Postcards From Rwanda: Virunga, il Parco delle Nebbie
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
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>ALL THE STORIES
VIRUNGA, IL PARCO DELLE NEBBIE (1998)
>Maria Grazia Cutuli
copyright and courtesy of Corriere della Sera


50036 Una veduta del versante ugandese del parco del Virunga


Nel suo ufficio di Kigali, capitale del Ruanda, il funzionario americano scorre i files sul suo computer: "Ecco gli ultimi rapporti... Attacco dei guerriglieri hutu nel nord, nella prefettura di Ruhengeri. Combattimenti lungo il confine tra Congo e Uganda. Migliaia di sfollati alla frontiera. In altre parole...". L'uomo, un quarantenne dagli occhi freddi e l'aria da ex marine, smorza la voce: "Il Virunga è off-limits. Una zona grigia. La regione più instabile e esplosiva del continente". Con una matita disegna un cerchio su una mappa satellitare: "Si consigliano scorte militari. Ma scoraggiamo chiunque dall'abbandonare la strada asfaltata e avventurarsi sulle piste".
E' passato un anno dalla caduta di Mobutu e dalla vittoria di Laurent Kabila nell'ex Zaire, ribattezzato Repubblica democratica del Congo. Quattro anni dal genocidio in Ruanda, dove persero la vita più di 800 mila tutsi e hutu moderati. In Uganda, il presidente Yoweri Museveni ha rafforzato la sua credibilità come capo di stato di un'Africa nuova. Ma nella regione dei Grandi Laghi, il nuovo assetto geopolitico disegnato dagli Stati Uniti nasconde una trappola. E' il Virunga. La "zona grigia" che si estende per ottomila chilometri quadrati oltre i confini dei tre Paesi. Dal Lago Edward al Kivu, dal bacino del Congo fino alle sei vette che abbracciano il nord del Ruanda, l'antico cuore di tenebre dell'Africa trasuda sangue. I suoi fiumi trascinano cadaveri. Nelle crepe dell'immenso parco naturale - alla fine del secolo scorso ossessione di Leopoldo II del Belgio e del giornalista esploratore Henry Stanley, più recentemente incubo di "Congo", il best-sellers di Michael Crichton - si gioca ancora la partita infinita tra i due ceppi etnici che si disputano il continente: i nilotici, alti e magri, minoranze "nobili" dell'Africa, e i bantù, bassi e tozzi, le plebi" maggioritarie. In altri termini: il conflitto tra tutsi e hutu.
Gli Interahamwe, gli ufficiali dell'antica guardia civile hutu, autori delle stragi del '94 - scacciati dall'avanzata del Fronte patriottico ruandese, costituito dai tutsi cresciuti in Uganda - per due anni si erano rifugiati nei campi profughi dello Zaire. Ma alla fine del '96, quando le armate di Kabila, supportate dagli Stati Uniti, dall'Uganda, dal Ruanda e da un'altra mezza dozzina di stati africani, hanno risposto alle loro provocazioni attaccando i campi e costringendo i profughi a rientrare, i "boia" del genocidio hanno perso le loro retrovie. E si sono dati alla macchia sui vulcani. Da lì, divisi in una miriade di gruppi e fazioni, tra i quali elementi delle ex Faz, le vecchie forze armate zairesi fedeli a Mobutu, continuano la loro guerra fantasma.
Le dieci del mattino. La nebbia si solleva lentamento lungo la strada asfaltata che sale, per una novantina di chilometri, da Kigali verso i vulcani del Virunga. Dalla bruma appaiono file di contadini, donne che trasportano merci al mercato, mandrie di vacche, bambini. I fianchi delle colline sono ricoperti di bananeti, i fondovalli coltivati con le piante basse del té. Il convoglio procede lungo i tornanti. In testa e in coda le camionette dell'Apr, l'esercito governativo, cariche di giovani soldati con le mitragliatrici puntate. Al centro del convoglio, Tir zeppi di viveri, mais e farina, le jeep bianche dell'Alto commissariato per i rifugiati e due camion di profughi. Sono gli ultimi hutu rientrati dallo Zaire, la coda di un esodo di 2 milioni di persone che ha cambiato il volto e la storia della regione. Molti di questi rifugiati, sospettati di nascondere tra di loro i responsabili del genocidio, al rientro in Ruanda furono arrestati dal nuovo governo filo-tutsi. Altri furono massacrati o si persero nelle giungle del nuovo Congo. Gli ultimi, ridotti a poche decine, bloccati per mesi alla periferia di Kigali, sono stati autorizzati solo adesso a tornare nei villaggi. Ruhengeri è la loro destinazione. La porta del Virunga, o forse dell'inferno.
La città, con la sua corona di vulcani grigi sullo sfondo e la sua fila di case basse dai colori pastello, è il regno della paura. Non si sa quanti siano gli Interahamwe - chi dice 100 mila, chi solo 10 mila - né chi li supporti. Ma non passa giorno che a gruppi di venti o trenta non attacchino gli autobus, le scuole, le prigioni.
Da un anno a governare Ruhengeri è stato scelto come prefetto Boniface Rucagu, 50 anni, di etnia hutu. Un uomo in ostaggio. Il suo nome compare in una lista, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale alla fine del '96, assieme ad altri 2 mila hutu accusati di aver pianificato il genocidio. Rucagu ha i tratti tipici della sua etnia: corpulento, il viso largo, il naso schiacciato. Porta una camicia a fiori e una cravatta gialla. Parla misurando le parole, mentre due militari tutsi lo tengono d'occhio. "C'è stata carestia negli ultimi mesi. Le piogge e la guerriglia hanno distrutto le coltivazioni e il rientro dei rifugiati ha raddoppiato il numero degli abitanti costringendo a dividere il cibo". Riconosce che la sua nomina come prefetto ha creato un pandemonio."Con il vecchio regime ero stato eletto come parlamentare. Ma dopo il genocidio, anzichè fuggire ho preferito mettermi a disposizione del governo. Volevo che la mia posizione fosse chiarita". Venne arrestato. Il governo ordinò un'inchiesta. "Ma ora eccomi qui, tra i miei antichi elettori".
C'è però qualcosa che Boniface Rucagu non dice: che quegli elettori, famiglie ancora legate al regime dell'antico presidente Juvénal Habyarimana - morto il 6 aprile '94 nell'attentato aereo che diede il via alle stragi - sono oggi accusati dal governo filo tutsi di Kigali di sostenere la guerriglia. E che, per questo, l'esercito continua a massacrali. A Ruhengeri c'è solo un prete che racconta la controfaccia della prefettura: "I militari circondano i villaggi, rastrellano casa per casa, uccidono donne, anziani, bambini. Abbiamo visto cadaveri portati via con i camion. Le chiamano operazioni di sicurezza", dice il padre. Esecuzioni sommarie con migliaia di vittime, centinaia di casi di sparizione, arresti, deportazioni. Fino a gennaio dell'anno scorso, nella cittadina lavorava l'équipe dell'Alto commissario per i diritti dell'uomo dell'Onu. Dai rapporti pubblicati dagli osservatori, venivano fuori migliaia di casi di eccidi attribuibili all'esercito. Ma un sabato sera, mentre i ragazzi dei diritti dell'uomo e i bianchi delle altre agenzie umanitarie si preparavano ad uscire di casa per andare a bere la solita birra Primus all'hotel Muhabura, uomini in divisa hanno attaccato le loro case con fucili e granate. Tre volontari spagnoli di Medicos del Mundo sono stati trucidati con un colpo alla nuca. Pochi giorni dopo un missionario canadese Guy Pinard è morto, assassinato sull'altare. Come monsignor Romero del Salvador. Secondo un'inchiesta del governo erano stati gli "Interhamwe". Ma da quel momento gli "expatriés" hanno lasciato Ruhengeri. Le investigazioni sugli eccidi commesi dall'esercito si sono diradate. Ora sono finite del tutto.
A Ruhengeri sono spariti anche i turisti che fino a maggio dell'anno scorso partivano da qui per visitare gli ultimi gorilla di montagna rimasti sui vulcani. In città è ancora possibile bere una birra davanti alla facciata gialla dell'Hotel Muhabura. Ma fino alle due del pomeriggio. Dopo, solo il rombo dei camion militari e i canti dei soldati infrangono il silenzio delle colline.
Sessanta chilometri ancora, sotto ai vulcani del Virunga, fino alla frontiera con il nuovo Congo. Gisenyi con le sue belle ville coloniali, le sue buganville e le sue magnolie secolari, si affaccia sul lago Kivu. Da qui passarono alla fine del '96 i profughi hutu in fuga dall' ex Zaire. Oggi il lago è pieno di cadaveri, portati dai fiumi che scendono dalle colline. Ossa umane, corpi lasciati in pasto ai cani e agli uccelli imputridiscono sulla sabbia, davanti al giardino dell'elegante Hotel Meridien. Rosamond Carr, una raffinata signora americana di 85 anni, abita proprio sul lago. Ha sempre un tè da offrire agli ospiti. Tutti la conoscono perchè fu l'amica del cuore di Dian Fossey, l'americana che tra gli anni Sessanta e Ottanta dedicò la sua vita allo studio dei gorilla di montagna, prima di essere ammazzata in circostanze misteriose. Madame Carr è anche apparsa nel film "Gorilla nella nebbia" sulla vita della Fossey. "E' vero - ricorda - Dian faceva base qui quando cominciò a lavorare in Ruanda". Ma la storia di questa signora alta e magra, in dolcevita bianco e orecchini d'oro, è molto più lunga. Partita per l'Africa nel '49, insieme al marito, Rosamond inaugurò la sua avventura coloniale nelle coltivazioni di piretro dell'ex Zaire, ex Congo belga, per poi passare - dopo l'avvento di mobutu - in Rwanda a coltivare fiori.
Nel '94 allo scoppiare del genocidio, Rosamond tornò negli Stati Uniti: "Ma la tv continuava a trasmettere le immagini dei massacri. Ed io non pensavo ad altro." Al rientro, tre mesi dopo, trovò la casa saccheggiata: "Fu allora che decisi di creare un orfanatrofio per i figli della guerra". L'orfanatrofio, che ha raccolto oltre 200 bambini, è sorto a ridosso del campo profughi di Mudende, abitato dai Banjamulenge, i tutsi zairesi che a loro volta, tra il '95 e il '96, erano stati costretti a lasciare la regione di Masisi per scappare alle incursioni dei guerriglieri hutu rifugiati a Goma. A gennaio di quest'anno, anche Mudende è stato attaccato dagli hutu: più di mille i morti. "I bambini andavano evacuati subito - dice madame Carr - E quello che è successo dopo mi ha dato ragione". Nella spirale di vendetta, scatenata in risposta all'attacco, dai tutsi e dall'esercito ruandese, anche le proprietà della signora sono state prese d'assalto: "Dodici persone sono state uccise. Venti ferite". Rosemond Carr non teme per sé. Solo per quegli orfani che adesso giocano mesti nel suo giardino: "Hutu e tutsi, senza distinzione".
La "grande barrière", il confine tra Ruanda e Congo, è solo una sbarra di ferro accanto al Kivu che divide Gisenyi da Goma. Il doganiere, dice: "La frontiera è sicura", indicando gli handicappati in carrozzella che ogni mattina percorrono il vialone che arriva dalla città per vendere le loro piccole merci. Ma sa anche lui che gli "Interahamwe" non conoscono frontiera. Nel Virunga, tra i vulcani inattivi del Ruanda e i due attivi del Congo, c'è una valle, il Corridoio degli Elefanti, sotto controllo dei ribelli. E a nord della città, c'è un'intera regione, il Masisi, dove gli Interahamwe operano con gli ex mobutisti, i guerrieri Mai Mai, e i gruppi contrari al presidente Museveni in Uganda. Oggi Goma vive su un'assensa, sospesa sul vuoto lasciato dalla parenza dei profughi e più di recente dai funzionari degli organismi internazionali in smobilitazione. Le sue sciare nere, frutto delle eruzioni vulcaniche, si estendono per chilometri fuori dalla città dove un tempo c'erano i campi profughi, fino alle foreste pluviali del nord-est. Si spara anche a Goma. E c'é chi giura che l'esecito ruandese si stia preparando a sconfinare di nuovo per una seconda offensiva. Mambo, un giovane zairese che traffica statuette tribali tra Congo e Ruanda conosce bene i vulcani. Ricorda il '96, quando gli ex mobusti hanno cominciato a saccheggiare i villaggi dei Mai Mai, i guerrieri iniziati ai riti magici che li rendono invulnerabili alle pallottole: "I Mai Mai, per tutta risposta, li hanno uccisi con le frecce e poi se li sono mangiati. Io ero lì. Ho visto come tagliavano le gole dei nemici e poi aprivano il torace per prendere il cuore e il fegato". Sui vulcani il venditore di statuette ha incontrato anche i bambutsi: una tribù con un dono speciale: "Sanno parlare con i gorilla e li preparano alle visite dei turisti. Dal '95, da quando Maheshe, il grande re dei gorilla è morto, i bambutsi trattano con i suoi figli, i Ninja. Ma ora non serve più. Non ci sono turisti da queste parti".
Kabale non è molto diversa dalle città ruandesi. I soliti caseggiati bassi, i portici sulla strada. Ma per chi arriva dall'altra parte della frontiera, questa prima cittadina dell'Uganda, a est del Virunga, è un piccolo paradiso. La strada che porta ai vulcani è una pista di terra rossa, da percorrere in fuoristrada, che attraversa per chilometri valli e foreste, pezzi di giungla, paludi e distese sterminate di campi di patate. Quando si arriva al rifugio di Kisoro, 2500 metri di altezza, sull'altro versante delle stesse cime che si vedono a Ruhengeri, è già notte. Quattro turisti australiani, si sono già prenotati per la visita ai gorilla. Il cammino per i vulcani assicurano le guardie, è sicuro. "Mai visto un guerrigliero da queste parti", giura il capo. I machete servono solo ad aprire un passaggio nella foresta di bambù, i fucili a difendersi dagli attacchi dei bufali. E quando nella bruma del mattino il maschio dominante irrompe tra le liane, mastodontico e minaccioso, l'unica incognita è la forza bestiale dei suoi 200 chili. "Niente paura", sussurra la guida. In questo intreccio di frontiere, Uganda, Congo, Ruanda, il pericolo sono i lampi di guerra che si perdono nelle nebbie del Virunga.

copyright and courtesy of Corriere della Sera
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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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