Postcards From Kosovo: La Vita Rinasce tra le Macerie
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
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KOSOVO, LA VITA RINASCE TRA LE MACERIE (2000)
>Maria Grazia Cutuli
copyright and courtesy of Corriere della Sera


52380 Kosovar refugees in Kukes (Albania), April 1999

A Carabreg il fuoco serbo aveva divorato le case, rinsecchito i giardini, prosciugato le campagne. Anche gli abitanti erano scomparsi, trascinati nell'esodo oltre frontiera, o scacciati dalla paura fuori dalla valle della drenica, nei boschi più lontani del Kosovo. Quando Antoneta, 18 anni, è tornata dal campo profughi dell'Albania, con le quattro sorelle e i genitori, della villetta di famiglia rimanevano solo mura nere come tizzoni. Fra le macerie, la carcassa affumicata di una lavatrice, il manico di una pentola, brandelli di vestiti rosicchiati dalle fiamme. L'unico essere vivente a non essere stato sfrattato dalla guerra era una vacca, nascosta in un angolo del giardino. L'animale aveva partorito un vitello, smagrito eppure vispo. Era il giugno dell'anno scorso. Il padre di Antoneta ha valutato i danni con occhio pratico da elettricista e ha detto alle figlie: "Ricominceremo". All'inizio è stata una tenda piantata in cortile, un capanno usato per cucinare e un gran daffare a rimuovere i detriti. Il tetto è stato riparato in fretta, ma con l'inverno che si avvicinava, senza infissi e senza bagno, è stato impossibile trasferirsi in casa. Le ragazze si sono spostate da uno zio. E ci sono rimaste. La più piccola, dieci anni, è tornata a scuola. Mentre Antoneta, che ha ripreso gli studi per diventare infermiera, ha in testa un progetto: iscriversi all'università di Pristina.
Un anno è passato sulla catastrofe umanitaria del Kosovo. La maggior parte degli 890 mila albanesi fuggiti sotto l'incalzare della rabbia serba, dopo il 24 marzo 1999, giorno dei primi attacchi Nato sulla Federazione jugoslava, sono tornati in Patria: 820 mila, secondo l'UNHCR, l'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati. Smantellati i campi profughi dell'Albania, della Macedonia, del Montenegro. Rientrati nei luoghi d'origine anche gli sfollati interni. Mancano all'appello circa 70 mila persone rimaste all'estero presso amici o parenti. Il controesodo, cominciato a giugno dopo l'entrata della KFOR, la forza di pace in Kosovo, è stato rapido. Ma per gli ex rifugiati della provincia serba a maggioranza albanese, l'emergenza non è finita. Case, scuole, ospedali distrutti. Una struttura sociale da ricomporre lungo le linee della nuova spartizione etnica. Uno status politico da definire. Tensioni residue a ipotecare la ripresa della normalità: dalle vendette contro i serbi e i Rom, alla recente esplosione di violenza in città spaccate come Mitrovica, la Belfast dei Balcani. La mastodontica gara al soccorso, ingaggiata nei campi profughi dalle agenzie internazionali e dai singoli governi, Italia in testa, continua anche in Kosovo, l'UNHCR ha cominciato dagli alloggi: 110 mila case danneggiate, 47 mila ridotte in macerie. "L'obiettivo è rendere abitabile almeno una stanza. Abbiamo già distribuito 55 mila kit d'emergenza e 10 mila con il materiale necessario a ristrutturare i tetti - dice Laura Boldrini, portavoce dell'UNHCR - ma a una condizione: che i beneficiari ospitino un'altra famiglia, per un massimo di diciotto persone". Le suore di madre Teresa di Calcutta si occupano di consegnare stufe a legna, coperte, vestiti, mentre il Pam, il Programma Alimentare dell'Onu assieme ad altre agenzie sfama 900.000 persone.
Nessuna tendopoli in Kosovo. Persino i centri di accoglienza creati dall'UNHCR sono semivuoti. Gli ex profughi hanno preferito tornare nelle loro proprietà. "La terra non riusciranno a bruciarla mai", dice Hashim, un anziano di Pec, che si è accampato nel cortile di casa accanto ai due figli, miliziani dell'Esercito di Liberazione. Una donna di Djakova, Seqibe Niliani, non ha rimpianti: "Sapere che ci siamo liberati dai serbi basta a renderci felici. Non importa che la mia casa sia a pezzi, che viviamo in sei dentro un magazzino. Un giorno me la ricostruiranno". Speranze eccessive: l'UNMIK, la missione ONU per il Kosovo, ha appena comunicato che le abitazioni totalmente distrutte non saranno riedificate. Le priorità sono altre. Proprio a Djakova, una organizzazione non governativa italiana come COOPI, si è impegnata a ristrutturare quattro scuole. A Decane l'ONU rimuove macerie e rimette in sesto l'acquedotto. Durante l'inverno c'è chi si è lavato con il ghiaccio fuso. Si cucina alla brace. Il telefono, solo linee locali o satellitari è un lusso di pochi.
Se nelle città come Pristina, capoluogo del Kosovo, hanno riaperto bar e ristoranti, le campagne tornano ad essere laboratorio di pura sopravvivenza. Il bestiame è l'unico patrimonio dal quale ripartire: subito dopo il rientro si sono formati consigli di villaggio per riassegnare le mandrie sopravvissute agli antichi proprietari. "E poi ci sono i trattori - aggiunge Lucio Melandri, coordinatore di InterSos, altra organizzazione italiana - in Albania ci era toccato trovare gli spazi per parcheggiarli, provvedere ai pezzi di ricambio e alle riparazioni. Ma per molti profughi erano tutto, con quelli sono fuggiti e con quelli sono tornati".
I conti con i lutti, lasciati in eredità dalla guerra, rientrano nell'elenco dei beni perduti. Si recitano nei nuovi cimiteri che costellano il Kosovo. Tombe senza lapidi, cumuli di terra, fosse comuni, caratterizzate da un solo segnale: cartoncini disegnati con fiori per indicare che lì riposano le vittime della pulizia etnica. Quelli con l'odio rimangono aperti. I volontari del Consorzio italiano di solidarietà hanno dovuto dividere i loro progetti in due, in tre, addirittura in quattro. A Prizren, hanno trasformato il motel Vlasmini in una casa d'accoglienza per albanesi, il seminario ortodosso in rifugio per i serbi, e alcuni prefabbricati in alloggi per i profughi serbi scacciati dalla Krajna durante la guerra di Bosnia. Vicino a Pristina hanno attrezzato casette per i Rom. Si continua ad assistere tutti con il miraggio di poter un giorno riunire le etnie. "E' chiaro che non succederà adesso", dice il coordinatore, Giorgio Cardone. Come in Bosnia, anche in Kosovo la pace ha un prezzo: separazione etnica. Ai relitti del caos balcanico non rimangono che i loro steccati.

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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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