla causa di B in Laden è stato setacciato dalle squadre speciali mujaheddin del Fronte Unito nello stesso pomeriggio dell' ingresso in Kabul. Da allora, assicura Homayom, nessuno è più entrato. La maniglia del cancello di ferro scende docile. La serratura non è bl occata. Si entra. Nel giardinetto che precede la palazzina a due piani il treppiede di una mitragliatrice da contraerea e la base di un mortaio. A pianterreno le luci sono ancora accese. In mezza dozzina di locali sono sparpagliate sul pavimento migl iaia di carte. Forse i mujaheddin hanno perquisito la base. Forse invece il disordine viene dalla sera di lunedì, quando i venti talebani che lavoravano e pregavano qui tutti i giorni sono scappati lasciando il tedesco e l' amico Warith soli. Fra i d ocumenti si intravedono proiettili di kalashnikov e Pk, veri e da addestramento. Nel seminterrato invece dozzine di gusci vuoti per granate da mortaio, una bomba a mano dall' aspetto efficiente, tre elmetti, altri proiettili, un candelotto di dinamit e, svariati inneschi elettrici. Prima di andarsene i talebani possono aver lasciato mine e trappole anti uomo, meglio non aprire scatole o calpestare i mucchi di vestiti e turbanti. Anche i fili trasparenti fanno paura, potrebbero far scattare una bo mba. Si cammina solo dove il pavimento è sgombro e, lentamente, come in un enorme gioco con i bastoncini dello shangai si solleva una carta dopo l' altra, piano, senza spostare nulla prima di aver controllato che sotto non ci sia qualcosa di pericolo so. Sul pavimento c' è un lungo elenco di «martiri», combattenti islamici morti durante una delle tante guerre sante sparse per il mondo. Vengono da tutti i paesi musulmani, dal Marocco all' Indonesia, passando per la Somalia e la Turchia. Ci sono de cine di passaporti (iracheni, ceceni, egiziani, yemeniti) e il tesserino rilasciato dall' esercito giordano ad Amjad Mahmud Salek. Ci sono giornali sauditi, del Movimento islamico uzbeko, del partito pakistano Jamati Islami, bollettini dei «fratelli musulmani». In una fotografia il viso di Madeleine Albright, ex segretario di Stato Usa, è stato coperto con carta e colla. Su due fogli da disegno trasparenti le prove di timbri italiani falsi. Test che andavano ancora perfezionati: «Comune di Torin o» e «Questura di Milano Ufficio stranteri», scritto proprio «stranteri» con la «t» invece della «i». La qualità del disegno però era già ottima. Per andare al piano superiore si passa un cartello stampato al computer con scritto in arabo: «Vietato s alire, non disturbare il lavoro». Rafik, un afghano che dice di aver lavorato come cuoco in questa base di Al Qaeda, racconta che persino a lui era proibito superare il cartello. Il motivo diventa subito chiaro. Oltre agli appunti in inglese dell' as pirante dinamitardo ci sono decine di scatole medicinali, sacchetti di granuli bianchi e polvere più scura. Forse componenti per la fabbricazione di veleni o esplosivi. Poi libri religiosi, appunti intimi, lettere scritte e recapitate a mano in una r ete di contatti personali vasta quanto l' Asia centrale, la Penisola arabica e il Nord Africa. In un bloc-notes le «memorie di Abu Harith Al Madani», come scrive lui stesso in arabo. Sulle piccole pagine sono riportate in calligrafia minuta, da perso na ben istruita, decine di poesie, motti e riflessioni. «La libertà è presa e non è data. I colonialisti capiscono solo il linguaggio della spada. Il nemico non imparerà nulla se la lezione non saprà includere una lama affilata». Oppure: «Se muoio da martire dite a mia madre di non piangere perché la vita è breve e tutti devono morire». Ancora: «Se vuoi essere un uomo di successo devi essere pronto a compiere un' azione suicida, altrimenti ogni tuo tentativo fallirà». «La spada è l' unica soluzi one». «Quando si diventa martiri non si prova dolore, solo una puntura d' insetto». Sui venti che frequentavano questa casa di Al Qaeda a Kabul due sono morti. Forse. Gli altri invece sono vivi chissà dove, carichi di armi e idee come quelle di Abu H arith Al Madani e del suo capo Osama Bin Laden. Andrea Nicastro



venerdi , 16 novembre 2001
DONNE
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Zainab, la donna che non ha mai messo il burqa


Andrea Nicastro

Zainab, la donna che non ha mai messo il burqa DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Bisogna cercarla a lungo. Poi eccola: una donna senza burqa a Kabul. Per gli occidentali sarebbe questo il simbolo perfetto della svolta politica e culturale post-talebana. A d ue giorni dalla cacciata degli «studenti del Corano», però, le donne della capitale non hanno ancora deciso di gettare il burqa. Le strade sono piene di questi «fantasmi» azzurri, gialli, verdi e bianchi di cui non si riesce neppure a vedere il volto perché nascosto da una retina che assomiglia tanto ad una gabbia. Zainab invece non ha il mantello integrale che il mullah Omar aveva imposto per legge e che ora con il nuovo regime mujaheddin è tornato ad essere facoltativo, legato a religione e ab itudini, non alle punizioni pubbliche. Zainab porta solo un velo nero, con i bordi ricamati, che arriva alla vita e le lascia scoperto completamente il viso e qualche ciuffo di capelli nerissimi. Le è a fianco Khalida, la figlia ormai alta come lei a nche se ha solo 14 anni. Per la ragazzina niente burqa, ma come la madre un velo sui capelli che nel suo caso è bianco con dei fiorellini ricamati in oro. Zainab, fermata in mezzo alla folla del bazaar con una testa di sedano al braccio e un sacchett ino di pomodori, non accenna neppure a coprirsi e guarda lo straniero direttamente negli occhi. Khalida invece si nasconde con il velo e si dimostra figlia di sua madre quando, infastidita, scaccia urlando i curiosi nullafacenti che in un attimo si s ono accalcati a decine per assistere alla scena. Niente burqa, merito della fuga dei talebani? Macché. «Io non l' ho mai portato. La odio» dice Zainab. Come? E le punizioni? «Quante volte mi hanno picchiata non me lo ricordo più. Ecco vedi il sopracc iglio? Me l' hanno spaccato loro con un tubo di gomma in faccia. E anche sulle caviglie ho molte cicatrici. Ma io non l' ho comunque mai messo». Zainab risponde con voce forte, imperiosa. Qualche vecchia, piegata su se stessa dal mal di schiena, è se mpre stata silenziosamente dispensata dal burqa. Ma lei è una donna ancora giovane. Per gli «studenti del Corano» vederla a volto scoperto doveva dare l' effetto della pornografia. «Se è per questo i talebani volevano anche che smettessi di lavorare e io non l' ho mai fatto». Davvero? «Vendo anelli, orecchini e braccialetti in rame al bazaar. Come faccio a lavorare col burqa addosso? E come faccio a smettere di lavorare?». Sposata? «Sì». Ma il marito è d' accordo sul no al burqa? «È vecchio. Non può dire proprio nulla perché sono io a lavorare e a dargli da mangiare». Va bene pagare sulla pelle le proprie scelte. Ma Khalida? Non ha paura che nessuno sia disposto a sposarla quando sarà il momento? «Èancora piccola», mente sapendo di mentire la gioielliera ambulante. Eppure i talebani sostengono che il burqa è l' abito delle brave islamiche. «Io sono musulmana e per la mia religione questo velo va benissimo per me e le mie figlie, mi spiace per i talebani, ma il burqa proprio non lo mett o». A. Ni.



sabato , 17 novembre 2001
VARIE
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Le ammiratrici con il burqa sulla tomba del re del pop


Andrea Nicastro

DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Le tombe musulmane sono in genere marcate da un semplice cippo di pietra, poco più di un sasso piantato nel terreno. Ahmad Zahir, invece, anche da morto si è distinto dagli altri. Il suo ultimo ritiro era una cupola rivesti ta di marmo bianco e sorretta da cinque sinuosi pilastri. La bizzarra costruzione, molto stile Mille e una notte, spiccava lucida nel grande e polveroso cimitero di Kabul fino a quando i talebani non l' hanno abbattuta con due colpi di lanciarazzi Rp g. Come in uno dei film strappalacrime che tanto piacevano ai giovani di Kabul prima dell' arrivo del mullah Omar, la colpa di Ahmad Zahir stava nel fatto di essere troppo amato. La sua cupola funeraria era diventata per le ragazzine della capitale u n luogo di pellegrinaggio. Venivano e pregavano che l' innamorato non le tradisse, che fosse sempre appassionato come lo era stato Ahmad Zahir. Agli «studenti del Corano» questo culto pagano non poteva andar bene. Tanto più che Zahir era cantante, il più famoso cantante dell' Afghanistan, e anche la musica per i talebani era peccato. Zahir era bello, sbarbato e non aveva mai indossato in vita sua un turbante. Il suo non era un look occidentale, piuttosto da divo di Bolliwood, la capitale del cin ema indiano: lunghi boccoli neri, camicia bianca aperta sul petto e giacca stretta in vita. Ieri, sulla tomba di Ahmad Zahir sono ricomparse le ammiratrici. «È la prima volta - assicura il venditore di tè del cimitero - da quando se ne sono andati i talebani. Scommetto che adesso qualcuno ricostruirà anche il monumento». Alle quattro del pomeriggio ci sono tre ragazze sedute sulle macerie della tomba di Zahir. Hanno il burqa azzurro e si coprono ancora di più quando si rivolge loro la parola. Ha siba, 22 anni: «Qualche volta passavo dalla sua tomba anche quando c' erano i talebani. Semplicemente non mi fermavo per non farmi vedere. Però canticchiavo Zahir. "Nel mio cuore non c' è amore, nessuno riesce a riparare questa casa distrutta"». Nasi fa, 18 anni: «Con i talebani era vietato sentire la musica, ma noi avevamo in casa le cassette e abbiamo continuato ad ascoltarle. È così che le ho imparate tutte a memoria. Pericoloso? Tenevamo basso il volume, ma tanto tutti i nostri vicini facevan o lo stesso». Horefa, 20 anni: «Mio fratello dice che Ahmad Zahir è stato ucciso dal presidente comunista Hafizullah Amin perché la figlia era troppo innamorata di lui. Quando Zahir canta "Cuore matto, nessuno può controllare il mio cuore matto" si s ente che erano sentimenti veri». Ma perché avete il burqa? A Zahir non sarebbe piaciuto. «Sono passati tanti anni dalla sua morte - dice Nasifa -. Mia madre e mio padre mi hanno raccontato che andavano insieme ai suoi concerti negli anni ' 70 al Cine ma Park, qui in centro. Mia madre senza il burqa e non c' era niente di male allora. Era normale. Io non riesco proprio ad immaginarla una Kabul del genere». A. Ni.



sabato , 17 novembre 2001
GUERRA
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Kabul divisa teme il vuoto di potere


La città è controllata da una fazione dell' Alleanza del Nord. Si attende l' arrivo del «presidente» Rabbani Il leader della resistenza non vuole «uomini armati stranieri» Lo appoggia il comandante Khan Il ministro dell' Interno Qanuni rappresenta l' ala filo-occidentale dell' esecutivo
Andrea Nicastro

Kabul divisa teme il vuoto di potere La città è controllata da una fazione dell' Alleanza del Nord. Si attende l' arrivo del «presidente» Rabbani DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il Foreign Office, da Londra, conferma. E anche Abu Ladith, 22 anni, contadin o con la casa proprio a fianco dell' aeroporto di Bagram, a 70 chilometri da Kabul. «Sono arrivati tre aerei militari ieri sera - dice - e altri due verso mezzanotte. Quelli che ho visto avevano 4 motori, hanno scaricato dei soldati e sono ripartiti» . Eppure a chiedere al ministero degli Esteri dei mujaheddin antitalebani, i funzionari cascano dalle nuvole. Dopo qualche ora di disorientamento un portavoce addirittura smentisce: «La notizia di presenza di militari britannici nella base di Bagram è falsa». Peccato che invece sia vera. A Bagram, proprio dove solo domenica scorsa c' erano ancora le trincee del fronte, i mujaheddin del generale Babigian, ferito a un braccio durante i combattimenti di lunedì, tengono lontani i giornalisti. È la p rima volta che sono tanto bruschi. Un capitano di Sua Maestà britannica si presenta per scusarsi. «Non possiamo rilasciare dichiarazioni - dice chi per il governo afghano non esiste - meglio aspettare domani quando arriverà il nostro ufficiale per le relazioni con i media. Comunque quel che posso dire è che siamo qui soprattutto per garantire la sicurezza dei programmi di assistenza umanitaria». Dalla distanza cui sono tenuti i reporter si riescono a vedere soltanto soldati sui tetti delle casup ole dell' aeroporto che impiantano antenne di telecomunicazione. La pista è già utilizzabile. A parte i 5 aerei fantasma ne è atterrato uno ufficiale che portava una delegazione diplomatica iraniana. A Bagram, assieme all' avanguardia britannica, 500 uomini, sarebbero presenti anche dei soldati americani, non più di una sessantina. Ma oggi, lo dice lo stesso premier Tony Blair, la guarnigione britannica diventerà ancora più consistente. Non basta il venerdì di festa islamico e il digiuno del pri mo giorno di Ramadan a spiegare il giallo della smentita governativa e l' ossessione per il segreto dimostrata dai mujaheddin. Tanto più se sarà confermata anche una voce che arriva da Mazar-i-Sharif, la prima città a essere liberata dalla presenza t alebana: 1.500 soldati francesi, probabilmente legionari, avrebbero preso il controllo dell' altra grande base aerea dell' Afghanistan, alle porte di Mazar. È da quando sono cominciati i bombardamenti sull' Afghanistan che il Pentagono indica nelle d ue basi militari di Mazar e Kabul gli obiettivi fondamentali per rendere più efficace il controllo aereo sul Paese e la caccia a Osama. Difficile immaginare che nei loro incontri il capo dell' operazione «Libertà duratura» Tommy Franks e il ministro della Difesa afghano Fahim non ne abbiano parlato. È difficile che quel «supporto aereo» che il Fronte unito ha ricevuto per scacciare gli «studenti del Corano» da tutto il Nord del Paese non avesse un prezzo. Non è ancora finita la campagna militare che il grande gioco politico comincia. Americani, britannici (e forse francesi) occupano le basi afghane. L' Iran, da sempre anti-talebano, invia personale diplomatico per aprire l' ambasciata a Kabul. La Russia fa lo stesso con una delegazione di 1 0 funzionari e il suo ministro degli Esteri Serghei Ivanov lo spiega con la necessità di discutere temi militari e umanitari con «i dirigenti del governo legittimo dell' Afghanistan e il suo presidente Burhanuddin Rabbani». Il Pakistan, nemico del Fr onte unito, tesse le sue trame nel Sud, dove nessun soldato di Rabbani si è presentato a conquistare la roccaforte di Omar e Bin Laden. Sono gli stessi talebani che cambiano bandiera. Gli schieramenti internazionali emergono con chiarezza sul tema de lla legittimità del governo mujaheddin: da una parte Occidente e Pakistan che insistono perché Rabbani non sia considerato un vero presidente, ma solo una figura di riferimento tra le altre fino alle prossime elezioni. Dall' altra Iran e Russia che s ostengono Rabbani. Proprio il presidente è l' unico dei politici del Fronte unito a non essere ancora venuto a Kabul. Secondo qualcuno è un modo per onorare in minuscola parte la promessa fatta a suo tempo a Washington. L' avanzata mujaheddin si sare bbe dovuta fermare alle porte della capitale, le cose invece sono andate diversamente, ma fino a quando Rabbani non entrerà a Kabul, quello che si è insediato potrà essere considerato una sorta di comitato di sicurezza in attesa che un corpo di stabi lizzazione internazionale aiuti le varie fazioni a ragionare assieme e preparare le elezioni. A complicare il tutto ci sono le crepe all' interno del Fronte unito. Rabbani dichiara che le «donne potranno tornare a lavorare e le bambine a studiare», m a spiega che ci vorranno «due anni per le elezioni e che noi afghani non abbiamo bisogno di uomini armati stranieri, ne abbiamo abbastanza dei nostri». Lo appoggia Ismail Khan, il comandante sostenuto dagli iraniani che ha conquistato Herat: «L' arri vo dei militari stranieri in Afghanistan è un errore». Il ministro dell' Interno Qanuni, invece, rappresenta l' ala filoccidentale. Sono sue le truppe a Bagram che hanno concordato l' invasione dell' aeroporto senza comunicarlo al ministero degli Est eri. E di Qanuni sono le truppe che stanno cercando di smilitarizzare Kabul. Rabbani ripete che le truppe straniere non servono. Ma alle porte della capitale si sono radunati mille soldati hazara. Vorrebbero entrare in città per «garantire la sicurez za» della loro etnia. Brutto segno per la compattezza del Fronte unito. Andrea Nicastro



domenica , 18 novembre 2001
GUERRA
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«Chi vuol mandare altre truppe dovrà discutere prima con noi»


Andrea Nicastro

L' INCONTRO RABBANI «Chi vuol mandare altre truppe dovrà discutere prima con noi» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Burhanuddin Rabbani è tornato a Kabul. I talebani lo avevano cacciato 6 anni fa e gli aerei americani gli hanno spianato la via del rientro a forza di bombe. Eppure Rabbani se ne dimentica. «Voglio congratularmi per questa grande vittoria con la nazione intera, i soldati, i comandanti, il ministro della Difesa». E gli americani? Il presidente glissa. «È una vittoria per l' Islam, per il m ondo civilizzato, per il bene sul male, la luce sul buio. Una vittoria per la pace e la sicurezza di tutto il mondo». Il Pentagono e le vittime del World Trade Center rimangono in un angolo della memoria. All' inizio della settimana, Rabbani era anco ra un presidente in esilio, leader di un' alleanza militare (il Fronte Unito o Alleanza del Nord) che controllava solo un decimo del Paese. L' Onu però gli riconosceva la rappresentanza dell' intero Stato. Probabilmente più per negarla ai fondamental isti talebani che per regalarla a lui. Oggi Rabbani, ex docente universitario di Legge Coranica proprio qui a Kabul, è l' aspirante presidente di un Paese che ancora non c' è. Circa il 50 per cento del territorio è controllato da gruppi militari che più o meno si riconoscono in lui. Ma il resto è ancora zona di combattimenti e comunque è abitato da popolazioni pashtun che non sono disposte ad accettare un leader tagiko come Rabbani. Professore, come dobbiamo chiamarla? Presidente? «Non siamo ent rati a Kabul per espandere il nostro potere. Né per imporre un governo con le armi e i carri armati. Penso che il popolo afghano abbia diritto di scegliere liberamente il proprio leader e io come rappresentante dello Stato Islamico d' Afghanistan son o impegnato a costruire questa possibilità». La coalizione internazionale anti-terrorismo, però, in cambio dell' appoggio aereo vi aveva chiesto chiaramente di non entrare in città. Avete tradito l' impegno? «Quando i talebani hanno abbandonato la ca pitale ci sono state una decina di ore di vuoto di potere. Ore in cui sono stati commessi numerosi crimini. Noi avevamo discusso il pericolo che la città cadesse nel caos e avevamo stabilito che saremmo dovuti intervenire. Era nostro dovere morale as sumerci la responsabilità della sicurezza. La nostra non è stata un' invasione. E a garantire la sicurezza c' è un Comitato per sua natura provvisorio. Non il governo». I talebani sono in rotta in tutto l' Afghanistan, che effetto le fa? «Sono sicuro che il mondo ora capisce che il popolo afghano non solo ha sconfitto il comunismo, ma anche il terrorismo. Alla caduta del comunismo internazionale, il mondo si era dimenticato di noi e ha permesso a Stati stranieri di interferire nella nostra vita politica». Senza nominarlo, Rabbani pensa al Pakistan che ha sempre accusato di aver istruito e foraggiato il movimento talebano. «Oggi, dopo la sconfitta del terrorismo internazionale, spero che il mondo non permetta altre interferenze». I soldati b ritannici che sono atterrati giovedì vicino a Kabul sono un' interferenza? «C' è stata grande e ingiustificata confusione su di loro. Sono venuti a sminare, garantire i rifornimenti umanitari e proteggere l' Ambasciata che progetta di riaprire. Non a bbiamo niente in contrario. Se qualcuno vuole invece mandare in Afghanistan migliaia di truppe combattenti, allora deve discutere la cosa con noi». Adesso che cosa succederà? «Il mio messaggio al mondo è: aiutate a ricostruire Kabul e le aree distrut te dai talebani e l' intera regione troverà stabilità». E per quanto dipende da lei? «Siamo impegnati a promuovere il processo che ci permetta di convocare la Loya Jirga - l' assemblea dei "saggi" di tutte le componenti etniche e tribali dell' Afghan istan -. Collaboriamo da tempo con l' Onu su questo progetto e continueremo a farlo. Uno dei compiti del Comitato di sicurezza che vigila su Kabul è proprio quello di creare le condizioni affinché le forze che all' interno o all' esterno del Paese vo gliono la pace possano venire qui e partecipare alla grande assemblea». C' è chi sostiene che la vostra calata sulla capitale sia stata una accelerazione per acquisire forza proprio in vista della Loja Jirga. «Per quanto mi riguarda, sono pronto a ri spettare qualunque decisione del popolo afghano e della Loya Jirga. Però la resistenza dei mujaheddin del Fronte Unito che si sono battuti contro il terrorismo per anni è una realtà che bisognerà tenere in considerazione. D' altra parte tutte le forz e di pace sono invitate. Anche l' ex re Zahir Shah, come altre personalità e intellettuali della diaspora». A. Ni.



domenica , 18 novembre 2001
DONNE
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Rida, giornalista rivoluzionaria, brucia il velo nella stufa


Andrea Nicastro

DIARIO DALLA CAPITALE Rida, giornalista rivoluzionaria, brucia il velo nella stufa DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Nel ' 68 c' era chi bruciava il reggiseno. Martedì 13 novembre 2001 a Kabul, Rida Azimì ha infilato il suo burqa nella stufa a legna. «Lo od iavo». Rida conviveva con l' incubo burqa da quando i talebani erano arrivati in città. Lei aveva 19 anni e sua madre, professoressa di liceo, fino ad allora non aveva mai pensato di comprargliene uno. «Neppure mia mamma ne aveva nell' armadio e per non rischiare di essere picchiate dai talebani abbiamo dovuto chiedere alla vicina di prestarcene uno per uscire e andarlo a comprare». Rida ha scoperto in fretta come fossero le nuove regole sulla vita delle donne, ma non ci si è mai abituata. E tan to meno si è rassegnata all' idea di doversi travestire da fantasma ogni volta che usciva di casa. «Ho dovuto lasciare la mia collaborazione con Radio Kabul perché i talebani non volevano che le donne lavorassero». Per 6 anni la vita della ragazza è stata quella di una carbonara, di una dissidente silenziosa e caparbia. «Ho imparato a fare la parrucchiera e anche se il mullah Omar aveva vietato ogni acconciatura erano tante le donne che venivano in casa da me a farsi sistemare i capelli in segre to. L' anno scorso ci siamo trovate in 15 e abbiamo recitato poesie, cantato canzoni, ballato e ascoltato musica. Ci sentivamo delle tremende rivoluzionarie perché tutto quello che stavamo facendo era proibito». Dallo storico martedì Rida esce solo c on un velo di seta sottile. «Così sono felice. Magari durerà poco, ma mi sento bene». Oggi ne ha uno nero che le cade spesso e volentieri sulle spalle dove lei lo lascia riposare qualche minuto prima di riportarlo a posto. Ha i capelli legati a coda di cavallo e poco trucco intorno agli occhi. «Il burqa è una tortura, mi dava la depressione. Io porto gli occhiali e non riuscivo a vedere niente attraverso quella reticella. Una scomodità incredibile». Rida Azimì si sforza di parlare inglese, quand o non ce la fa chiede aiuto all' interprete. «Ogni volta che lo mettevo mi faceva venire mal di testa. E non era affatto un problema, come si dice?, psicosomatico. Succede a tutte le donne che conosco. Perché non scivoli via mentre cammini il burqa d eve avere una fascia che stringe qui all' altezza delle tempie. É un fatto biologico. Dopo pochi minuti con la testa così compressa ti viene l' emicrania». Nonostante il mal di testa, a Kabul sono pochissime le donne che hanno avuto il coraggio di Ri da. «È vero, quando sono uscita martedì, mi aspettavo di essere la sola. Ma era una cosa che avevo voglia di fare da troppo tempo per aspettare. Mia madre era in pensiero, quando sono rientrata però mi ha abbracciata orgogliosa di ciò che avevo appen a fatto. Il giorno dopo speravo di vedere per le strade meno burqa e sempre più donne. Invece non è così neppure oggi. Probabilmente siamo come drogate da quella cosa e dobbiamo disintossicarci piano piano. Capisco che non è facile. Quando cammino pe r strada sento gli sguardi della gente addosso, ma a me non importa. Ci deve essere qualcuna a dare l' esempio, a dare coraggio alle altre». Andrea Nicastro



domenica , 18 novembre 2001
GUERRA
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L' Alleanza dà lo sfratto ai soldati britannici


«La presenza di quei cento militari alle porte di Kabul non è gradita. Non ci servono per garantire la stabilità»
Andrea Nicastro

L' Alleanza dà lo sfratto ai soldati britannici «La presenza di quei cento militari alle porte di Kabul non è gradita. Non ci servono per garantire la pace» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - «Dopo un' assenza di 65 giorni - esordisce il portavoce dell' invi ato speciale Onu Francesc Vendrell - il personale internazionale delle Nazioni Unite ha fatto ritorno oggi a Kabul». Il tono trionfalistico dell' annuncio è in gran parte fuori luogo. In questa crisi le Nazioni Unite hanno avuto sino a questo momento un ruolo del tutto marginale. Hanno evacuato gli uffici afghani il giorno dopo l' attacco alle Torri gemelle. Hanno rinunciato a qualunque mediazione. E sono rimaste a guardare mentre Stati Uniti e Gran Bretagna prendevano il timone della guerra al terrorismo internazionale. Il successo militare che si profila non ha di sicuro la firma del segretario generale Kofi Annan. Forse però potrebbe averla la pace. Sarà un percorso lungo, infido, pericolosissimo. Ma almeno sarà un tentativo. I cento sol dati britannici delle forze speciali arrivati giovedì alla base aerea di Bagram, settanta chilometri a nord di Kabul, probabilmente si aspettavano un' accoglienza diversa. Ieri avrebbero dovuto essere raggiunti dal grosso dei colleghi, paracadutisti, per fare di Bagram una testa di ponte a disposizione tanto dei voli umanitari quanto di quelli militari. Invece sembra proprio che almeno per qualche giorno debbano rimanere soli. Colpa della reazione stizzita dell' Alleanza del Nord (che preferisce farsi chiamare Fronte Unito), i mujaheddin che martedì hanno marciato nella capitale dopo l' improvvisa ritirata dei talebani. Il capo dei servizi segreti antitalebani, ingegner Mohammed Aref, ha cominciato il fuoco di sbarramento. «La presenza brit annica - ha fatto sapere - non è gradita. Se ne devono andare». A dargli manforte sono arrivati immediatamente Russia e Iran, alleati storici dei mujaheddin «moderati». Non c' è nessuna fretta, hanno detto in sostanza, a schierare in Afghanistan trup pe straniere. Per Mosca e Teheran non è necessario alcun corpo di stabilizzazione. Bisogna invece dare fiducia al Fronte Unito e alla sua capacità di gestire il processo di riconciliazione tra le varie componenti etniche afghane. Così Londra ha dovut o frenare i suoi piani su Bagram. Delle due l' una. O i soldati di Sua Maestà non avevano concordato la mobilitazione. E sarebbe quanto meno bizzarro. Oppure all' ultimo momento qualcuno ha cambiato le carte in tavola: Londra alzando il numero dei mi litari in arrivo, il Fronte Unito abbassando quello dei britannici benvenuti. «A Bagram - ha detto il ministro degli Esteri del Fronte Unito Abdullah - ci sono cento soldati britannici. E vanno benissimo. Ma se qualcuno vuole portare in Afghanistan m igliaia di truppe da combattimento, deve discutere la cosa con noi». Entrati trionfalmente a Kabul, passata l' urgenza di aiuti militari per sconfiggere gli «studenti del Corano», i mujaheddin possono avanzare pretese. Tutte le loro tesi partono dal fatto che Rabbani è presidente eletto dell' Afghanistan e che il suo Stato Islamico è quello riconosciuto all' Onu. Se a questo si aggiunge il colpo di mano che ha permesso la conquista di una Kabul deserta di talebani, si capisce come con queste car te in mano i mujaheddin non vogliano farsi soffiare il piatto dai primi venuti. Siano i parà britannici o i funzionari delle Nazioni Unite. Lo stop a Bagram, però, complica i piani internazionali. I soldati di Londra avrebbero accelerato l' arrivo e il dispiegamento di quella forza di stabilizzazione a cui anche l' Italia sta pensando di contribuire. Secondo la strategia elaborata dall' inviato speciale Onu per l' Afghanistan la pace si potrebbe raggiungere in tre fasi: 1) Conferenza convocata d al Palazzo di Vetro di tutte le fazioni afghane. «Inviteremo ogni gruppo e naturalmente anche il Fronte Unito», ha detto ieri il portavoce dell' inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan Francesc Vendrell. Scopo della conferenza: quello di preparare la lista dei presenti alla Loya Jirga, una sorta di assemblea nazionale degli anziani. Molto diverso l' approccio dei mujaheddin che reclamano per sé la gestione della conferenza. «Da tenersi, perché no? qui a Kabul» ha proposto il presiden te dei mujaheddin Rabbani. 2) La Loya Jirga si riunisce ed elegge un governo ad interim incaricato di condurre il Paese sino alle elezioni. Anche in questo caso Onu e Fronte Unito divergono su chi debba effettivamente svolgere le funzioni di padrone di casa. 3) Elezioni. E almeno su questo punto oggi sono tutti d' accordo. Durante l' intero processo di riconciliazione nazionale, l' Onu considera indispensabile la presenza in Afghanistan di una forza neutrale in grado di fare da cuscinetto tra le varie parti. Anche in questo caso il Fronte Unito ha una visione differente delle cose. «E' nostro compito mantenere la pace e non abbiamo bisogno di truppe straniere». Andrea Nicastro



lunedi , 19 novembre 2001
TERRORISMO
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Porta a Bergamo la lista scoperta a Kabul


Nei documenti di Al Qaeda il nome di un marocchino super ricercato e della moglie italiana
Andrea Nicastro

Porta a Bergamo la lista scoperta a Kabul Nei documenti di Al Qaeda il nome di un marocchino super ricercato e della moglie italiana DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il manuale di Al Qaeda per gli agenti «in sonno» nelle città americane o europee spiega co me mimetizzarsi tra i kafir, gli infedeli, come risultare invisibili fino a quando non si viene chiamati all' azione. Britel Abou El Kassim, marocchino 34enne con passaporto italiano, tra i primi cinquanta nella lista dei più ricercati dagli Stati Un iti, doveva avere imparato la lezione. «Non attrarre mai l' attenzione - insegna uno dei manuali trovati a Kabul dopo la fuga talebana -. Non parlare troppo né ad alta voce. Cambia nome in ogni città, tieni tutto segreto, anche ai tuoi amici, anche a lla tua famiglia». Forse El Kassim è stato «in sonno» per dieci anni, da quando è entrato in Italia. Da 5 mesi però è un ricercato. A luglio la polizia ha bussato alla porta della sua casa bergamasca senza trovarlo. Ha potuto solo sequestrare qualche agendina, libri e un computer. In un decennio, El Kassim aveva fatto in tempo a sposarsi con una ragazza di Bergamo, ad ottenere la cittadinanza, a lavorare come muratore e nel frattempo a crescere nella scala gerarchica dell' organizzazione di Bin Laden. Un ragazzo tranquillo. Non aveva mai tanti soldi in tasca e doveva contare sul reddito fisso della moglie. Però viaggiava. E stava assente da casa lunghi periodi senza mai dire dove andava. «Tra noi era normale», si giustifica l' italiana che lo ha sposato. Il nome di El Kassim, quello della moglie, il loro indirizzo e numero di telefono sono scritti in italiano e arabo su un foglio di carta che era in mezzo a migliaia di altri che parlavano di esplosivi, veleni, guerre chimiche e lettere personali di Osama Bin Laden. Tutto sparso sul pavimento di una delle case che, la gente di Kabul racconta, erano abitate dagli «arabi», gli uomini di Al Qaeda. Lunedì scorso o martedì all' alba i quaranta talebani che abitavano quella casa sono sca ppati lasciandosi dietro l' enorme mole di materiale. Il nome Britel Abou El Kassim è scritto in stampatello al centro del foglio. Sotto, un indirizzo nella Bergamasca. Sopra, quelle che sembrano le istruzioni per una richiesta di un permesso di sogg iorno in Italia. Il Corriere aveva già rivelato le prove dei tentativi di Al Qaeda di falsificare i timbri delle Questure italiane per stranieri. Il foglio con il nome di El Kassim sembra essere un' altra via per permettere ai membri dell' organizzaz ione terroristica di muoversi senza problemi nel nostro Paese. El Kassim aveva cittadinanza italiana e sia lui sia la moglie potevano fungere da «garanti» per nuove reclute. Sul foglio è indicata la «prima frontiera d' ingresso» (Ventimiglia) e si su ggerisce di scrivere «motivi familiari» per giustificare la richiesta di permesso di soggiorno. Sul foglio, spiegazzato e tinto come per essere restato a lungo nella tasca di un paio di jeans, accanto al numero bergamasco di El Kassim, compaiono anch e le differenze di fuso orario con l' Italia. Un' informazione utile a chi avesse dovuto chiamare da, guardacaso, Pakistan e Afghanistan, i due Paesi dov' era più forte e ramificata la presenza di Al Qaeda. Si chiede anche di chiamare «domenica», qua ndo El Kassim avrebbe avuto il giorno di riposo dal lavoro e non avrebbe dovuto andare alla moschea di Bergamo o al Centro islamico di Milano, che frequentava regolarmente. Qual è il filo che collega Kabul a Bergamo? È lo stesso che passa dallo Yemen , dalla Siria, dalla Palestina e da tantissimi altri Paesi ancora. La lista è spaventosa, interminabile. Ma mette i brividi se questi Paesi si leggono come luoghi di provenienza degli studenti dei corsi del terrore organizzati da Osama Bin Laden. Leg ioni di ragazzi musulmani sono venuti in questi anni in Afghanistan per imparare a uccidere, combattere e diventare terroristi. Il Corriere della Sera ha trovato le loro «pagelle». Migliaia, ordinate, catalogate anno per anno. Alì Mohammed Sayaff, 23 anni, palestinese, «bravo in combattimento, buono con gli esplosivi, buono come artigliere, discreto in tattica militare», scrive di suo pugno nel riquadro destinato alle richieste degli allievi: «Non sono più interessato a studiare, vorrei prendere parte ad operazioni suicide». Andrea Nicastro La scheda LA SCOPERTA Dopo la caduta di Kabul, in due case della capitale afgana vengono trovati numerosi documenti che riportano i nomi e gli indirizzi di alcuni individui abitanti in Italia e Canada le gati all' organizzazione terroristica Al Qaeda I NOMI I nomi che si rifanno all' Italia sono quelli di Britel Abou El Kassim, 34 anni, passaporto italiano, tra i primi cinquanta nella lista dei più ricercati dagli Stati Uniti e della moglie A BERGAMO Kassim, sposato con una donna italiana convertita all' Islam, viveva a Bergamo, città dalla quale è sparito alcuni mesi fa. La moglie si dichiara all' oscuro di suoi eventuali legami con gruppi terroristici. La Digos ha perquisito la sua abitazione lo scorso 3 luglio. Ma Kassim era già scomparso



lunedi , 19 novembre 2001
GUERRA
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Isaac e Zebulan, ultimi ebrei di Kabul, con sinagoga personale


Andrea Nicastro

Isaac e Zebulan, ultimi ebrei di Kabul, con sinagoga personale DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Sono afghani, e sono ebrei. Forse gli unici due rimasti in tutto il Paese sotto la cappa del fondamentalismo islamico dei talebani. Di sicuro gli unici a Kabul. Entrambi, dicono i ragazzini che abitano l' ex ghetto ebraico di Kabul, sono stati arrestati, picchiati e torturati dalla polizia religiosa talebana per «la promozione della virtù e la repressione del vizio». Ti aspetti di vederli felici per la part enza degli «studenti del Corano», loro vittime dell' intolleranza del mullah Omar per qualunque religione non sia la sua asfittica versione dell' Islam. Invece quel che ti accoglie nel cadente palazzo di proprietà dell' ormai virtuale comunità israel itica afghana è una realtà completamente diversa. Isaac Levy è vecchio, sembra Matusalemme. Si muove lento e solo gli occhi sono dei fulmini neri. Gira e rigira tra le mani due chiavi grandi come quelle delle castellane: «Sono della sinagoga che è al piano di sopra». Lunga barba bianca, vestiti diventati ormai stracci. Una casa colma di cose ammaccate, rotte, sporche. Poi però, Isaac solleva un angolo del pagliericcio che gli serve da letto e da tavolo per il pranzo e mostra i numeri di telefono dei suoi cinque figli in Israele. «Si potrebbe fare una telefonata con il suo apparecchio satellitare? - domanda -. Vorrei chiedere aiuto al governo d' Israele». Zebulan Jaudì, invece, è un quasi cinquantenne rotondo e loquace. Si è appena sbarbato, libero ormai dall' obbligo talebano. Indossa una kippah di velluto rosso. La sua stanza è più piccola, spoglia, ma leggermente più accogliente. Soprattutto, ha una stufa a legna che la rende più umana. A qualsiasi domanda risponde con un preambolo i nterminabile in cui invoca l' aiuto degli Stati Uniti, d' Israele, dell' Onu, della Nato. Poi però, dice di non avere alcuna intenzione di lasciare Kabul. Anche il vecchio Isaac la pensa così. Nessuno dei due se ne vuole andare. Non per primo. Isaac vive solo da quando, quattordici anni fa, moglie e figli sono emigrati in Israele. Lui è rimasto perché aveva degli affari da sbrigare. Poi la situazione in città è peggiorata, le persone con cui era in società se ne sono andate: qualcuno è partito p er l' Australia, qualcun altro è morto. E Isaac si è trovato senza niente, senza neppure i soldi per il passaporto e il biglietto aereo per raggiungere la famiglia a Gerusalemme. Ma ugualmente vuole restare. Era arrivato tre anni fa, Zebulan, «in pie no regime talebano». Tra lui e il vecchio Isaac non corre buon sangue. La prova? Abitano a trenta passi l' uno dall' altro, vanno o meglio «posseggono» una sinagoga diversa, una di fronte all' altra. «Mi ha denunciato ai talebani», accusa uno. «No, è stato lui a denunciarmi» replica l' altro. «Mi diceva che ero una spia d' Israele», rincara il primo. «Mi ha accusato di stregoneria» rilancia il secondo. Impossibile capire chi dica la verità. «La verità - concordano entrambi - è che lui - cioè l' altro - ha rubato la Torah dalla sinagoga». Andrea Nicastro



lunedi , 19 novembre 2001
TERRORISMO
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«Lui un militare di Osama? Ma se è così magro...»


«Ci siamo sposati nel Centro islamico di Milano, ma non lo vedo dalla scorsa estate»
Andrea Nicastro

LA MOGLIE «Lui un militare di Osama? Ma se è così magro...» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il numero segnato sul foglietto ritrovato in una delle sedi di Al Qaeda a Kabul è italiano. Della provincia di Bergamo. Anche il nome di donna che da quel document o risulta vivere nello stesso palazzo del supericercato Britel Abou El Kassim è italiano. Sarà lei stessa, nel corso della telefonata, a dire che Kassim è suo marito. Per rispetto della signora, che molto probabilmente non sapeva nulla della doppia v ita dell' uomo che le è stato accanto per tanti anni, non riveleremo il suo nome. Signora, è in casa Kassim? «No, mio marito non c' è. Chi parla?». Sono un giornalista, chiamo da Kabul. Ho visto dei documenti in base ai quali suo marito risulterebbe affiliato al gruppo terroristico di Osama Bin Laden. «Ma sta scherzando, vero? Dall' Afghanistan?». Purtroppo non è uno scherzo. La conversazione procede a rilento. La donna non vuole parlare. Ad un certo punto, spaventata, chiude anche la comunicazi one. Riproviamo il numero e questa volta accetta di rispondere a qualche domanda. Suo marito era musulmano, vero? «Sì». Era particolarmente religioso? «Religioso come lo sono io». Anche lei è musulmana? «Sì, ci siamo sposati nel Centro islamico di Mi lano». Kassim frequentava circoli fondamentalisti? «No, non che io sapessi. Andava alla preghiera del venerdì, come tutti. Ma perché continua a parlare di lui al passato? Gli è successo qualcosa? Me lo dica per favore». Lui, o qualcuno che aveva il v ostro indirizzo e i vostri nomi, era in Afghanistan tra gli uomini di Bin Laden. «Ma non è possibile. Ci dev' essere un errore. È sicuro che stia bene?». Da quanto tempo non lo vede? «Dall' estate scorsa. Se ne è andato, però non siamo separati. È un a crisi come ce ne sono in tutte le famiglie. Ogni tanto mi telefona. Poche settimane fa l' ultima volta». E dove le ha detto che si trovava? «Non me l' ha mai detto». E perché? «E' normale. Tra noi era sempre così». Kassim ha mai parlato con lei dei talebani dell' Afghanistan o del terrorismo islamico? «Sì, certo, i giornali ne sono pieni. Fino a qualche tempo fa tutti gli islamici guardavano all' Afghanistan con curiosità. Poi dopo quello che è successo a New York anche di più perché ha rovina to la vita a tutti i musulmani in Italia». Ma suo marito le ha mai parlato di un addestramento militare? «Ma figuriamoci, proprio lui che è così magrolino». A. Ni.



martedi , 20 novembre 2001
GUERRA
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MA NESSUNO S' E' MOSSO PER ANDARE DA LORO


Andrea Nicastro

DA KABUL MA NESSUNO S' E' MOSSO PER ANDARE DA LORO di ANDREA NICASTRO KABUL - Questo è quello che sembra sia successo. Quattro giornalisti, un interprete e due autisti sono stati bloccati al passo di Tang i-Abreshum, sulla strada che da Jalalabad por ta a Kabul. Sono stati trascinati fuori dalle loro due auto. Picchiati con i calci dei fucili, strattonati. Chi li minacciava con i kalashnikov ha frugato nelle loro tasche e li ha derubati. I giornalisti sono stati separati dagli altri e spinti a po chi metri dalla strada. Agli autisti è stato permesso di ripartire e mentre si allontanavano a tutta velocità i due uomini hanno visto sparare contro i reporter. «Li obbligavano a camminare con i mitra puntati e quando si sono voltati a guardarli han no fatto partire tre o quattro raffiche», mi ha riferito uno dei due autisti scampati. Le vittime sono due corrispondenti della Reuters, l' australiano Harry Burton e l' afghano di etnia azara Azizullah Haidari, l' inviato del giornale spagnolo El Mu ndo, Julio Fuentes; la giornalista del Corriere Maria Grazia Cutuli. Il conducente di un autobus che è passato dal luogo dove è avvenuta l' imboscata ha riferito per telefono al Corriere di aver visto ai bordi della strada quattro corpi. Due uomini, un terzo che sembrava azero come il collega della Reuters, e il quarto di donna, con capelli castani e lisci. Come Maria Grazia. Stessa descrizione da un inviato dell' agenzia di stampa americana Ap. I corpi, però, sarebbero rimasti lì pochi minuti. Qualcuno deve averli spostati. Sono passate decine di altre auto, decine di altri giornalisti su quella strada e nessuno ha visto niente. Solo un collega greco ha raccontato di un agguato del genere capitato circa trenta minuti dopo l' imboscata, avv enuta alle undici del mattino. Tutto è avvenuto in pochi minuti. Il convoglio, formato da sette auto, era partito da Jalalabad alle 9 del mattino locali. La strada per arrivare a Kabul è lunga appena 146 chilometri, ma è molto accidentata. La vettura sulla quale viaggiavano Maria Grazia e gli altri colleghi scomparsi procedeva in testa, un po' staccata rispetto alle altre. Dopo tre ore di viaggio, quando l' auto ha superato un ponte a 90 chilometri dalla capitale afghana, sono sbucati alcuni gue rriglieri armati che hanno fatto arrestare la macchina e obbligato a scendere gli occupanti. L' autista è stato l' unico a cui è stato concesso di ripartire, ed è tornato indietro ad avvisare del pericolo le altre vetture in arrivo. Poi, solo testimo nianze. La Croce Rossa Internazionale è stata la prima fonte ufficiale a dare come certa la morte dei colleghi. Poi è toccato al ministero dell' Interno afghano e alla Farnesina. Da Bruxelles, il ministro degli Esteri Renato Ruggiero ha dato l' annun cio con parole accorate: «Abbiamo avuto purtroppo una conferma dalla Unità di Crisi. Attraverso una testimonianza, ritengono che i quattro corpi che sono stati ritrovati sul bordo di una strada corrispondono a quelli dei quattro giornalisti, di cui u na è una vostra collega del Corriere della Sera». Ma nessuno ha visto i corpi, finora. La zona dell' imboscata è terra di nessuno. Chi la aveva attraversata nei giorni scorsi aveva riferito di sassaiole contro le auto dei giornalisti e insulti ai pos ti di blocco. «Non ci piacciono gli stranieri», avevano detto dei ragazzotti senza divisa, ma con il dito sul grilletto del mitra. Molti afghani della zona parlano della presenza di gruppi talebani sbandati sulle montagne. Nella notte poi l' intera c apitale è rimasta senza elettricità: la centrale che alimenta la rete urbana è proprio sopra Surubi, segno che forse in quella zona agiscono gruppi armati che sono forse qualcosa di più di semplici banditi. Le autorità di Kabul non hanno fatto nulla per cercare di soccorrere le vittime dell' imboscata. E anche la stessa Croce Rossa è rimasta a lungo indecisa sul da farsi, quando c' erano ancora preziose ore di luce per raggiungere il posto. La risposta del vice capo missione a Kabul, Ascal, è st ata chiara: «Non posso concedere alcuna ambulanza, non posso mettere a rischio la vita del nostro personale». La disponibilità di un pullman attrezzato per il soccorso sanitario è venuta invece dall' ospedale italiano di Emergency. Il bus è rimasto p er due ore in attesa di partire davanti ai cancelli del ministero dell' Interno afghano. Inutilmente. Il Corriere aveva tentato di organizzare un convoglio armato per arrivare sul posto e aveva chiesto aiuto al Ministero dell' Interno dello Stato isl amico dell' Afghanistan (il nuovo regime). La notizia che qualcosa di grave fosse successo sembra essere giunta a quegli uffici alle 13, circa un' ora prima che circolasse tra i giornalisti a Kabul. Ma fino a quando, alle 14.15, non è stato posto il problema di persona al segretario del ministro, nessuno aveva preso l' iniziativa. Dopo una discussione il ministero afghano ha apparentemente dato la disponibilità del convoglio di soccorso. Però sono stati troppi gli ostacoli messi alla sua effetti va partenza. Per ottenere sei soldati e sei kalashnikov è stato necessario inviare un taxi privato a una base militare dall' altra parte della città. Una volta arrivati, per di più, la presunta scorta di Stato non aveva alcun veicolo militare su cui muoversi. Ogni ufficiale chiamato in causa sembrava non sapere nulla né di quanto era successo né di quanto era stato ordinato. Alle 16.30, con il sole calante, i sei soldati hanno annunciato che la zona da raggiungere era pericolosa con il buio e ch e la pattuglia non aveva le necessarie armi pesanti. Nessun ufficiale ha impedito loro di rientrare in caserma. Tutte scuse. Probabilmente sin dall' inizio a Kabul nessuno voleva arrivare sino a Tang i-Abreshum. L' unico tentativo fatto dallo Stato i slamico d' Afghanistan per raggiungere il luogo dell' agguato è consistito in una telefonata al comandante locale di Surubi, l' abitato più vicino al passo dell' imboscata. In serata anche uno dei signori della guerra che dicono di aver preso il pote re alla partenza dei talebani, Hagi Qadir, ha promesso l' invio di un gruppo armato da Jalalabad. I colleghi caduti nell' imboscata avevano preso le precauzioni che dovevano prendere. Proprio per limitare i rischi avevano scelto di viaggiare in convo glio. In una colonna di sei auto a un chilometro di distanza l' una dall' altra. In modo che chi segue è in grado di dare l' allarme se succede qualcosa a chi è davanti. Dare o chiamare soccorso. Solo che ieri in Afghanistan non c' era nessuno che po tesse o volesse intervenire per salvarli. Le prime auto del convoglio che hanno fatto marcia indietro, vedendo arrivare le due vetture vuote, hanno sì avvertito qualche comandante inquadrato in gruppi più noti, ma oltre un' ora dopo la (presunta) ese cuzione, perché in tutta l' area attraversata non c' erano forze militari riconoscibili. Maria Grazia sapeva bene che viaggiando da Jalalabad a Kabul avrebbe dovuto attraversare una trincea invisibile, ma ben più pericolosa di quelle scavate nella te rra. Aveva scelto con consapevolezza un autista pashtun e un interprete pashtun perché proveniva da un' area sotto il controllo dell' etnia pashtun e aveva così aumentato al massimo le misure di sicurezza per continuare a scrivere la cronaca di quest a guerra. Però adesso è scomparsa. Andrea Nicastro



mercoledi, 21 novembre 2001
GUERRA
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Gettati contro una roccia, poi tanti colpi a bruciapelo


Andrea Nicastro

MASHEREQI (tra Kabul e Jalalabad) - Il luogo dell' esecuzione è in una gola ripida e stretta. Il fiume corre 20 metri a strapiombo sotto la strada. La roccia è chiara con venature rosse. C' è un piccolo ponte in pietra e cemento che i quattro giornal isti uccisi lunedì in Afghanistan non hanno avuto il tempo di attraversare. E poi c' è un angolo nella montagna, un anfratto che dalla strada praticamente non si vede. I loro corpi sono rimasti là per tutto il pomeriggio e tutta la notte. Solo al mat tino di ieri, da Jalalabad, dal territorio ex talebano da dove i reporter provenivano, qualcuno ha finalmente deciso di venirli a prendere. Le macchie di sangue sono quattro, come quattro erano i giornalisti diretti a Kabul: due colleghi dell' agenzi a di stampa Reuters, un giornalista di El Mundo, e l' inviata in Afghanistan del Corriere della Sera, Maria Grazia Cutuli. C' è una grossa macchia appena a 2 metri dalla pista tutta gobbe e polvere. Evidentemente il luogo dove è stato colpito uno dei quattro. Poi altre tre macchie uguali a quella, proprio nell' angolo di montagna lontano dalla vista di chi guida. Sono disposte come ai vertici di un triangolo, due davanti e una dietro, la più piccola verso la montagna. Forse due colleghi si sono messi davanti a Maria Grazia come per difenderla, per farle da scudo. Non aiuta e non era presente alcun esperto per affermarlo, ma il pensiero restituisce per un attimo calore alla scena. Sulla roccia, all' altezza del petto, si vedono scheggiature. Per terra, nella sabbia, dappertutto, due metri davanti a dove sono caduti i giornalisti, decine di bossoli. Non sono morti in una colluttazione, per una raffica partita accidentalmente, sono morti perché qualcuno li ha spinti contro il muro e ha lo ro sparato. Ha sparato così da vicino e con così tanti proiettili che devono essere morti immediatamente. Come durante un' esecuzione. Partendo da Kabul, dall' area controllata dai mujaheddin, ci sono volute 29 ore per arrivare sin qua. Quasi 4 di vi aggio e tutte le altre per ottenere una scorta e una guida che potesse aiutare nelle ricerche. Il giorno stesso del pluriomicidio nessuna autorità, né da Kabul né da Jalalabad, aveva davvero voluto muoversi. Il motivo è comprensibile: il canyon è un posto ideale per le imboscate, dietro ogni curva ci può essere qualunque pericolo. Due blindati sovietici sfondati e arrugginiti ai lati della strada sono lì a ricordarlo. Nei giorni prima della tragedia tre auto di giornalisti erano state fermate e rapinate in questo stesso tratto. Una anche il giorno della strage, proprio pochi minuti dopo. I soldati in borghese e i miliziani che il ministero dell' Interno mujaheddin ha finalmente assegnato hanno paura. Hanno i kalashnikov in mano ma hanno pau ra. Chiedono di fare in fretta a raccogliere le prove necessarie e di andarsene velocemente. Il tratto di strada che possono controllare è minimo, saranno venti metri indietro e una dozzina avanti. Poi le curve tolgono visibilità. Al di là del fiume, sulla parete di roccia friabile che sovrasta il luogo dell' agguato ci sono centinaia di nascondigli per un uomo con un lanciarazzi. Il fatto che non si sappia ancora chi fossero gli assassini di Maria Grazia e degli altri ha reso pericolosa la loro ricerca e il loro recupero. Poi, raccontano i miliziani, c' è un villaggio al di là delle creste, verso il confine con il Pakistan, dove ci sono ancora talebani. Non afghani, ma arabi e punjabi, gli irriducibili. I bossoli raccolti dalla sabbia sono di AK47, fucile mitragliatore kalashnikov, l' arma più diffusa in Afghanistan. A Surobì, il villaggio più vicino al luogo dell' imboscata in direzione Kabul, mezz' ora di auto, ogni uomo o ragazzino che passeggia ne ha uno a tracolla. Sulla via del ritorno, due adolescenti sventolano il kalashnikov per fermare un' auto del convoglio di ricerca. Uno dei comandanti locali che fanno da garanti si sporge dal finestrino per farsi riconoscere e sgrida il ragazzo. Quello abbassa docile il mitra, ma so lo perché riconosce l' autorità dell' uomo, altrimenti, con degli stranieri, che cosa avrebbe potuto fare? I bossoli trovati sulla scena dell' esecuzione sono bruni e di una forma inconfondibile. Sono bossoli fabbricati in Pakistan. Un indizio, ma no n una prova. È vero che le truppe talebane si rifornivano di munizioni pakistane, e che quelle mujaheddin avevano munizioni russe, ma nei bazar si trova di tutto e un integralista può sparare russo e un mujaheddin pakistano. È paradossale, ma signifi cativo del caos in cui versa il Paese, il fatto che a raccogliere queste osservazioni siano stati tre giornalisti e non degli inquirenti. Fa anche specie che la formazione del convoglio di soccorso sia stata un' iniziativa privata, in principio ostac olata più che sostenuta dal governo. Laurent Madia, francese dell' agenzia Reuters, si è unito al Corriere per chiedere al ministero dell' Interno di rendere possibile la missione. Fondamentale, però, il contributo di un secondo collega italiano, Fau sto Biloslavo de Il Giornale, che grazie agli ottimi rapporti personali con il ministro è riuscito a convincerlo. Quando i giornalisti vengono ricevuti, nell' ufficio privato del ministro dell' Interno Qanuni, ci sono cinque comandanti che stanno chi edendo rinforzi perché, sostengono, ci sono ancora troppi talebani nella loro area. Sarà una coincidenza, ma sono di Surobì, proprio il paese che, in quel momento, ancora solo delle voci, sostengono essere il più vicino al luogo dell' agguato. Entra in ufficio anche il secondo degli emissari inviati da Qanuni per chiedere alla gente del posto che cosa sia successo. Nulla a che vedere con investigatori di polizia, l' uomo è più simile ad una spia. L' emissario riferisce che ci sono voci discordan ti, e alcuni parlano di giornalisti uccisi, altri di tre portati sulla montagna. Anche Qanuni si convince che ci sono abbastanza ragioni per andare a vedere di persona e autorizza il piccolo convoglio. Una volta a Surobì, alle tre auto iniziali se ne aggiunge una quarta, carica di miliziani del comandante Gulroze, il leader del villaggio e responsabile dell' operazione. Il comandante raccoglie informazioni e parte sicuro di trovare qualcosa. Superato Surobì, la strada verso Jalalabad s' incunea in una gola, supera una sorta di taverna per camionisti - «Mashreqi», dice il cartello -, un posto di guardia del comandante Gulroze e in trenta minuti arriva al ponticello della strage. Su uno dei pilastrini c' è una scritta: «Aglu, unhcr, feb 97» ( l' Unhcr è l' Alto Commissariato dell' Onu per i rifugiati, ndr). Questa è terra di nessuno. Non la controlla il comandante Gulroze e non la controlla il nuovo governatore di Jalalabad Hagi Qadir. Entrambi erano profughi nella valle del Panshir, sott o la protezione del Fronte Unito mujaheddin, fino a una settimana fa. Ora si sono insediati come capiarea, al posto dei leader talebani fuggiti, ma la fedeltà della loro stessa gente è dubbia. A Surobì non possono uscire dall' auto con i vetri oscura ti per non «eccitare» l' ambiente di stretta osservanza talebana. Non si vede una sola donna al bazar, solo gli uomini: colpa degli insegnamenti del mullah Omar, fondatore del movimento degli studenti del Corano. A Surobì c' erano stati i colleghi pr esi a sassate e a male parole nei giorni scorsi. Solo perché non afghani. Ieri invece il comandante Gulroze faceva da garante per gli ospiti e non è successo nulla. Neppure nella terra di nessuno. Ieri. Lunedì le due auto dei giornalisti sono andate incontro al massacro. Una raffica vicino alla strada, altre contro l' angolo di roccia. Quattro vite mangiate in un attimo. Andrea Nicastro



giovedi , 22 novembre 2001
GUERRA
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Il gioielliere Jabbar, che ha sempre fatto affari d' oro


«Gli uomini di Al Qaeda volevano solo agata, la pietra del Profeta»
Andrea Nicastro

DIARIO DA KABUL Il gioielliere Jabbar, che ha sempre fatto affari d' oro DAL NOSTRO INVIATO KABUL - E' bello a volte parlare al passato. C' è un distacco, un senso di superiorità dalle preoccupazioni che conforta. Aiuta anche se i ricordi sono vecchi di una sola settimana. «Non era facile fare il gioielliere con i talebani al governo. Non è da credere che gli afghani obbedissero ciecamente alle direttive del mullah Omar. Ma anche se per loro le donne dovevano essere umili e restare il più possib ile nascoste, qui a Kabul non ho mai visto una ragazza sposarsi senza ricevere una parure d' oro in regalo. Si lavorava, ma meno di prima perché c' erano pochi stranieri e i clienti migliori pian piano se ne erano andati in Pakistan». Abdul Jabbar ha la bottega in via Pollo. E' scritto proprio così, in persiano e in inglese, sul cartello scrostato residuo dei tempi in cui l' Afghanistan tentava di aprirsi al mondo. Jabbar ha frequentato lo stesso Liceo francese dove studiò il comandante Massud. Parla inglese e francese. Bene. Si presenta: «Io non faccio sconti e non dico bugie. Tutti i gioielli antichi che si vendono a Kabul sono falsi. I miei sono riproduzioni, tanto li pago e tanto ci devo guadagnare. Il prezzo non si contratta». Apre sul banco un foglietto con una cinquantina di piccoli smeraldi grezzi, poi qualcuno lo chiama alla porta e lui va a parlargli senza preoccuparsi di nulla. Jabbar sembra quanto di meglio possa produrre la fusione di due culture, velocità e competenza occ identali, ospitalità e fiducia afghane. «I volontari di Osama Bin Laden, sauditi, alcuni yemeniti, pakistani ed egiziani - spiega - avevano dollari da spendere e molti avevano qui anche le mogli. Ma preferivano andare al ristorante. Loro sì che davan o retta al mullah Omar sulla vanità dei gioielli. Io vendo i più begli smeraldi del mondo, quelli della Valle del Panshir, lapislazzuli di Faizabad e argento di Herat e Mazar-i-Sharif. Gli "arabi" non volevano neppure guardare la mia merce. Entravano per comprare un anello con la pietra d' agata e se ne andavano». Agata? Perché? «Perché è la pietra del Profeta. Si dice che abbia indossato per qualche giorno un anello così e allora per noi l' agata difende dal male». Jabbar quasi altrettanto spes so riceveva la visita di altri talebani. Non interessati agli anelli apotropaici, ma al suo incasso. «Avevano una tecnica particolare con i gioiellieri. Quando in negozio entrava una cliente da sola, facevi meglio a preparare qualche vestito di ricam bio. A me è capitato quattro volte solo nel primo anno, poi ho imparato a farmi proteggere da altri talebani. Costoso, ma meglio che finire in prigione e avere la reputazione rovinata. Andava così: la signora chiedeva di vedere i gioielli e non decid eva mai. Dopo un quarto d' ora entravano degli agenti della polizia religiosa: "Che ci fai da solo con una prostituta?". E ti portavano in prigione. Rimanevi in cella per due, quattro giorni senza sapere nulla, poi ti chiamavano. "Abbiamo tanti solda ti al fronte e bisogna dar loro da mangiare. Tu sei un uomo ricco, se paghi ti lasciamo andare". Contrattavo. Con i talebani si poteva avere lo sconto». Andrea Nicastro


Arretrat


giovedi , 22 novembre 2001
GUERRA
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Quattro inchieste sulla strage dei giornalisti


L' Alleanza ai comandanti locali: consegnateci i responsabili. «Sono gli uomini del nuovo capo talebano»
Andrea Nicastro

Quattro inchieste sulla strage dei giornalisti L' Alleanza ai comandanti locali: consegnateci i responsabili. «Sono gli uomini del nuovo capo talebano» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Sono quattro le inchieste aperte sulla morte in Afghanistan dell' invia ta del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli e dei tre colleghi in viaggio con lei da Jalalabad verso Kabul. Una in Italia, una in Spagna, una in Australia, una in Afghanistan. Tante quanti sono i Paesi di origine delle vittime. Ma non saranno inda gini facili. E soprattutto non serviranno i canali tradizionali. Le polizie straniere non potranno contare sui consueti strumenti di collaborazione. In Afghanistan non c' è Interpol, non ci sono accordi per rogatorie, trasmissione degli atti processu ali, interrogatori. In Afghanistan non ci sono neppure ambasciate a seguire l' inchiesta locale e a fare da catena di trasmissione con la madrepatria. Queste gigantesche lacune sono tutto sommato dettagli in confronto a quello che in Afghanistan manc a davvero. Qui è lo Stato a non esistere. «E anche il sistema giudiziario ne risente, ed è qualcosa da ricostruire in fretta» dice il portavoce Onu a Kabul. L' indagine che il governo del Fronte Unito ha annunciato non è condotta dai giudici e commis sari e non avrà carte processuali se non quella della sentenza, se mai ci sarà. L' inchiesta è tutta nella testa di un signore alto con la pelle butterata e il naso grosso. Indossa abiti tradizionali afghani e il cappello bakul del comandante Massud. Ieri era il terzo giorno che andava e veniva da Sarobi, il paesino più vicino al luogo dell' agguato. Suo compito è parlare con i comandanti locali. Convincerli che quanto è successo ai quattro giornalisti è una cosa che danneggia l' immagine del nu ovo governo e che il ministro dell' Interno in persona, Iounis Qanuni, sarà grato della loro collaborazione su questo caso. Tocca ai vari signorotti locali ora decidere se consegnare o meno i responsabili o addirittura dare loro la caccia. Lo «Stato» può intervenire inviando qualche decina di soldati in supporto. Ma lo «Stato» ha già i suoi problemi a tenere tranquille le zone che controlla direttamente. Ieri notte dei giornalisti iraniani avevano sparso la voce che altri tre colleghi erano stat i uccisi su una strada che portava a Kabul. Ma per fortuna non sono arrivate altre conferme. Nelle altre province, fuori dal controllo del Fronte Unito, vige l' autogestione. La «conquista» di Jalalabad, per esempio, è avvenuta senza che il Fronte Un ito spostasse un solo carro armato. Sono stati gli stessi soldati della città al confine con il Pakistan, in patria e in esilio, a dichiarare la rottura con il movimento talebano. Si sono tolti i turbanti, hanno accorciato la barba, ma che cosa può e ssere cambiato in una settimana? Per di più la zona dell' agguato è sul confine tra le due province, quella di Jalalabad a maggioranza Pashtun e quella di Kabul a maggioranza tagika. Le due etnie tendono a non mischiarsi e la zona cuscinetto fa da ri fugio per qualche malintenzionato. «Ci sono molti talebani su quelle montagne - dice al Corriere il massimo leader pashtun del Fronte unito Rasul Sayaff -. Calano di tanto in tanto per chiudere la strada e provocare danni alle nuove autorità. Stiamo facendo di tutto per trovare i responsabili di quell' agguato». L' idea di scaricare la colpa della strage sugli studenti del Corano è stata la prima a balenare nella mente dei responsabili del governo mujaheddin. L' hanno ripetuto ieri i rappresenta nti Onu a Islamabad citando fonti del governo di Kabul. «I responsabili dell' eccidio potrebbero essere ex combattenti talebani che adesso rischiano di trasformarsi in bande criminali». A parziale sostegno di quest' ipotesi c' è la brutta avventura v issuta da tre giornalisti americani su quella stessa strada. I tre hanno raccontato di essere stati fermati e minacciati di morte al grido: «Il mullah Omar ha ordinato di eliminare gli stranieri». La loro fortuna è stata nell' interprete con abbastan za sangue freddo da trattare la liberazione dei suoi clienti. Fortuna che le quattro vittime di lunedì non hanno avuto, dal momento che i loro due autisti pashtun sono rientrati senza neppure un graffio all' auto. Dell' interprete che viaggiava con l oro poche tracce, ma sarebbe vivo. Una seconda ipotesi è leggermente diversa. È una voce che circola nei bazar. «Gulbuddin Hekmatyar sta riorganizzando i talebani sbandati e si prepara ad attaccare Kabul». Hekmatyar è stato il più potente e ambizioso capo della Guerra santa contro i sovietici e il più letale distruttore dell' alleanza tra mujaheddin. È un islamico fondamentalista. Da cinque anni in esilio a Teheran, ma scomparsa la leadership talebana le vecchie strutture del suo partito, l' Hez b i-islami, potrebbero tornare centrali e raccogliere l' eredità politica del mullah Omar. Le affinità non mancano. D' altra parte l' idea di uno Stato fondato in tutto e per tutto sulle leggi coraniche è stata di Hekmatyar prima che dei talebani. La notte dopo l' esecuzione dei quattro giornalisti sulla strada da Jalalabad, la città di Kabul si è ritrovata al buio. In tanti hanno pensato proprio ad Hekmatyar che controllava il villaggio di Sarobi e da lì la centrale elettrica che illumina la ca pitale. «Imboscata in una zona che è sempre stata di Hekmatyar», spiega Qanuni. Lo smentisce lo stesso ex comandante mujaheddin: «Non abbiamo più uomini in quell' area da almeno cinque o sei anni. Non c' entriamo con l' agguato». Terza ipotesi quella della criminalità comune che qui significa comandanti a corto di soldi o di armi. Qualcuno tra i quattro stranieri può aver reagito, oppure gli aggressori erano tanto nervosi e pieni di hashish o oppio d' aver fatto partire una raffica che ha ucciso uno dei quattro. Quindi la decisione di eliminare i testimoni, i pochi passi dietro lo sperone di roccia, e il fuoco come da un plotone d' esecuzione. Andrea Nicastro



venerdi , 23 novembre 2001
RADIO TRASMISSIONI
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«La mia libertà? Senza il burqa, di nuovo al microfono»


Andrea Nicastro

«La mia libertà? Senza il burqa, di nuovo al microfono» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Jamila Mujahed è stata la prima voce dell' Afghanistan liberato. Gli americani avevano bombardato le antenne di Radio Shariat e le radioline di Kabul da quasi un mese potevano captare solo la Bbc, Voice of America e Good Morning Afghanistan. Tutte voci di chi bombardava dal cielo. A un tratto, però, la storia ha avuto un' accelerazione. «Da allora ho ricominciato a lavorare, a uscire libera di casa, non aver paura della polizia, a sentirmi un essere umano invece che un animale». Era il 13 novembre. La città si era risvegliata senza talebani. La sensazione era di vuoto. Così qualche dipendente di Radio Shariat è andato al palazzo dell' emittente e negli uffici non c' era più traccia dei capi arrivati da Kandahar o dal Pakistan a licenziare le donne e a imporre la barba agli uomini. Dopo sei anni era arrivato il momento di riaprire la cantina. I talebani non lo sapevano, ma quando gli F18 hanno distrutto l ' emittente, avrebbero potuto continuare a trasmettere proprio grazie a quello che c' era in cantina, sotto le loro scrivanie: un' apparecchiatura di riserva. L' avevano nascosta i lavoratori di Radio Tv Afghanistan quando gli Studenti del Corano ave vano conquistato la città, chiuso la televisione e reintitolata l' antenna Radio Shariat, Radio Legge Coranica. Grazie a ciò che era in cantina era possibile trasmettere, ma ci voleva qualcuno che sapesse dare lo storico annuncio: Jamila Mujahed. «So no venuti a prendermi con la macchina. Mi sembrava un sogno tanto era irreale. Il giorno prima, con ancora i fondamentalisti a Kabul, non avrei mai potuto salire in auto con qualcuno che non fosse un mio stretto parente. Invece c' era il mio ex capo che stava lì sulla porta e mi diceva, "Allora, viene a lavorare o no?". Ho preso un foulard e sono uscita così come ero vestita. Non ho neanche avuto il gesto automatico di indossare il burqa. Nessuno ci crede quando lo racconto, ma è vero. Il burqa per me ha proprio smesso di esistere in quel preciso momento. Il capo me l' ha fatto notare, mi ha detto "Sei sicura?" e io: "Certo, andiamo"». Tuo marito era in casa? «Mio marito è professore alla Accademia delle Scienze. Una volta dopo circa un ann o che c' erano i talebani e che sentiva le mie lamentele sul burqa l' ha voluto indossare per un giorno intero. In casa naturalmente. Dopodiché l' ha odiato come lo odiavo io. A chiunque voglia capire se il burqa è un bene o un male per una società i slamica chiedo di fare come mio marito. Provate e poi decidete». Sei arrivata alla radio e che cosa è successo? «L' annuncio era già stato scritto. Dovevo solo leggerlo. E doveva essere una donna a farlo, per segnare la differenza tra l' era talebana e quella nuova; non erano riusciti a rintracciare la collega dell' edizione in persiano. Così prima ho dato l' annuncio in pashtun, poi anche in farsi. Erano le 11,30 più o meno: la stessa ora in cui dalle porte di Kabul stavano entrando profughi e rifugiati». Ricordi che cosa hai letto? «Qualcosa. "Nel nome di Dio riprendono oggi le trasmissioni di Radio Kabul. Gentili ascoltatori, i gruppi di talebani con la frusta in mano sono scappati dalla città di Kabul. Le squadre di sicurezza del Fronte Unito stanno prendendo il controllo della capitale. Congratulazioni per la libertà ritrovata a tutti i cittadini"». Andrea Nicastro



sabato , 24 novembre 2001
GUERRA
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A Kabul si scatena la caccia al talebano


Esecuzioni per strada, soffiate e arresti. Ma in cella finiscono solo gli «stranieri» Marocchini, sauditi, pakistani: sono tutti giovanissimi. I mullah li usavano come carne da cannone Mohammed, 21 anni: «Mi sono svegliato e mi avevano lasciato solo. Allora mi sono arreso»
Andrea Nicastro

A Kabul si scatena la caccia al talebano Esecuzioni per strada, soffiate e arresti. Ma in cella finiscono solo gli «stranieri» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - «Certo che era un talebano. L' ho visto uscire di corsa dal palazzo con un kalashnikov e una bom ba a mano. Si è messo in mezzo alla strada, ha puntato il mitra contro un taxi ed è salito. L' autista ha fatto finta di non riuscire a riaccendere il motore e quello è uscito per fermare un' altra macchina. Qualcuno però aveva fatto in tempo a prend ere il fucile da casa e gli ha sparato. Centrato in pieno. In mezzo alla schiena». A Kabul ci sono ancora molti talebani. Non gli afghani che lavoravano con il regime integralista, quelli ormai sono considerati quasi dei patrioti. Si sono tagliati la barba, hanno tolto il turbante e devono solo prepararsi a qualche anno di purgatorio in un ufficio di serie B. Anche gli «altri» talebani, quelli che chiamano gli «stranieri» e sembrano essere diventati gli unici autori delle torture, degli abusi, d egli attacchi militari e terroristici del regime del mullah Omar, anche loro, gli «stranieri», sono in città. «Li stiamo cercando - spiega il comandante Usuf, delle forze speciali incaricate di ripulire la capitale -. Non abbiamo ancora avuto l' auto rizzazione a perquisire casa per casa, ma interveniamo quando qualcuno ci segnala strane presenze nelle cantine o in case che dovrebbero essere disabitate. Ne abbiamo già catturati un paio di dozzine così. Ma ce ne sono tanti altri, nascosti. Lo sapp iamo. L' importante è prenderli prima che decidano di fare qualcosa». Nella prigione del ministero di Sicurezza afghano, nel centro di Kabul, a due isolati dall' edificio sprangato dell' ambasciata italiana, Mohammed Hanafia occupa una cella di cinqu e metri per sette insieme ad altri dodici «stranieri» come lui. La notte della grande fuga da Kabul, Mohammed dormiva. Fosse stato un soldato russo si sarebbe detto che era ubriaco di vodka. Mohammed invece era probabilmente rintontito dall' hashish. È magro, scheletrico tanto che si vede il cuore pulsare da sotto le costole. Mohammed ha solo 21 anni. È arrivato dal Marocco sei mesi fa per combattere la jihad, la guerra santa. Quale? Non sa dirlo. La barbetta a punta e la pelle cotta dal sole gl i danno un aspetto satanico, ma per gli ufficiali talebani doveva essere un ragazzino così poco importante da dimenticarlo durante la ritirata. «Mi sono svegliato dietro la zona dell' università. Andavamo a dormire là per evitare i bombardamenti amer icani, ma invece di vedere come al solito tanti fratelli, ero solo. Sono andato alla base dove facevamo colazione e quando ho visto che non c' era nessuno mi ha preso il panico. Ho messo il colpo nella canna del kalashnikov e ho cercato di capire que llo che era successo. Sono andato in un paio di nostre case che conoscevo e anche lì non ho trovato anima viva. Un' abitazione era stata addirittura saccheggiata di tutto, anche i tappeti avevano portato via. Ho pensato di nascondermi da qualche part e, ma un pick-up del Fronte Unito mi è venuto incontro sparando. Mi sono salvato buttandomi in un giardino, poi quelli mi hanno chiesto, in arabo per fortuna, di arrendermi e l' ho fatto». L' avventura di Mohammed non è l' unica, molti degli «stranie ri» uccisi a Kabul erano giovanissimi. Così come i ragazzi morti o catturati sul fronte nord della capitale. Carne da cannone. «Mi chiamo Zaban Zaher, ma tutti mi conoscono come Masaab. Ho 22 anni e sono nato in Arabia Saudita». Masaab ha la faccia p affuta e la barba cespugliosa dell' adolescente che non si è mai rasato. Anche lui è nella prigione del ministero della Sicurezza. «Sono arrivato in Afghanistan - racconta - per avere un addestramento militare. Volevo andare a combattere in Cecenia. Ci sono così tanti musulmani che muoiono là per colpa dei russi che volevo aiutarli. Il corso avrebbe dovuto durare due mesi ed era gratuito. Nel campo di addestramento Maaskar Farouk, vicino a Kandahar, c' erano con me almeno 80-100 fratelli di tant i altri Paesi islamici. E anche un fratello francese, un nero che non sapeva bene l' arabo. Il campo era ben organizzato. Si studiava davvero e di tutto: dalla lotta ai metodi di fabbricazione delle armi, fino alla strategia di combattimento. E ci si allenava tantissimo. Purtroppo, però, dopo appena una settimana, dopo avere imparato a usare il kalashnikov, le lezioni si sono interrotte e mi hanno mandato sul fronte di Bagram», l' aeroporto a nord di Kabul. Masaab è stato ferito dalle schegge di una bomba americana al braccio destro e al petto. Ha un' ingombrate fasciatura, ma cammina già e non rinuncia al digiuno diurno del Ramadan. «È successo alla vigilia della caduta di Kabul - racconta -. I bombardamenti americani non erano proprio pre cisi, ma non facevano dormire. Se stavi in trincea o in un bunker eri abbastanza tranquillo, ma i carriarmati e i camion in movimento erano un continuo pericolo. Quando si sentiva il rumore degli aerei, i carristi uscivano dal mezzo e si mettevano al riparo. Io sono stato ferito da una bomba sganciata da un piccolo aereo. L' ho vista arrivare, ma non ho potuto fare nulla. Mi hanno portato all' ospedale militare di Kabul, ma quando tutti sono scappati mi hanno lasciato nel letto e sono stato arre stato». Questi talebani non fanno proclami come Osama Bin Laden, sono giovani spaventati, però volevano cambiare il mondo «nel nome di Allah potente e misericordioso». Hanno lasciato i loro villaggi e sono venuti in Afghanistan per diventare soldati di Dio. Jawad Hussein racconta una storia deforme, senza speranza, probabilmente inventata tanto è pazzesca. Jawad sostiene di essere capitato sul fronte per puro caso, «solo per capire di persona se i talebani sono buoni musulmani oppure no». È paki stano Jawad, figlio di rifugiati afghani, con nel curriculum la solita trafila da reietto dei campi profughi. Un' infanzia povera e senza scuole, una famiglia che coltiva l' odio per gli infedeli russi che hanno rovinato loro l' esistenza. Poi a 11 a nni l' opportunità di crescere, di imparare qualcosa con l' ingresso in una madrassa filotalebana. La sua era la «Dar ulumi aminia» vicino a Peshawar. Gli avevano insegnato due cose. A recitare il Corano a memoria, in arabo, senza capire quel che dic e. E l' idea che le soluzioni ai problemi siano già scritte nei libri sacri e che i mullah dal turbante bianco siano in grado di spiegarglieli. Quando è stato catturato Jawad aveva addosso il tesserino dei combattenti volontari del Kashmir, firmato d a Osama Bin Laden. Crede sia una prova a sua difesa, che dimostra come lui in Afghanistan non volesse fare del male a nessuno. «Io sono per la jihad, la guerra santa in Kashmir, per scacciare l' India dalla terra musulmana. In Afghanistan ero venuto solo per capire. È stato il comandate Hagi Khalil ad arruolarmi a forza e inviarmi in prima linea». Adesso hai deciso se i talebani sono musulmani o no? «Sono restato troppo poco tempo - risponde diplomatico -. Comunque non voglio avere più a che far e con l' Afghanistan». Il ragazzo si crede furbo, vuole ingraziarsi i carcerieri. Non ce l' ho con voi, è un caso che fossi qui, dice, «voglio solo uscire di prigione e tornare in Kashmir. Magari là potrò diventare un martire della jihad». Andrea Nic astro



sabato , 24 novembre 2001
GUERRA
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Meno probabile l' ipotesi della rapina «Quelle ferite, firma dei talebani»


La promessa del ministro dell' Interno dell' Alleanza: «Sappiamo chi sono i colpevoli, li prenderemo»
Andrea Nicastro

Meno probabile l' ipotesi della rapina «Quelle ferite, firma dei talebani» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il ministro dell' Interno dell' Alleanza del Nord Yunus Qanuni si è impegnato personalmente: «I colpevoli della morte dei quattro giornalisti sulla strada di Jalalabad saranno trovati e puniti» assicura Qanuni al Corriere. «Abbiamo in mano documenti che valgono più di un testimone oculare». Quali documenti? «Non è il caso di parlarne». Ma ha un' idea di quanto tempo ci vorrà prima di trovare la pista giusta? «Poco, penso che la settimana prossima potremmo anche andare a prenderli». Può almeno dire se i vostri sospetti sono ancora orientati su gruppi militari talebani attivi nell' area dell' agguato? «Si tratta di talebani, sì. Ma ufficialme nte ora sarebbero ex talebani. Gente che ha cambiato bandiera per convenienza. Ha dichiarato di voler passare dalla nostra parte, ma ha continuato a comportarsi come prima, da terroristi. Bisogna eliminarli». Le indicazioni fornite dall' autopsia di Maria Grazia Cutuli effettuata l' altroieri a Roma sembrano rendere meno probabile l' ipotesi della rapina e avvalorare l' ipotesi di Qanuni (i colpevoli sarebbero talebani sbandati). Tra le indicazioni che avvalorano l' ipotesi, il taglio di una par te dell' orecchio subito dopo la morte, e non quando era ancora in vita, dalla giornalista. E anche il collega spagnolo, Julio Fuentes, ha avuto mutilate le dita di una mano. Per gli afghani la mithlah, l' amputazione, è il segno di umiliazione del n emico. Sui campi di battaglia, da una parte e dall' altra, è frequente trovare cadaveri con l' orecchio mozzato. Ciò sembra indicare un omicidio nato dall' odio più che dalla volontà di rubare i computer dei giornalisti. Tra le altre indicazioni forn ite dall' autopsia la morte istantanea di Maria Grazia Cutuli (un colpo di kalashnikov ha trapassato in pieno il cuore). Frammenti di proiettile utili all' indagine (per cercare di rintracciare l' arma del delitto) sono stati estratti dal fianco dell a giornalista. Il ministro Qanuni è l' uomo che, seppur con ventiquattr' ore di ritardo, ha permesso che un drappello di suoi soldati andasse nella zona della strage per tentare di ritrovare i quattro giornalisti partiti da Jalalabad e mai arrivati a Kabul. Qanuni parla di «fatto drammatico e doloroso». Il ministro degli Esteri Abdullah Abdullah va anche oltre. «È stato un terribile errore - dice al Corriere -. Una colpevole mancanza di coordinamento». Almeno duecento giornalisti sono passati in tre giorni su quella strada, possibile che l' «errore» si sia ripetuto così tante volte? «Purtroppo è così - dice il ministro Abdullah -. Tra il governatore di Jalalabad, Hagi Qadir, e le autorità di Kabul c' è stato come un blackout. Erano i primi giorni del consolidamento delle autorità dopo la sconfitta talebana, questo spiega qualcosa ma non lo giustifica. Non si sarebbe comunque dovuto permettere di avviarsi su una strada ancora così poco sicura. Si sarebbero dovuti organizzare convogli pe santemente scortati.». Il ministro Qanuni mostra sicurezza sulla prospettiva degli arresti. Quali «documenti» può avere in mente? Forse è stato ritrovato il computer che manca dal bagaglio di Maria Grazia Cutuli. Forse qualche indumento di proprietà delle vittime. Qanuni indica in «ex talebani» i possibili autori dell' esecuzione. Ma l' Afghanistan antitalebano è pieno di ex talebani. L' avanzata militare delle truppe del Fronte Unito si è fermata a Kabul, città principalmente tagika, etnia che è anche dominante all' interno dell' alleanza mujaheddin. In tutti i territori pashtun, altro gruppo etnico afghano, invece, i soldati tagiki non hanno mai messo piede. Avrebbero rischiato una sollevazione popolare se l' avessero fatto. Ogni provinci a che è caduta sotto il controllo del nuovo governo a Kabul ha subito una sorta di rimescolamento interno delle posizioni. Chi era in esilio è tornato, chi era al potere si è fatto da parte. Ma non se n' è andato. Né ha cambiato idea. Andrea Nicastro



domenica , 25 novembre 2001
SCUOLA UNIVERSITA'
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I docenti tornano all' università: «Molti fra noi erano spie, senza laurea»


Andrea Nicastro

DIARIO DA KABUL I docenti tornano all' università: «Molti fra noi erano spie, senza laurea» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Quando finalmente si trova la chiave per aprire l' aula, i professori sciamano attorno al lungo tavolo coperto da lenzuola bianche. L' università di Kabul non ha riscaldamento e nella sala per le riunioni del rettorato si gela. I docenti rimangono avvolti nei giacconi e nelle coperte con cui sono arrivati da casa. Una grande bandiera talebana pende dalle prime sedie, bianca con le scritte arabe in nero e le frangette d' oro. I professori la evitano, poi qualcuno la piega e la sistema sotto i cuscini del salottino in fondo all' aula. È il primo incontro accademico dell' era post-integralista. Si devono decidere le nuove rego le dell' ateneo: apertura alle studentesse, riduzione delle ore d' insegnamento obbligatorio di Cultura islamica, reintegro dei colleghi, maschi e femmine, licenziati sei anni fa per ordine del mullah Omar. C' è tutto l' organigramma da rifare. Il ve rtice universitario imposto dai talebani è fuggito. Si deve eleggere il rettore, i presidi facoltà, assegnare le cattedre. Ma il rappresentante del nuovo governo non si fa vedere. «Noi tutti - tenta d' introdurre l' ordinario di Scienze sociali, Hida yat Ullah Wafa, davanti a 80-90 docenti - siamo stati docenti anche nel regime talebano. Le regole erano chiare: obbligatori il turbante e le ore di Cultura islamica, impartite a tutti da professori di Kandahar», la città del mullah Omar. «Se dici co sì non si capisce - interviene Rasul Said, professore di Giornalismo -. Quelli mandati da Kandahar o dal Pakistan non erano professori, non avevano neppure la laurea. Erano spie mandate a controllarci». «Non tutti», si fa sentire un professore. Gli a ltri lo zittiscono: quel tale era un agente segreto ignorante, quell' altro invece sapeva il fatto suo in materia di Sharia, la Legge coranica. «Sì, però erano stati assunti senza concorso - assicura Qasim Kockcha, docente d' Informatica - e avevano automobili con targa pakistana. Come la mettiamo?». «Circa sessanta professori nelle 14 facoltà - fa ordine il professor Faizullah Jalal -, un terzo del corpo docenti, erano stati assunti per insegnare Cultura islamica; la maggior parte di loro credo fossero anche agenti della polizia religiosa». «Erano pagati dall' Isi», i servizi segreti pakistani, assicura il professor Said. Il dibattito s' interrompe quando entra un signore sui 40 anni, barba nera rasa rasa. Ha in testa il pakul, marchio di fabbrica dei mujaheddin antitalebani. «Esimi professori, buongiorno. Come molti di voi sapranno, per essere stati miei colleghi sino a 6 anni fa, sono il professor Abdul Munir Danush. Oggi sono qui per rappresentare il Comitato di sicurezza, incarica to dal nuovo governo di riattivare la vita cittadina». Sono le 10.30. L' appuntamento era alle 9. L' ex professore non si scusa per il ritardo. L' incontro si svolge a porte chiuse. Al termine Abdul Munir Danush non solo viene reintegrato all' unanim ità nella sua cattedra, ma è anche candidato nuovo rettore. Andrea Nicastro



lunedi , 26 novembre 2001
GUERRA
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«Sì a un esecutivo di larghe intese Ma niente talebani»


«Non ci si può sedere a parlare con dei criminali di guerra Per loro ci vuole un tribunale internazionale»
Andrea Nicastro

IL MINISTRO ABDULLAH «Sì a un esecutivo di larghe intese Ma niente talebani» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - «Non ci si deve aspettare una soluzione in pochi giorni. L' Afghanistan è un Paese devastato da due decenni di guerra, bisogna lasciare tempo alle ferite di rimarginarsi. Forse saranno necessari altri round di discussioni, da tenere magari qui in Afghanistan e non all' estero. In ogni caso, però, da parte del Fronte Unito c' è l' impegno a fare di Bonn un successo, con la disponibilità a tutti i compromessi necessari». Abdullah Abdullah, ministro degli Esteri del governo antitalebano, fa sfoggio di buone intenzioni. «Speriamo - dice ecumenico - che tutti prendano parte al futuro governo e che non un solo gruppo etnico sia escluso». Poi pe rò elenca i personaggi non graditi: «I leader talebani, gli individui screditati». Dottor Abdullah, che cosa si aspetta da Bonn? «La comunità internazionale si è finalmente ricordata di noi. Non aveva ascoltato l' allarme lanciato dal Fronte Unito su lla presenza terroristica nel cosiddetto Emirato talebano e noi abbiamo resistito da soli per sei anni. Certo, senza i raid anglo-americani dal cielo, avremmo impiegato anni e non settimane ad arrivare in questa situazione. Ora però dobbiamo approfit tare della finestra di pace». L' Onu vorrebbe che da Bonn emergesse un governo provvisorio. Si parla di quindici membri. È al corrente di questa proposta? «No, ma potrebbe essere una possibilità». Questo significherebbe la dissoluzione dello Stato is lamico d' Afghanistan di cui lei è ministro degli Esteri. Siete disponibili ad un totale passaggio di poteri? «È presto per parlare di dissoluzione, ma sicuramente, in presenza di un accordo sul futuro, lo Stato afghano legalmente riconosciuto potreb be abdicare a favore del nuovo esecutivo di larghe intese». E il presidente Rabbani farsi di parte, come ha detto di essere disponibile a fare? «Quando c' è un' intesa tutto è possibile». Anche il ritorno ai vertici dello Stato dell' ex re Zahir Shah ? «L' ex re da solo però non può risolvere nulla. Ritengo anche che i membri della sua famiglia siano tra i meno indicati a ricoprire un ruolo di rilievo. Mancano dall' Afghanistan da troppo tempo». E il talebani? «Loro sono parte del problema, non p ossono far parte anche della soluzione. Semplicemente non ci si può sedere a parlare con dei criminali di guerra, persone che hanno violato sistematicamente i diritti del popolo afghano, uomini e donne. Politici che hanno nascosto e protetto terroris ti internazionali anche al prezzo di abbandonare il Paese ai bombardamenti Usa. Per loro bisogna organizzare un tribunale internazionale». Eppure non solo soldati, ma anche qualche funzionario governativo talebano è stato accolto dal Fronte Unito. «U n conto sono i leader talebani, gli istigatori delle violenze e degli abusi. E un conto sono gli individui che non si sono macchiati di reati». Andrea Nicastro



lunedi , 26 novembre 2001
GUERRA
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Riaprono le scuole, ma alle bambine e' vietato andarci in bici


Andrea Nicastro

DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Dopo il mullah Omar, le biciclette. Non basta che i talebani se ne siano andati. Perché le bambine di Kabul vadano davvero a scuola bisogna che prima possano pedalare. Ghulghutia ha 14 anni e, come sua sorella Malalia di un anno più grande, ha smesso di andare a scuola nel 1996, quando gli «Studenti del Corano» hanno decretato la fine dell' istruzione femminile. Il Corano, argomentava il mullah Omar, spiega che il posto delle donne è nella casa, lontano da qualunque es sere maschile che non sia il padre, il fratello, lo zio, il marito. Non è bene, non è morale, non è da buoni musulmani permettere che maschi e femmine studino assieme, quindi, siccome l' Afghanistan è povero e alle bambine, future mamme e casalinghe, è sufficiente insegnare a leggere poche parole, per un periodo indefinito le femminucce se ne stiano in cortile. Le sorelline Sawizyar si sono trovate con la porta della scuola chiusa per 6 anni. «Però abbiamo continuato a studiare in casa - dice Gh ulghutia - con l' aiuto di nostro fratello più piccolo che ci faceva fare i compiti che davano a lui. Adesso chissà da che classe potremo ricominciare. Per la nostra età dovremmo essere almeno nella dodicesima, ma forse potremo entrare nella decima c on i compagni di nostro fratello». Il padre delle bambine è invalido e non lavora da 3 anni. Ha venduto la casa di famiglia lo scorso anno e si è trasferito in un appartamento. Nel cambio ha ricavato una dozzina di milioni di lire. «Ci devono durare almeno una decina d' anni. Con quelli dobbiamo vivere, far studiare due figli e due figlie, sposarli e poi Inshallah», ci penserà il Signore. Intanto adesso c' è la grande opportunità per le bambine di riprendere a studiare a marzo con il nuovo anno scolastico. «Sarà uno sforzo grande per i libri e i quaderni, ma in qualche modo ce la potremmo fare. «Quello che mi spaventa di più - dice il padre - è come faranno ad arrivare in classe». La scuola è a 17 chilometri da casa. Troppo lontano per anda re a piedi. Servirebbe un autobus. Ma la rete di trasporti pubblici è distrutta. «Quando andavamo a scuola noi, c' era l' autobus - ricorda Ghulghutia -. Impiegava più di un' ora, ma arrivava. Adesso non c' è più». I taxi, anche quelli collettivi, co stano cari. E allora? Come fanno i vostri fratelli ad andare a scuola? «Loro usano la bicicletta». E perché voi no? Le due ragazzine abbassano gli occhi e ridono dietro la mano per non offendere l' ospite. È il padre che le toglie dall' imbarazzo. «N ella nostra cultura non è accettabile che una donna vada in bicicletta. Questo è un Paese arretrato. Io ricordo a metà degli anni Settanta, ai tempi del presidente Daud, c' erano alcune donne che pedalavano per Kabul. Ma dopo non è più stato possibil e». L' Afghanistan con le guerre e l' Islam utilizzato come collante nazionalistico è andato indietro nel tempo. Ma voi bambine andreste in bici? «Certo, solo che con il burqa non si può pedalare, non si vede niente». E se non si dovesse più usare il burqa? «Ma noi - dice Malalia - non possiamo usare la bicicletta, non l' abbiamo mai fatto». E allora? «Ci penseremo a marzo - dice il padre -, quando cominceranno le scuole. «Vedremo come sarà Kabul fra 4 mesi». A. Ni.



mercoledi, 28 novembre 2001
GUERRA
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«Eccoli, sono tornati». Il rientro dei russi a Kabul dieci anni dopo


Cento uomini delle forze speciali si sono accampati nel quartiere delle villette. L' ambasciata è stata occupata da 5 mila profughi che hanno trasformato gli uffici in antri pestilenziali
Andrea Nicastro

«Eccoli, sono tornati». Il rientro dei russi a Kabul dieci anni dopo DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Prima di rendere omaggio ai nuovi ambasciatori bisognerà probabilmente aspettare il governo che dovrebbe nascere dal vertice di Bonn, ma la corsa a Kabul è già cominciata. In attesa di trovare una sistemazione definitiva, un centinaio di spetnaz russi si sono sistemati con pochissimo tatto e ancor minore senso della storia in uno spiazzo nel quartiere delle villette. Gli abitanti della capitale non so no particolarmente indaffarati e con la disoccupazione reale che s' aggira sull' 85 per cento si fermano volentieri a commentare: «Eccoli, sono tornati». «Vedrai Kabul», dicevano i mujaheddin ai ragazzini che per la prima volta stavano per entrare ne lla capitale il 13 novembre. Per i montanari del Panshir che vivono in casupole di terra e sterco, Kabul è veramente qualcosa. Ha bazar sporchi ma riforniti, case con la luce elettrica, automobili. Per gli altri, gli stessi abitanti della capitale, K abul è una città ridotta all' ombra di se stessa. Oggi quasi tutti i Paesi del mondo stanno pensando a quando e come riaprire la propria ambasciata a Kabul. Sulla scia dell' Onu a guidare il gruppo sono iraniani, russi e tagiki, tutti stretti alleati del Fronte Unito antitalebano. Domenica notte sono atterrati 12 aerei provenienti da Mosca. Hanno scaricato aiuti umanitari, un ospedale da campo e gli spetnaz, le forze speciali russe che sono andate a sistemarsi tra le villette del centro. «Garant iranno la sicurezza della riapertura della nostra sede diplomatica», ha annunciato il presidente Vladimir Putin. Sono in arrivo anche rappresentanti dell' India e della Turchia, altri Paesi amici del presidente anti-talebano Rabbani. Già a Kabul, inv ece, diplomatici ed esperti britannici che, nessuno lo ammette, ma hanno fatto da collegamento tra Fronte Unito e bombardieri americani. Londra ha come «inviato speciale» non ancora ambasciatore, Stephen Evans, ex ufficiale del British Army, da anni in Asia Centrale. E pure i francesi hanno il loro nuovo incaricato d' affari Jean Marin Schuo. Nella sede italiana Safdaralì, uno dei 12 guardiani, è sicuro che presto tutto tornerà come ai bei tempi o, in second' ordine, che arriveranno gli stipendi in ritardo da 5 mesi. L' ambasciata americana rimane invece desolatamente deserta dal ' 96. Non c' è neppure personale locale a prendersene cura. Da Washington a Mosca: l' ambasciata russa storica è uno dei luoghi più tristi e squallidi di Kabul. Ab bandonata nel ' 92 alla caduta del presidente Najibullah, è stata occupata nel ' 96 da quasi 5 mila profughi fuggiti dalle zone dei combattimenti a Nord della capitale. Era una cittadella con 24 palazzi, auditorium all' aperto, piscina, campi da gioc o. Ora è un antro pestilenziale dove i profughi hanno invaso sale ed uffici per farne inedite caverne da scaldare con i fuochi a legna. Mosca rivorrebbe il complesso. Ristrutturarlo sarebbe un' impresa ciclopica, meglio abbattere tutto e ripartire da lle fondamenta. Ancora più desolante è la storia della sede a Kabul delle Nazioni Unite. Dietro ai suoi muri bianchi rimase in «confino» volontario l' ex presidente comunista Najibullah. Sconfitto nel ' 92, era ancora in città sotto la protezione dei Caschi Blu, 4 anni dopo. I talebani conquistarono Kabul e la prima cosa che fecero fu prelevare Najibullah dal santuario Onu e appendere il suo cadavere straziato alla guardiola dei vigili urbani sulla piazza più vicina. Sei anni dopo quella vergogn a, le Nazioni Unite sono state le prime a rientrare nella Kabul post-talebana. Il loro edificio è lo stesso che non seppe difendere Najibullah. C' è da sperare che questa volta la storia sia diversa. Andrea Nicastro



giovedi , 29 novembre 2001
GUERRA
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«Canta, o kalashnikov, la melodia del Corano»


Taccuini di poesie fra le carte dei talebani a Kabul. Con gli inni alla guerra santa e allo sterminio degli infedeli
Andrea Nicastro

«Canta, o kalashnikov, la melodia del Corano» Taccuini di poesie fra le carte dei talebani a Kabul. Con gli inni alla guerra santa e allo sterminio degli infedeli DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Qadama Ul Muhajer, affiliato del gruppo terroristico di Osam a Bin Laden, in una mattina di cinque anni fa doveva sentirsi ispirato. In mancanza d' altro ha preso il quadernetto dove di solito appuntava le lezioni di Al Qaeda su come dirottare gli aerei o far crollare i palazzi e ha scritto una poesia che rimu ginava da ore. L' ha intitolata «Lo specchio»: «Guardo me stesso/ E non vedo un semplice uomo/ Vedo un muro/ Possente e invalicabile/ Che blocca la strada agli infedeli». Qadama scrive in arabo e non dimentica di immortalare il momento creativo con l a data del calendario islamico che segue le fasi lunari (19 Ramadan 1417). E l' ora: 9.00. Poi, probabilmente quella stessa mattina, comunque sulle pagine immediatamente successive, prima di una lezione sul puntamento con i mortai, trascrive altre po esie. Forse sue, forse di altri. Una comincia così: «Andremo in battaglia/ in battaglia per combatterli/ Seguiremo la retta via/ la retta via dell' Islam/ E in massa li stermineremo». A catalizzare tanto odio sembrano essere, come ne «Lo specchio», a ncora i Kafir, gli infedeli. Eccone un' altra, più analitica: «Un maestro un giorno mi parlò di una cosa chiamata libertà/ Io gli chiesi sorpreso che parola fosse quella?/ Greca? D' importazione o pensata qui nel mio paese?/ "Tu hai dimenticato la st oria - rispose il maestro piangendo -./ Tu e la tua generazione avete dimenticato i vertici del sapere e da dove venite/ I colonizzatori senza fede insieme alla libertà vi hanno rubato l' intelligenza"». Qadama non era l' unico terrorista di Osama Bi n Laden con una vocazione letteraria. C' erano parecchi poeti dilettanti nella legione straniera dell' Islam che era affluita in Afghanistan da tutti i Paesi arabi. Tra le migliaia di carte abbandonate a Kabul quindici giorni fa, al momento della fug a talebana, sono stati trovati progetti di ordigni nucleari, corsi per dinamitardi e chimici specializzati in veleni mortali, tecniche di combattimento e spionaggio. Ma anche elenchi di «martiri» della guerra santa e i nomi di migliaia di studenti de lle scuole di terrorismo organizzate da Osama Bin Laden. Un' organizzazione capillare, diffusa e mastodontica, capace di sfornare ogni anno decine di migliaia di paramilitari. Un bacino di combattenti motivati e bene addestrati con cui alimentare gue rre, guerriglie e movimenti integralisti sparsi da Israele all' India, dall' Algeria all' Indonesia, dall' Uzbekistan alla Cecenia. Tra tante carte, spaventose per il senso di minaccia che Osama era (è) riuscito a mettere in piedi, spuntano qua e là le poesie. La maggior parte di quelle trovate dal Corriere sono in arabo, lingua franca della legione islamica, ma ce ne sono anche in urdu e persiano. Le hanno lette il professore di Letteratura comparata persiana e araba dell' Università di Kabul, Imam Ulddin Wathiq, e l' autore di un libro in tre volumi sulla poesia afghana dal 1980 ad oggi, Mohammed Afsar Rahbeen, critico e poeta in cerca di editori. «La qualità dei testi in arabo - sostiene il professor Wathiq - non è bassa. Gli autori parl ano arabo probabilmente come prima lingua. Sono marocchini, egiziani, siriani, sauditi, per intendersi non afghani o pakistani. Hanno frequentato almeno le scuole superiori, hanno una infarinatura di storia della letteratura e molti cercano di replic are il ritmo del testo coranico. Più o meno lo stesso si può dire per chi si cimenta col persiano e urdu, anche se mi pare che il livello sia un po' inferiore». I temi mettono i brividi. Si parla della gioia del martirio in nome dell' Islam, d ella guerra santa, del dovere irrinunciabile alla conquista di Al Qods, il nome arabo di Gerusalemme. E c' è anche chi scrive un' ode al kalashnikov, l' arma per eccellenza di tutte le rivolte in Medio Oriente e Asia Centrale. «Canta o kalashnikov la melodia del Corano/ Il tuo freddo metallo sputa fuoco purificatore/ Dai morte all' oppressore, morte all' infedele». «Inserimento di granate, razzi, tank, mitragliatrici nel linguaggio che aspira ad essere poetico - spiega Rahbeen - è cosa recentiss ima. Qui in Afghanistan risale ai primi mesi dell' occupazione sovietica. Colpa dei poeti della resistenza che volevano galvanizzare i giovani. Poesie di propaganda e siccome tali di valore piuttosto scarso. Io stesso, però, come poeta capisco che po ssa succedere. In ventidue anni di guerre sono stato incarcerato, sono stato testimone di stragi e ho caricato centinaia di cadaveri sulle spalle. Come fa la mia poesia a rimanere immune da tutto ciò? Lo stesso per questi ragazzi di Al Qaeda. Pensava no ogni giorno a imparare ad ammazzare le persone. Chiaro che la loro poesia grondi di tragedia e di morte». Il professor Wathiq intanto sfoglia il quaderno d' appunti di un uomo interessato alle tecniche di infiltrazione in territorio nemico. In una pagina lasciata bianca a metà trova una poesia: «Sarajevo non festeggia la fine del Ramadan/ E le sue lacrime scorrono calde sulle guance/ Il sangue è disperso tra le zolle abbandonate/ E il bimbo ha fame e freddo». «Anche se è molto probabile, non sta a me dire se l' autore fosse o meno uno dei volontari delle brigate bosniache. Io posso notare il tono epico del brano che è diffuso in quasi tutti questi lavori. Anche in Occidente esiste una tradizione letteraria che collega guerra e religione, l' eroismo umano a un fine ultraterreno. Penso all' Orlando Furioso, per esempio. Al tempo delle Crociate, cristiani e musulmani hanno raccontato il loro punto di vista in poesia. Poi però il genere è andato in disuso ovunque. Perfino l' invasione b ritannica dell' Afghanistan nel secolo scorso non ha suscitato nella letteratura persiana una rinascita dell' epica a sfondo religioso. C' è riuscita invece la fondazione dello Stato di Israele nella letteratura araba e l' occupazione sovietica dell' Afghanistan in quella persiana». «I richiami alla guerra santa e al sacrificio estremo nel nome di Dio - insiste il professore - sono continui, sembra di essere tornati ai tempi della grande espansione musulmana verso l' Europa. Solo che qui non ci sono valori positivi da proporre. Solo voglia di riscatto e vendetta». Andrea Nicastro Il kalashnikov Canta o mio kalashnikov la melodia del Corano Il tuo freddo metallo sputi fuoco purificatore Dai morte a ogni infedele, dai morte a ogni oppressore La Jihad è la sola via, aiuta il bimbo che soffre e punisce l' infedele ladro e invasore Non si muore nella Jihad si cresce sino a raggiungere il cielo la spada L' uomo che non teme di brandire alta la sua spada verso il cielo avrà in premio il suo n ome scritto per sempre al di là delle stelle Sarajevo non festeggia la fine del Ramadan e le sue lacrime scorrono calde sulle guance Il sangue è disperso tra le zolle abbandonate e il bimbo ha fame e freddo LA RETTA VIA Andremo in battaglia, in batta glia per combatterli Seguiremo la retta via, la retta via tracciata dall' Islam e in massa li uccideremo al massimo delle nostre forze noi li uccideremo LO SPECCHIO Guardo me stesso e non vedo un semplice uomo io vedo un muro Io vedo un muro e lo ved o possente e invalicabile, un muro che blocca la strada agli infedeli



venerdi , 30 novembre 2001
DONNE
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Sguardi e poesie, l' amore ai tempi del burqa


Nafisa, 17 anni: «Le donne ballano in cortile, gli uomini ci guardano dal muro di cinta»
Andrea Nicastro

Sguardi e poesie, l' amore ai tempi del burqa DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Un bravo regista potrebbe girare un film muto, fatto di sguardi e ancheggiamenti: «L' amore ai tempi del burqa». Vendere le figlie e comprare le mogli in Afghanistan è normale, fa parte della tradizione accettata e spesso condivisa. Però a Kabul e nelle altre città i matrimoni sono sì combinati dalle famiglie, ma ragazze e ragazzi hanno sempre avuto voce in capitolo sul proprio destino nuziale. I 5 anni di governo talebano non sono riusciti a cambiare questa abitudine. Sposare un uomo vecchio e con altre mogli può essere interessante per un' adolescente senza dote. Purché il pretendente abbia sostanze capaci di garantire il futuro della sposa e dei figli di lei. Le alt re invece, quasi tutte le altre, hanno la possibilità di scegliere l' uomo con cui dividere la vita. Ma come? E come vengono scelte? Sotto il burqa tutto è mistero. Attraverso la reticella che permette appena alle donne di vedere dove mettono i piedi , si riesce a intuire solo la forma degli occhi. Come ci si può innamorare? Gli uomini afghani assicurano di aver affinato negli anni l' abilità di riconoscere una qualunque compaesana nascosta dal velo integrale. Prima di tutto da come cammina, sost engono concordi, si capisce se è sposata oppure no. «Non c' entrano i figli - tenta una spiegazione Habib, 29 anni e non ancora accasato -. Dev' essere una questione psicologica, ma si capisce subito». Si deduce se è giovane o vecchia dalla velocità del passo. Poi va osservata l' altezza, la borsa che porta, le scarpe, se è magra o grassa. Tutti indizi. Quindi memorizzare il burqa, osservare dove è rovinato e scolorito. A quel punto l' interessato prende il coraggio a due mani, le cammina a fian co come per caso e le parla senza che la gente attorno possa notarlo. Se il misterioso oggetto del desiderio risponde è fatta, si può darle appuntamento in qualche posto tranquillo e le si può parlare, fare conoscenza senza burqa. Le ragazze? «Una ve ntenne del mio quartiere ha creato uno scandalo - racconta Laila, 19 anni, una delle attiviste per i diritti delle donne che da 10 giorni cercano senza successo di organizzare una manifestazione senza burqa -. Il padre di lei era un talebano, ma la r agazza ha cominciato a salutare dalla finestra un ragazzo che abitava nella casa di fronte. Prima un cenno, poi uno sguardo, insomma, alla fine erano sempre a guardarsi tra le tende. Lei ha scritto delle poesie e un mucchio di lettere. E lui a lei. L i ha sorpresi la sorella del ragazzo e quando il padre talebano è venuto a saperlo ha preteso che si sposassero. Altrimenti, ha detto, avrebbero ucciso il ragazzo». «Nella nostra società è sempre stato un problema conoscersi - ammette Nafisa, 17 anni , begli occhi a mandorla sulla pelle scura -. Molte si accontentano di vedere la foto del futuro marito. Però ci sono le feste di matrimonio a cui vengono invitati tutti i parenti, anche i cugini più lontani. Quando si è in famiglia non si deve indos sare il burqa, così le donne ballano tra loro nel cortile, ma gli uomini guardano seduti sul muro di cinta. E commentano. Poi tocca alle donne guardare e chiacchierare. E agli uomini ballare. Così ci si conosce e se ti piace qualcuno glielo fai saper e, mandi un bambino con un biglietto, ti inventi qualcos' altro, i modi si trovano. Pochi mesi fa mio padre ha ricevuto una richiesta di matrimonio per me da un talebano. Papà mi ha detto che una ragazza più bassa e meno carina di me era stata pagata 100 mila rupie pakistane e che io ne valevo quindi almeno 200 mila - circa 10 milioni di lire, ndr -. Sono troppo giovane, ho risposto a mio padre, e quel talebano neppure lo conosciamo, magari ci imbroglia quando dice di essere ricco. La mamma e i fratelli mi hanno dato ragione e il papà ha rifiutato». Andrea Nicastro



sabato , 01 dicembre 2001
VARIE
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Rabbani: «Forza di pace? Bastano cento uomini»


Andrea Nicastro

IL LEADER DEI MUJAHEDDIN DAL NOSTRO INVIATO KABUL - Il presidente Burhanuddin Rabbani sorride come non si rendesse conto di silurare o almeno tentare di silurare l' intero processo di pace afghano. Parla dal podio della sala delle udienze dell' ex Pa lazzo reale di Kabul. E questo basta a dare un senso simbolico difficile da ignorare alle sue parole. Chi vuole tornare in Afghanistan e scalzarlo dal palazzo deve fare i conti con lui. «La mia delegazione ai colloqui in Germania - spiega ai giornali sti convocati d' urgenza - sta subendo forti pressioni per accettare ciò che non ha il mandato di accettare». L' Onu vuole un corpo di pace internazionale che divida le fazioni afghane perennemente in lotta fra loro? Rabbani no. «Non ce n' è alcun bi sogno - dice -. Il Fronte Unito ha dimostrato di saper mantenere la sicurezza». Però, se proprio i leader politici afghani in esilio lo vogliono, «possiamo accettare una forza multinazionale dedicata a loro di un centinaio, massimo duecento uomini». Il presidente, tornato nella capitale grazie ai bombardieri americani, preferirebbe un' altra soluzione che preservi il Paese dalla irritante presenza di militari stranieri: «I leader in esilio potrebbero anche scegliere i comandanti afghani che cons iderano loro leali e disporre così di cinquecento, anche mille soldati nazionali di protezione. Per tutto il tempo che riterranno opportuno». Quando poi al governo ad interim, che le Nazioni Unite vorrebbero veder nominato al termine dei colloqui ted eschi, Rabbani è ancora più negativo. «Io sostengo la democrazia - comincia mellifluo - e credo che l' Afghanistan abbia molto da imparare da Paesi con una lunga esperienza di libertà». Poi, senza interrompersi o sottolineare lo scarto logico del pen siero, prosegue: «Ritengo che sia scorretto nominare, come vorrebbero le Nazioni Unite, un Consiglio di capi che faccia da anticamera al governo provvisorio. L' organo decisionale dello Stato deve emergere dal voto popolare, non essere nominato». Ma come si possono organizzare elezioni in un Paese dove ancora si combatte e dove le idee diverse sono state difese con missili e bombardamenti sui rivali? «Il progetto Onu considera tre fattori nel meccanismo elettorale: le proporzioni etniche, le div isioni tribali e di clan, la presenza di organizzazioni sociali o di partito. Noi pensiamo che ci si possa basare semplicemente sulle percentuali etniche. I dati potranno essere verificati dall' Onu, ma così facendo le elezioni per il governo provvis orio si potrebbero tenere entro due mesi». Il professore di teologia islamica Rabbani è stato uno dei sette leader della Resistenza contro i sovietici, il secondo presidente dell' Afghanistan islamizzato e per 6 anni estremo baluardo all' avanzata ta lebana. Ora è il capo politico delle truppe che hanno preso Kabul e sostengono di controllare oltre il 70% del Paese. Se passasse il piano Onu, al suo posto andrebbe, almeno provvisoriamente, l' ex re Zahir Shah. Da vecchio mattatore della tragedia a fghana, Rabbani non ha nessuna intenzione di piegare la testa di fronte al Palazzo di Vetro. Rabbani pensa a elezioni «con assistenza», non a supervisione dell' Onu. Dovrebbero essere, secondo lui, i governatori provinciali e «il popolo» a controllar e la regolarità delle operazioni di voto. Ma chiunque abbia visto quanti gruppi armati girano per il Paese non può che dubitare della regolarità di elezioni siffatte. «Certo - concede Rabbani - le donne avranno diritto a votare e a essere elette. Son o invece contrario a restaurazioni monarchiche. Tutto il mondo si è liberato dei sovrani, perché l' Afghanistan dovrebbe fare il percorso inverso? Comunque non ho nessuna preclusione personale nei confronti dell' ex re Zahir Shah. Se venisse votato d al popolo, non avrei difficoltà a riconoscerlo come leader legittimo. Diversamente non è accettabile». Nell' 87, con l' Armata Rossa ancora a Kabul, Mosca elaborò un piano di riconciliazione afghana che coinvolgeva l' ex sovrano. Già allora erano sul la scena alcuni dei protagonisti delle trattative di Bonn. Due per tutti: il «pashtun» moderato filomonarchico Pir Gailani e il falco islamico Rabbani. Erano tempi diversi, ma Gailani sosteneva come oggi che il ritorno di Zahir Shah alla testa di un «governo provvisorio» nominato era l' unica «soluzione possibile». Rabbani invece proponeva l' elezione di un «consiglio nazionale», mentre oggi invoca l' elezione di un «governo provvisorio», ma poco cambia. Il piano di Mosca naufragò. Eppure 14 ann i dopo Zahir Shah continua a rappresentare per gli uni la «salvezza», per gli altri un «anacronismo». Nell' 87 il fallimento dell' accordo fruttò la cacciata delle truppe sovietiche, la guerra civile, altri milioni di profughi e in ultima analisi l' avvento dei talebani. Se la carta Zahir Shah dovesse rimanere per l' ennesima volta nel mazzo, c' è da chiedersi che cosa resta in Afghanistan da distruggere. Andrea Nicastro



domenica , 02 dicembre 2001
POLITICA INTERNA
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«L' Alleanza del Nord pronta a rinunciare alla presidenza»


«Siamo disponibili ad affidare il potere a un governo di larga coalizione» «Siamo aperti alla presenza di contingenti di peacekeeping multi- nazionali»
Andrea Nicastro

«L' Alleanza del Nord pronta a rinunciare alla presidenza» DAL NOSTRO INVIATO KABUL - «Gli afghani - dice un proverbio di qui - possono andare d' accordo tra loro solo quando hanno un nemico alle porte». Il nemico talebano ora è in rotta e le divisio ni tra compagni di lotta sono sempre più visibili. Uno dei leader del Fronte unito, il pashtun Hagi Qadir, ha lasciato il meeting di Bonn in polemica con i suoi stessi alleati. «La mia etnia è sottorappresentata», ha polemizzato. Il presidente Burhan uddin Rabbani, tagiko di Faizabad, ha delegittimato la sua stessa delegazione in Germania. «Il governo provvisorio - ha detto venerdì - dovrà essere eletto dal popolo». E poi ha aggiunto ostacolo a ostacolo: «Considero inaccettabile una presenza di f orze internazionali di peacekeeping superiore alle duecento unità». Ma ieri, in un' intervista al Corriere, il ministro degli Esteri del governo presieduto da Rabbani ha smentito il «capo» su quasi tutti i fronti. Dottor Abdullah, dopo la frenata del presidente Rabbani che speranze ci sono per le trattative di Bonn? «Ci sono state molte speculazioni sulle dichiarazioni del presidente. Si è parlato di rottura tra Rabbani e la delegazione. Ma la verità è che oggi abbiamo avuto a Kabul un incontro del Consiglio dei capi e tutti si sono dimostrati interessati al compromesso. E penso che ci siamo molto vicini». Eppure Rabbani ha dichiarato che la sua delegazione in Germania non ha il mandato per decidere un governo provvisorio e che in ogni caso la leadership dovrà emergere da elezioni popolari. «Il gruppo che abbiamo inviato a Bonn, guidato dal ministro dell' Interno Qanuni, ha piena facoltà di decisione. I membri della delegazione sono in continuo contatto con noi e le trattative proseguo no parallele in Germania e in Afghanistan. C' è anche una lista di nomi per il futuro governo ad interim e, ripeto, io sono ottimista che la conclusione possa arrivare al più presto. Importante è non perdere tempo». Chi sono i candidati? «Non è il ca so di parlarne ora. Quel che posso dire è che il leader di quel governo non verrà necessariamente dal Fronte unito». Rabbani rinuncerà al posto di presidente? «Siamo pronti a trasferire il potere a un' autorità provvisoria e, avendo deciso di fare qu esto passo indietro nel nome della riconciliazione nazionale, non avrebbe molto senso pretendere di conservare la poltrona più importante. La politica del Fronte unito è coerente sin dall' inizio della collaborazione con la coalizione internazionale contro il terrorismo. Anche entrando a Kabul abbiamo chiarito che non era nostra intenzione accaparrare militarmente il potere, ma solo garantire la sicurezza dei cittadini. E così abbiamo fatto. Ora siamo disponibili ad affidare il potere a un gover no di larga coalizione». Il cui presidente sarà l' ex re Zahir Shah? «Abbiamo apprezzato molto il fatto che l' ex sovrano non abbia avanzato alcuna richiesta per se stesso». Abdullah Abdullah è evidentemente la faccia più filoccidentale del governo R abbani. Parla inglese con i giornalisti, scherza, ha una barba corta corta e porta la cravatta invece degli abiti tradizionali. Da queste parti tutti sintomi di una spiccata simpatia verso i valori occidentali piuttosto che verso quelli ispirati all' Islam. Come lui, più spostato verso le tradizionali lealtà di clan, c' è proprio l' inviato del Fronte unito a Bonn, Qanuni. Entrambi erano vicinissimi allo scomparso comandante Massud, entrambi sono della valle del Panshir come il ministro della Di fesa Fahim. Di pasta del tutto diversa Rabbani, barba lunga e turbante, un leader che ha fatto dell' islamizzazione dell' Afghanistan la sua cifra politica. Signor ministro, il presidente Rabbani ha posto severi limiti all' ingresso di una forza di p ace nel Paese. Qual è lo stato delle trattative? «Siamo aperti alla presenza di contingenti di peacekeeping multinazionali. La cifra di duecento data dal presidente è indicativa. Starà alla nuova autorità decidere quale forza sarà effettivamente nece ssaria. Stesso discorso per il meccanismo elettorale. Si è parlato di un conto su base etnica, tribale e partitica. È una proposta. Se ne discuterà». Se l' accordo sul governo provvisorio arriverà presto come lei dice, il Fronte unito non potrà conse gnare le chiavi dell' intero Afghanistan alle nuove autorità. I talebani hanno ancora in mano Kandahar. «Nel Sud non abbiamo truppe del Fronte unito, solo alcuni comandanti che stanno collaborando con le forze locali. A Kandahar si combatte, però le residue truppe talebane potrebbero arrendersi presto». E Osama Bin Laden dov' è? Sulla montagna di Tora Bora come si dice? «No. A Tora Bora ci sono alcuni luogotenenti e parecchi dei suoi terroristi. Ma non credo proprio che Osama Bin Laden sia lì. P otrebbe invece essere sulle montagne attorno a Kandahar». Andrea Nicastro



domenica , 02 dicembre 2001
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Galli e cani, in piazza è sempre guerra


Tornano le scommesse sugli animali. Epidemia di rabbia fra i randagi
Andrea Nicastro

DIARIO DA KABUL Galli e cani, in piazza è sempre guerra DAL NOSTRO INVIATO KABUL - «Un milione su Sardor». Il campione gonfia il petto e parte all' attacco. Gli afghani sono specialisti nel creare capannelli fitti all' inverosimile attorno a qualunqu e cosa ritengano interessante. E un combattimento di galli lo è al massimo grado. Dopo sei anni di divieti talebani, non solo le donne hanno la possibilità di togliersi il burqa, ma anche gli scommettitori di tornare al loro crudele passatempo. Sardo r, il campione già abbastanza spennato dal combattimento della settimana scorsa, ha un uncino luccicante attaccato con la colla al becco. Lo sfidante, chiamato orgogliosamente Sher, leone, ne ha uno uguale, ma nero. Se una cosa aveva di buono il regi me integralista del mullah Omar era proprio il divieto di scommettere. I talebani esageravano e proibivano perfino ai bambini di giocare con gli aquiloni. Ma ciò perché anche gli aquiloni in Afghanistan combattono come i galli. «Questo è un normale f ilo di nailon - spiega Acram, 32 anni, gli occhi fissi ad un puntino alto nel cielo che è il suo aquilone - a cui ho applicato la farina di vetro. Sì, farina di vetro e colla. Riduco in polvere una bottiglia, poi la mischio a una colla speciale e ci immergo il filo. Una volta asciutto diventa tagliente come una lama». Acram si sta allenando e tra qualche giorno combatterà come il gallo Sardor. La sfida consiste nell' atterrare l' aquilone avversario. Ci sono due metodi: bucare le ali del nemico con una picchiata di punta oppure tagliare il filo. E' a questo che serve la «farina di vetro». Anche sulle battaglie tra aquiloni, prima dell' avvento dei talebani, c' erano scommesse capaci di rovinare una famiglia. «Ho visto un tale - racconta Acr am - giocarsi l' automobile». Battaglie di aquiloni e di galli sono una accanto all' altro, un enorme spiazzo polveroso dove al venerdì si gioca a pallone con arbitro e guardalinee. Solo nell' ultima partita qualcuno ha osato presentarsi in pantalonc ini a mezza coscia. Prima, sotto i talebani, i pantaloni lunghi erano un obbligo di Stato. Per ironia della sorte il nome del piazzale deriva dai condomini per le famiglie degli agenti di polizia che lo chiudono da un lato, Block Sarandoiw, ma gli ab itanti di Kabul, anche sotto il governo integralista, lo hanno sempre chiamato Maidoni Sagjangi, l' arena dei cani combattenti, la terza specialità del luogo. Gli appassionati ricordano i tempi in cui venivano esibite qui anche pernici da combattimen to, poveri uccelli cresciuti in gabbie piccolissime. Oppure falchi a caccia di piccioni. Su tutto si scommetteva. «Su tutto - giura Acram - si tornerà a scommettere». I galli armati di uncino muoiono abbastanza spesso, ma quasi mai tra le gambe degli spettatori. Svolazzano feriti e il rivale lascia fare. La stagione dei combattimenti dei galli, legata a quella degli amori, inizierà tra un mese. Sardor e Sher non sembrano aver troppa voglia di picchiarsi. E per questo le scommesse sono fiacche. P resto comunque i galli saranno più aggressivi e anche i cani potranno diventare attori dello spettacolo della propria morte. A Kabul c' è solo da scegliere. Con le decine di migliaia di cittadini che hanno lasciato la capitale, i cani rimasti senza p adrone sono migliaia. Ma per l' Organizzazione mondiale della Sanità, appena rientrata a Kabul, questo è un altro problema. «Tra i randagi - annuncia un portavoce dell' agenzia Onu - è in corso un' epidemia di rabbia. Se non curato in modo adeguato i l morso di uno di questi animali è mortale nel 90% dei casi». Durante i combattimenti è facilissimo che un cane in fuga cerchi di farsi strada mordendo gli spettatori. Gli animali di Kabul non sono riusciti a dissociarsi dal destino tragico della cap itale afghana. La fuga degli Studenti del Corano ha riportato con una velocità incredibile le bancarelle dei bazar a vendere uccellini da canto. Sono in gabbie di legno, poco più grandi di loro, in genere venduti a tre a tre, con le gabbiette infilat e su un bastone da appendere fuori dalla finestra. La loro mortalità è altissima, ma i talebani non li avevano vietati per questo, quanto per il canto: troppo bello, in concorrenza con il monotono salmodiare del Corano. Il re degli animali di Kabul, il leone dello zoo, è comunque l' esempio più evidente del dramma della capitale. Agli inizi degli anni Novanta un mujaheddin volle dimostrare il suo coraggio e si calò nella gabbia finendo giustamente sbranato. Il fratello dello sfortunato fanfarone si vendicò buttando una bomba a mano tra le sbarre. Il leone non morì, ma rimase cieco. È ancora vivo, magro e triste. Anche lui una vittima di Kabul. Per lui però, non c' è speranza. Per la città forse. Andrea Nicastro



Martedì 29 Gennaio 2002
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Kandahar, blitz nell’ospedale della rivolta
Gli americani all’assalto finale: uccisi sei irriducibili di Bin Laden che resistevano da novembre
DAL NOSTRO INVIATO
KABUL - Sono morti tutti e sei. Armi in pugno. Combattendo.
Mentre due elicotteri americani sparavano razzi dentro le finestre del loro rifugio. Morti ammazzati. Proprio come volevano, martiri della Guerra Santa lanciata da Osama Bin Laden contro il mondo occidentale. Lo sceicco si è volatilizzato, loro invece sono rimasti fedeli all’impegno sino all’ultimo. A ucciderli sono stati molto probabilmente proprio dei soldati Usa, i nemici che si erano scelti e che, questa volta, invece del cappellino da baseball portavano un berretto di pelliccia con appuntata sopra una spilla per ricordare l’11 settembre: «I love New York».
È finita ieri, con una brutalità di cui questa guerra al terrorismo non riesce a fare a meno, l’incredibile resistenza del minuscolo gruppo di «arabi» di Al Qaeda che da novembre si erano asserragliati nell’ospedale Mir Wais di Kandahar. «Arabi» li chiamano in Afghanistan, ma sono islamici stranieri, non necessariamente sauditi, arrivati nei campi di addestramento di Bin Laden da tutto il mondo musulmano, dal Marocco all’Indonesia. I sei uccisi ieri erano gli ultimi di una dozzina che a novembre si era trovata intrappolata ancora nei suoi letti di convalescenza dall’avanzata antitalebana sulla città. E, invece, di arrendersi aveva scelto la strada della resistenza a oltranza minacciando, in caso di attacco, di far esplodere l’intero ospedale.
Avevano mitra e lanciarazzi, mine ed esplosivi. Una riserva di fuoco tanto possente che, ieri, ancora nove ore dopo il blitz, gli artificieri dovevano far brillare gli ordigni nascosti e i botti si sentivano in tutta Kandahar.
All’inzio, tre mesi fa, gli integralisti asserragliati nell’ospedale erano yemeniti, cinesi e forse anche pachistani. A differenza di tanti talebani che alla prima occasione se la sono data a gambe, hanno mantenuto la promessa di combattere fino all’ultimo.
Tutti tranne un primo gruppetto, tre si dice, che è riuscito a scappare durante la prima settimana d’assedio. Secondo le voci che circolano nell’ex roccaforte talebana, pare che i fuggiaschi fossero pachistani, alleati tradizionali dei pashtun di Kandahar e, quindi, non invisi anche alle nuove autorità. Da quel momento in poi è cominciato il lunghissimo assedio.
I combattenti di Al Qaeda avevano posto le loro condizioni: «Le cure devono continuare, accettiamo un solo medico, nessun kafir (infedele) deve avvicinarsi alla palazzina, altrimenti faremo saltare in aria l’ospedale». È novembre, a Kandahar due antitalebani litigano a colpi di bazooka per il posto di governatore. Gli americani partono tutte le mattine dalla periferia della città per cercare i due «pesci grossi», Osama Bin Laden e il mullah Omar. Degli «arabi» dell’ospedale non si occupa nessuno. A dicembre governatore è diventato Gul Agha Shirzai, famoso per i suoi forti interessi nel commercio dell’oppio. La nuova autorità comincia a rafforzarsi, gli americani pretendono la consegna degli «arabi» dell’ospedale. Il governatore si accorda con il medico che li cura e riesce a catturarne due: sono cinesi. Oggi, probabilmente, sono a «Campo raggi x» nella base di Guantanamo.
È l’8 gennaio quando un «arabo» salta dalla finestra dell’ospedale assediato. È martedì, non venerdì giorno della grande preghiera, ma non importa, i fondamentalisti di Kandahar dicono volesse andare alla moschea. L’uomo è circondato dalle guardie afghane, mostra una bomba a mano, stacca la sicura e si fa esplodere. Dai pochi resti nessuno riesce a risalire alla nazionalità. Dentro sono rimasti in sei. Tutti yemeniti, almeno così crede di ricordare il dottore che li ha guariti.
Due settimane fa il governatore decide di tagliare loro acqua e viveri. Ma gli «arabi» non danno segni di debolezza. «Hanno enormi riserve», favoleggiano i mujaheddin. Nel padiglione accanto a quello assediato, si continua a curare i civili: broncopolmoniti, tubercolosi, denutrizione. Gli aiuti internazionali non possono arrivare con un arsenale pronto a esplodere di fianco. Il governatore Gul Agha Shirzai chiede aiuto agli americani. È la notte di domenica. L’ora fissata per la resa, le 4 e 30, passa senza una parola. All’alba scatta l’attacco. Due elicotteri da combattimento americani spuntano da dietro i tetti più vicini e lanciano i loro razzi contro le finestre dell’ospedale. Gli «arabi» sopravvissuti reagiscono sparando, ma gruppi di antitalebani e forze speciali americane arrivano sino ai piedi del palazzo e da lì buttano granate dentro gli squarci aperti dagli elicotteri. I fedelissimi di Al Qaeda non sono riusciti a trascinare nella morte che si sono scelta nessun altro.
Cinque afghani antitalebani sono rimasti feriti, e uno è grave. Gli americani con la spillina «I love New York» sono rientrati alla grande base vicino a Kandahar senza un graffio.



mercoledi, 30 gennaio 2002
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Ma a Kabul nessuno chiede di Karzai

Nella cittadella governativa, gli uffici del premier che è diventato una star in Occidente non sono stati neppure aperti. Qui, chi comanda è ancora l' ex presidente Rabbani.

DAL NOSTRO INVIATO A KABUL - Qasr-I-Riasatjamhory è la cittadella del potere afghano. Una sorta di Cremlino nel centro di Kabul. Letteralmente vuol dire «castello del leader repubblicano», ma non è un castello, piutt osto un insieme di edifici costruiti in un enorme parco dalla fine dell' 800 agli anni ' 70. Dovrebbe essere il rifugio del premier Hamid Karzai, stella nascente del teatro politico mondiale, l' afghano che parla inglese, attira miliardi di dollari e , con il suo mantello tribale e il cappelluccio di capra, piace persino agli stilisti. Invece no. Qasr-I-Riasatjamhory resta la tana degli intrighi afghani. Qui le regine avvelenavano i figli, i nipoti detronizzavano gli zii, le spie uccidevano i pre sidenti e oggi, proprio mentre il premier Karzai vola da una capitale all' altra, c' è chi lavora per la sua eclisse. «Kuja mairawi?» da chi vuole andare? chiede la guardia in tuta mimetica. In Afghanistan c' è ancora poco di formale, persino nei pre toriani del Qasr-I-Riasatjamhory. Non essendoci telefoni per annunciare il visitatore, bisogna fidarsi della parola e della faccia da occidentale. Il soldato avrà sì e no 17 anni, tiene il kalashnikov a tracolla e il colpo in canna. «Da chi vuole and are?» «Dal segretario del premier Karzai». Il soldatino strabuzza gli occhi, chiama un collega un po' più anziano. Bisogna capirlo, non c' è nessuno, o quasi, che chiede di Karzai. «Va bene, passi pure». Oltre il cancello, a sinistra, sorvegliato da una dozzina di armati, c' è la villa dell' ex presidente Burhanuddin Rabbani. La fece costruire dai sovietici il presidente Najibullah e la battezzò «Castello numero uno». Che cosa ci faccia nella cittadella del potere un ex presidente come Rabbani, senza alcun incarico ufficiale, è il mistero di Pulcinella della Kabul di oggi. «Rabbani distribuisce denaro» dicono in città. Denaro locale, «afghani», di cui l' ex professore di teologia stregato dalla politica possiede le matrici e probabilmente i nteri camion di banconote. Il turbante di Rabbani non piace a Washington quanto il cappellino di Karzai, ma l' ex presidente si prepara il terreno favorevole nella Loya Jirga, la grande assemblea di saggi delle varie province da cui a giugno dovrà em ergere il governo definitivo del Paese. «Rabbani dà per scontati i voti delle zone tagike - è la vox populi - e paga i comandanti delle province più miste etnicamente come Kunar, Laghman e Nengarhar per accaparrarsi i consensi necessari nella Loya Ji rga». Non è possibile che Karzai non lo sappia. Con i suoi poteri di premier ad interim, perché non lo sfratta dal Cremlino afghano e gli rende più difficile la rincorsa politica? Alla seconda cinta muraria si presenta una possibile risposta. È il ca po delle guardie di palazzo, Sultan Ebodi. «Comando 400 soldati - spiega Ebodi senza reticenze -: circa la metà vengono come me dal Badakshan (la provincia dell' ex presidente, ndr). Circa 150 dalla Valle del Panshir (base militare dell' etnia tagika , la stessa dell' ex presidente, ndr). Gli altri un po' da tutto l' Afghanistan». Se ci sono soldati fedeli al premier, di etnia pashtun e originario di Kandahar, si contano sulle dita. Quindi Rabbani resta dov' è. Si prosegue verso il centro della c ittadella. In fondo ad un imponente viale alberato si alza il bel padiglione liberty sede dell' Amministrazione Karzai. Non ci sono guardie sul viale e, sorpresa, non c' è Amministrazione. La palazzina ha catene e lucchetti alle porte. Sbirciando dai vetri polverosi si vedono solo poltrone rovesciate e ragnatele tra le colonne di marmo. Nessuno qui sta lavorando. «Il premier Karzai - spiega un «suo» press agent e interprete di fiducia di Rabbani - non ha ancora un' Amministrazione. Non c' è stat o il tempo. E poi è sempre all' estero. A che gli serve? Per gli affari correnti bastano i ministri». Una lettura dei dicasteri principali è significativa quanto il conto dei pretoriani: la Difesa è in mano ad un tagiko del Panshir, gli Esteri uguale , gli Interni e l' Intelligence idem. Lo stesso Finanze e Tesoro. Ma allora la star internazionale Karzai che cosa conta a Kabul? Un mujaheddin fedele a Rabbani indica l' Haram Sarai, il padiglione delle concubine del re Habibullah Khan. «Lì ci sono i 7 milioni di dollari inviati come primi aiuti dall' estero - dice il mujaheddin - e le chiavi della cassaforte le ha Karzai». Quei soldi serviranno a pagare gli stipendi arretrati, non la campagna elettorale per la Loya Jirga. Ma se dovessero arriv arne altri, c' è da scommettere che il premier smetterebbe di esibirsi solo all' estero per debuttare nella politica afghana. E alla porta d' ingresso comincerebbero a chiedere anche di lui.



giovedi 7 Febbraio 2001
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Il ministro dell’Interno afghano: «Il Paese sta rinascendo, ma gruppi potenti vogliono sabotare la pace»
Giornalisti assassinati, un arresto a Kabul
Qanuni: «Lo stiamo interrogando, crediamo che sia uno dei killer di Maria Grazia Cutuli»

DAL NOSTRO INVIATO A KABUL - E’ in cella. Un «sospetto» per la strage dei quattro giornalisti sulla strada Jalalabad-Kabul è in cella. E’ il ministro dell’Interno afghano Iounis Qanuni ad annunciarlo al Corriere della Sera . «Le indagini sono state lunghe - dice quasi scusandosi il ministro - ma nelle nostre prigioni c’è uno dei presunti assassini».
La mattina del 19 novembre due taxi con a bordo quattro reporter, vennero bloccati in una gola a tre ore da Kabul. L’inviata del Corriere Maria Grazia Cutuli venne trucidata a raffiche di kalashnikov con tre suoi compagni di viaggio in una manciata di minuti. Si parlò di banditi, di talebani sbandati, di terroristi di Al Qaeda. «Un uomo è stato arrestato e lo stiamo interrogando», dice il ministro di Kabul.
Quando è stato arrestato? Chi è? Un ex talebano? Qanuni accenna un sorriso e allarga le braccia. «Non basta sapere che è in cella? Non è già questa una buona notizia? Per adesso posso solo assicurare che lo stiamo interrogando. Appena avremo informazioni più circostanziate lo faremo sapere».
Iounis Qanuni, 44 anni, laurea in Legge Coranica, pittore per hobby, è uno degli uomini più influenti dell’Afghanistan post talebano. E’ il secondo elemento del «tris panshiro»: prima di Abdullah Abdullah, ministro degli Esteri, ma dopo Mohamed Fahim, responsabile della Difesa e vero signore delle armi. Li chiamano «panshiri» perché sono gli eredi diretti del sistema di potere costruito nella valle del Panshir dal comandante Massud. Un sistema di potere che ancora oggi, ucciso Massud, è quanto di più simile a uno Stato esista in Afghanistan.
Ministro Qanuni, l’Afghanistan è un Paese in pace?
«L’Afghanistan sta rinascendo. Stiamo costruendo una polizia nazionale. Non una milizia etnica o politica. Per anni questo Paese e i suoi leader sono stati intrappolati negli schematismi etnici o ideologici. Sta cambiando. I miei vice, per esempio. Uno è tagiko, l’altro di etnia hazara e l’altro pashtun. La squadra che ci lavora è nazionale, è afghana».
Per il momento però queste sono solo buone intenzioni. L’Afghanistan di oggi sembra un insieme di feudi indipendenti.
«Non sono d’accordo. E’ un problema molto enfatizzato. Quando abbiamo chiesto alle province di inviarci volontari per l’addestramento in polizia, la risposta è stata positiva. Da tutto il Paese, qualunque fosse il gruppo etnico maggioritario nell’area. Fra 15 giorni cominceremo il primo corso. La stampa ha parlato di truppe pronte a marciare da Kandahar a Herat. Ma era falso».
Veramente ne ha parlato il governatore pashtun di Kandahar, Gul Agha.
«Sia lui, che domani sarà mio ospite qui a Kabul, sia Ismail Khan, governatore a Herat, hanno smentito».
E nella provincia di Paktià? I feriti arrivati all’ospedale di Emergency qui a Kabul non permettono di smentire i razzi e le cannonate dei giorni scorsi.
«Sono scontri locali. La provincia di Paktià è l’unica in cui ci siano questi incidenti. E una delegazione governativa sta appianando i contrasti».
Ministro, sta descrivendo una situazione idilliaca.
«Sottolineo quanto è già stato realizzato. E in tre mesi è moltissimo. A Kabul non circolano più irregolari in armi, le caserme sono state spostate fuori dalle aree residenziali. Abbiamo sgominato 27 bande criminali e la cooperazione con l’Isaf (la forza multinazionale cui partecipa anche l’Italia, ndr.) è buona e migliora ogni giorno. Faccio notare che il rapimento del giornalista americano del Wall Street Journal è avvenuta in Pakistan, non a Kabul. Una cosa, però, è sicura: ci sono gruppi, anche potenti e organizzati, che hanno interesse a sabotare il nostro processo di pacificazione».
E’ vero che lei, dopo 20 anni, vuole uscire dal partito dell’ex presidente Burhanuddin Rabbani? Si sta sfaldando il gruppo di potere che ha conquistato Kabul?
«Alla Conferenza di Bonn, dove ero delegato, è stata scelta la via del pluralismo partitico. Quindi il professor Rabbani ha tutto il diritto di partecipare alla lotta politica con il suo partito. Io ne sarò felicissimo, perché questa finalmente è lotta politica e non militare».


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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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