Postcards From Rwanda: Sui Massacri il Giudizio del Villaggio
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
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RWANDA, SUI MASSACRI IL GIUDIZIO DEL VILLAGGIO (6 Agosto 2001)
>Maria Grazia Cutuli
copyright and courtesy of Corriere della Sera


50051 Ntarama church, where approx. 2000 ethnic Tutsi were slained in 1994, will soon become sort od a genocide mausoleum

Ruanda, sui massacri il «giudizio del villaggio
Sarà la popolazione a emettere la sentenza per gli esecutori materiali del genocidio. A settembre saranno eletti 240 mila giudici
Il governo di Kigali vuole ripristinare la «Gacaca», il tribunale tradizionale dei «saggi»


DAL NOSTRO INVIATO
KIGALI - E’ il momento dell’autocoscienza, delle confessioni di massa, della verità ricostruita collina per collina, villaggio per villaggio, casa per casa. Sette anni dopo il genocidio, il governo del Ruanda, oberato da un compito epocale - processare 115 mila detenuti accusati delle stragi - invita gli assassini ad ammettere le proprie colpe. Servirà a completare i dossier, ad alleggerire le pene, ma soprattutto a resuscitare la Gacaca , i tribunali tradizionali formati dai «saggi», dove toccherà alla popolazione emettere la sentenza finale. La giustizia verrà dal basso: chi ha ucciso dovrà confrontarsi con i parenti delle vittime, i testimoni dovranno parlare, i sopravvissuti dovranno raccontare quello che hanno subito da aprile a luglio del 1994.
La Gacaca partirà l’anno prossimo, ma i preparativi sono in corso. Ogni settimana funzionari della procura percorrono a bordo di vecchie berline le piste di terra rossa che attraversano il Ruanda, su per le colline nebbiose, alla ricerca di prove e confessioni sui massacri in cui morirono almeno 800 mila tutsi e qualche hutu moderato. Uno di questi lavacri collettivi è il comune di Murama, cento chilometri a sud della capitale Kigali. Ci si arriva tagliando bananeti e campi di tè, tra casupole scalcinate, mandrie di buoi dalle grandi corna, mercati di campagna. Lungo la strada teschi ed ossa, esposti dentro a piccolo memoriale, ricordano che due mila tutsi furono trucidati nella zona a colpi di machete e bastoni.
Il municipio è un edificio fatiscente costruito in cima a una montagnola. Sul retro si aprono i cachot , le prigioni comunali. Settecento hutu vivono ammassati in tre stanzoni maleodoranti, tra sporte di plastica che pendono dal soffitto e un buco per terra come latrina. «Quasi 600 hanno già confessato - dice Innocent Manzi, l’avvocato generale della procura -. Gli altri potrebbero farlo oggi». Il suo staff è arrivato alle nove del mattino per raccogliere le nuove deposizioni. Il primo a parlare è un anziano. Ha la voce atona e lo sguardo inespressivo: «Ho ucciso quattro persone», recita mentre la mano ricorda a gesti i colpi del machete. Gli altri, usciti dalle celle, aspettano su una radura. Visi cupi, piedi nudi nei sandali di plastica. Una trentina le donne. Un ragazzo si fa avanti. Si chiama Jean Damascène Ndagijimana, un crocefisso d’oro gli brilla al collo. Racconta: «Le autorità sono arrivate per la prima volta due anni fa a prometterci che se avremmo confessato saremmo stati liberati prima. Ma c’è voluto del tempo per convincere tutti. Solo con l’aiuto di preti e pastori abbiamo cominciato a riflettere sui nostri peccati».
Anche qui, come in altre prigioni del Ruanda, è stata organizzata una pre- Gacaca , un tribunale interno, guidato da un comitato di 20 persone. «Molti avevano paura, ci si accusava e ci si minacciava a vicenda. Ma adesso siamo pronti a sostenere il giudizio del villaggio». Jean Damascène sembra un soldato, più che un genocidaire , un massacratore. Con lo stesso zelo con cui nell’aprile ’94 aveva obbedito alle autorità che gli ordinavano di massacrare i vicini, predica ora la necessità della «riconciliazione nazionale». L’avvocato generale lo guarda soddisfatto: «Abbiamo lavorato molto sulle campagne di sensibilizzazione». I detenuti sanno che le pene previste per gli «esecutori» delle stragi disposti a confessare non superano i 15 anni.
Considerato il periodo passato in prigione e la possibilità di scontare metà della condanna lavorando a beneficio della comunità, molti di loro potrebbero essere liberati subito dopo il processo. Parecchi escono già per lavorare. Sia dal cachot di Murama, sia dalle prigioni centrali. I primi vestiti di stracci, gli altri con divise rosa confetto.
La nomenclatura tutsi, stretta attorno al presidente Paul Kagame, è abile nella propaganda. Non si tratta di un regime illuminato. E’ un gruppo di potere minoritario che ha gestito con durezza l’eredità del genocidio. Anche se la capitale Kigali è una città dalle aiuole in fiore e dai ristoranti affollati dagli staff umanitari, il Paese sprofonda nella miseria. C’è una guerra in Congo: gran parte della regione del Kivu è controllata dall’esercito ruandese.
Ci sono le incursioni di migliaia di miliziani hutu lungo la frontiera. Ma la transizione democratica, chiesta dalle istituzioni finanziarie, impone formule più morbide rispetto al passato. Il Ruanda, che all’indomani dei massacri si era ritrovato senza magistrati, senza avvocati, con le prigioni straripanti e il clima avvelenato da vendette e delazioni, dopo aver processato 5.600 detenuti, ha così ripescato la Gacaca , dimenticata con l’arrivo dei colonizzatori belgi, trasformandola in istituzione penale. Le elezioni dei nuovi giudici - 240 mila previsti in Ruanda - si terranno a settembre. I saggi esamineranno gli accusati, ma potranno emettere sentenze solo per gli esecutori dei massacri, rimandando i pianificatori del genocidio ai Tribunali ordinari. Per loro rimane in vigore la condanna a morte.
Lungo la strada che porta a sud, c’è chi ha già rincontrato gli assassini. A Ntongwe la procura ha presentato al villaggio un centinaio di detenuti, organizzando una pre- Gacaca . «E’ stato un gioco sottile e doloroso - racconta Jean Marie Mbarushimana, procuratore generale della Corte d’Appello di Nyamisindo, un tutsi dalla corporatura robusta -. Abbiamo visto uomini e donne alzarsi in massa per difendere un innocente. Al contrario sguardi rancorosi e un silenzio agghiacciante ogni volta che appariva un criminale». Il procuratore Jean Marie ha perso la madre nei massacri, ma è considerato uno dei magistrati più validi ed equilibrati del Ruanda. «Non pensate che la Gacaca risolverà tutto. In molte province sono stati commessi crimini da entrambe le parti, certe gente è stata arrestata senza prove. E sarà difficile vincere le resistenze dei sopravvissuti. Non si può immaginare la Gacaca senza una legge che indennizzi le vittime».
Sono i rescapés , i sopravvissuti, la grande incognita della riconciliazione nazionale. Morti viventi rimasti intrappolati per giorni sotto montagne di cadaveri, tutsi braccati dagli squadroni della morte, gente che ha visto fare a pezzi la propria famiglia. Benoit Kabogy, 27 anni, membro di Ibuka, l’organizzazione più estremista nella difesa dei sopravvissuti, è uno di loro. Viveva nel Bugesera, una delle regioni a più alta concentrazione tutsi. Furono sterminati in 60 mila. Lui si salvò nascondendosi nelle paludi. «La Gacaca potrà aiutarci a ricostruire il passato - dice -. Ma chi abita nei villaggi teme per la propria sicurezza. Come si può accettare che gli assassini tornino ad abitare alla porta accanto?».

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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