DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore,
for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
ITALY 1994-1995, EPOCA

Testata
Epoca

Data pubbl.
15/12/95

Numero
50

Pagina
86

Titolo
UNO BIANCA SIAMO STATI A CASA SAVI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Le crisi nervose della madre. L' autodifesa del padre. Ma soprattutto una serie di lettere. Che aprono nuovi squarci sulla famiglia dei tre fratelli killer. E sulle loro imprese.

Didascalia
TUTTO E' NATO QUI
La vecchia casa di campagna a Villa Verucchio, in Romagna, dove
vivono i genitori dei fratelli Savi.
"NON VERREMO IN AULA" Giuliano Savi e Renata Carabini, gli anziani
genitori di Alberto, Roberto e Fabio: hanno deciso di non essere
presenti al processo, che si sta celebrando a Rimini.
NOSTALGIA E MINACCE
Accanto al numero civico dell' abitazione dei Savi, un fascio
littorio ricorda i trascorsi "neri" della famiglia, mentre un altro
cartello invita i visitatori a stare alla larga. Giuliano, il padre
dei tre presunti killer della Uno bianca, custodiva qui un vero e
proprio arsenale: carabine, doppiette, revolver, pistole, fucili a
pompa e munizioni.
90 RAPINE, 24 MORTI Da sinistra: i fratelli Alberto, Roberto e Fabio
Savi. Sono accusati di essere i responsabili dell' ondata di
violenza che nell' arco di sette anni (tra il 1987 e il 1994) ha
seminato sangue e terrore tra Bologna, Pesaro, Rimini e Forlì.
ODIATISSIMA
Eva Mikula, la giovane amante rumena di Fabio Savi: la famiglia dei
killer la accusa pesantemente.

Testo
La casa dalla facciata rossa e scrostata, una di quelle vecchie case di campagna dove si respira a ogni angolo l' antico rigore patriarcale e contadino, si affaccia su un' aia coltivata a melograni. Qui vivono Giuliano Savi e Renata Carabini, genitori di Alberto, Roberto e Fabio, i killer della Uno bianca, poliziotti i primi due, camionista il terzo, chiamati in questi giorni a giudizio davanti alla corte di Rimini per una parte dei crimini, omicidi, ferimenti, rapine, commessi tra il 1987 e il 1994.
Non ci sono cancelli, né recinzioni attorno alla casa. Solo i pesanti teli color mattone, che oscurano le finestre, tutelano la privacy dell' anziana coppia. La mattonella in ceramica, con l' intimidazione "attenti al cane e al padrone", sottolineata da un pistolone da Far West che tante illazioni aveva scatenato sulle attitudini del padre dei Savi, è ancora lì. Così come il piccolo fascio littorio impresso ai margini del numero civico, memoria e feticcio dei trascorsi fascisti del genitore.
Qui, nascosto nelle campagne che circondano Villa Verucchio, roccaforte della gastronomia romagnola, a pochi chilometri da Rimini, papà Giuliano, il vecchio "patriarca", come l' hanno battezzato i giornali, teneva custodito il suo arsenale, collezione di carabine, doppiette, fucili a pompa, revolver, pistole, munizioni, caricatori, ritrovati e sequestrati dagli agenti della questura di Pesaro. Qui sarebbe cominciata l' iniziazione alle armi dei tre fratelli, che avrebbe tragicamente segnato i loro destini da Rambo impazziti. E, ancora qui, sono seppelliti i misteri di tre vite deviate, quell' intrigo di legami parentali, di dipendenze e affetti da cui è scaturito il patto d' acciaio della Uno bianca.
"Io non so cosa hanno fatto i miei figli, non so perché è successo tutto questo", dice adesso la madre con la voce che si perde in un lamento. Non sa, ma il risultato è un' ondata di violenza che per 7 anni ha sconvolto quattro province italiane, Bologna, Pesaro, Rimini, e Forlì, lasciando sul selciato 24 morti, 102 feriti, per un totale di 90 rapine. Una scia di sangue che potrebbe portare i Savi dritti all' ergastolo, secondo la richiesta del pubblico ministero di Rimini Daniele Paci e secondo la precedente condanna, emessa a giugno dal tribunale di Pesaro per Roberto e Fabio.
Il processo che si è aperto giovedì 16 novembre, con rito immediato, unifica due tronconi: il primo con 21 capi d' accusa, omicidi, rapine, ferimenti, commessi tra Rimini e Forlì; il secondo, con 29 imputazioni, tutte riferite a delitti in territorio riminese.
Coinvolti, oltre i Savi, altri tre poliziotti della questura di Bologna, Marino Occhipinti, Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta, agenti che i dirigenti di polizia liquidarono, all' epoca delle indagini, come "mele marce", "cani sciolti", "schegge impazzite"...
Tutte parole per bloccare altri sospetti, compreso quello che dietro la Uno bianca potesse esserci una "mente". O comunque una responsabilità dello Stato.
La lettera del "patriarca". "Al processo né io né la mamma saremo presenti. Non potremmo sopportare di vedervi in catene e in manette e di subire gli attacchi dei giornalisti", aveva scritto Giuliano Savi in una lettera indirizzata qualche mese fa ai figli in galera.
Il vecchio "patriarca", balilla ai tempi di Mussolini, poi operaio, pasticciere, mezzadro, saldatore e autista, oggi pensionato, sospettato di aver mandato allo sterminio decine di ebrei durante la seconda guerra, di aver rapato un omosessuale e di essere stato nei confronti dei figli il primo istigatore alla violenza, tiene fede alle sue parole. Arriva a bordo di una Uno bianca (curiosa coincidenza), e svicola subito, barricandosi in casa. La moglie, stretta in un giaccone sbiadito o con le borse della spesa in mano, temporeggia: "Stiamo male, volete capirlo? Stiamo soffrendo le pene dell' inferno e non abbiamo colpe. Non siamo in grado di parlare".
Il tono si fa rauco: "Sono in cura da uno psichiatra. Vivo sotto psicofarmaci... Lasciatemi stare". La voce si spezza in gola, quando le si ricorda che pochi giorni fa Eva Mikula, l' amante rumena di Fabio Savi, la "star" erotica di questa macabra telenovela, nonostante i sospetti a suo carico di importazione d' armi e ricettazione, è stata assolta da ogni accusa di complicità. "Sì, per lei va tutto bene, non è successo nulla, non ha fatto niente quella lì...". Non aggiunge altro la madre dei Savi. Chiude la porte, lasciandosi dietro l' eco angosciante di una crisi di nervi, mentre i cani randagi cominciano ad abbaiare.
Se i genitori sbarrano il passo a chiunque tenti di leggere nella loro intimità, gli aspetti privati di questa storia, i legami viscerali che legano i Savi gli uni agli altri come in un vero clan, padre, madre, figli, nuore, balzano agli occhi da un fascio di manoscritti raccolti dagli inquirenti, primi tra tutti le lettere spedite da Giuliano Savi ai figli: "Roberto, Fabio, Luca (n.d.r., secondo nome di Alberto), vi chiamo così in ordine di arrivo e non di preferenza perche Vi abbiamo desiderato tutti amandoVi prima che nasceste...". Il patriarca parla della moglie: "Già venerdì della settimana passata, giorno 3 marzo, dopo aver sentito in tv certe affermazioni mendaci espresse da "quella" Eva Mikula, la mamma ha avuto tremende convulsioni e solo una supplementare iniezione di Valium ha avuto l' effetto di calmarla". Accenna allo stato di salute delle nuore, dei nipoti, all' emorrggia di cui ha sofferto il mese prima, in un crescendo accorato che prende, in una seconda lettera, i toni inaspettati di testamento spirituale.
Prima con un' autodifesa: "Mi definiscono come "patriarca", hanno detto che con le mie delazioni ho fatto mandare in campi di cocentramento e sterminio decine di ebrei (sapete che non è vero), hanno detto che avevo in casa un quintale di esplosivo (non è vero), che avevo 20 fucili (non è vero), e una ricetrasmittente sintonizzata sulle frequenze radio di polizia e carabinieri (non è vero e sapete che la mia radio è un normale Cb e sono anche autorizzato)...". Poi con toni desolati: "Questi due vecchi genitori sono rimasti soli come cani abbandonati e di tre figli neppure uno si è salvato...".
Il padre esorta, sprona i figli a vivere con dignità anche dietro le sbarre: "Ho sentito di carcerati che si abituano al carcere e che lavorano anche in carcere. Tu Roberto sei perito elettrotecnico diplomato, ed esperto nella tua professione. Tu Fabio sei un valente carrozziere e verniciatore e mi ricordo quanto lavoravi alla Volkswagen, e che eri addetto a fare i ritocchi... e tu Luca, ti mancava un anno per essere diplomato come perito elettrotecnico...
Uno psichiatra ha detto che un buon padre può essere tale anche da dietro un carcere continuando ad amare i suoi figli e provvedendo a loro".
Rabbia e tenerezza. I killer rispondono al padre, alle mogli, ai bambini, rinsaldando legami che sembravano spezzati. Fabio scrive al figlio di 6 anni, Alessandro, e addirittura all' ex moglie Maria Grazia Angelini, sposata nel 1985, abbandonata per Eva Mikula: "Spero che un giorno potrai perdonarmi... Non ho mai smesso di volerti bene". Alberto (fra i tre quello che sostiene di non aver mai partecipato a "fatti dove sia morto qualcuno") racconta alla moglie, Antonella Bollini, della sua vita dietro le sbarre, delle lasagnette mangiate con i compagni di galera, dell' ascolto delle dediche su Radio Maria, della solidarietà e dell' amicizia con gli altri detenuti. Nelle lettere ai genitori, sfodera invece una grinta "da leone": "Sono molto più su di morale di quanto voi possiate pensare. Non ho paura e non intendo fare da capro espiatorio per parare il culo a nessuno". E la rabbia si trasforma in tenerezza quando chiede al padre di dare un messaggio alla madre: "Dille che non si abbatta tanto. Ti ha fatto scrivere che devo mantenermi in forma per affrontare le mie storie. Lo sto facendo, addirittura vado in palestra". Il tono più amaro, quando gli si toccano i fratelli: "La cosa che mi ha turbato maggiormente è di aver sentito dire che sono stati loro ad accusarmi". Un Savi accetta tutto, ma non che si venga meno al patto di fedeltà del suo clan: la famiglia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
19/11/95

Numero
46

Pagina
92

Titolo
IO, REDATTRICE DI EPOCA, HO PROVATO A USCIRE CON UN GIGOLO'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
SOCIETA'

Sommario
Un annuncio su un settimanale femminile, una telefonata, il primo incontro in un bar di Milano... Attimo per attimo, cronaca di una serata particolare. Per scoprire chi sono e come si comportano gli emuli italiani di Richard Gere.

Didascalia
INSIEME AL RISTORANTE La redattrice di "Epoca" fotografata di
nascosto al ristorante Calajunco di Milano, insieme con René, 31
anni (per discrezione l' abbiamo reso irriconoscibile). L' incontro
col gigolò è stato possibile
attraverso l' annuncio (nel cerchietto) pubblicato sull' ultimo
numero del settimanale "Amica". Sono molti, come si può vedere,
gli annunci di accompagnatori che si offrono per riempire le serate
di donne in cerca di
compagnia e di avventure galanti. René, palermitano di origine,
abita in una cittadina dell' hinterland milanese e lavora in una
Usl: ha detto che riceve almeno una cinquantina di chiamate al
giorno con richieste di informazioni.
1 L' INCONTRO E' il primo novembre, sono passate da poco le 19 quando
la nostra redattrice incontra René al bar Motta di piazza San Babila
a Milano.
2 L' APERITIVO In corso Vittorio Emanuele, ai tavoli di un bar,
quattro chiacchiere per far conoscenza e stabilire i primi dettagli
della serata.
3 LA CENA Ore 20, ristorante Calajunco, specialità siciliane.
Il conto lo paga René, con carta di credito.
4 L' ULTIMO DRINK E' al bar Basso, in via Plinio, un locale non
proprio chic, che continua la serata. Una breve sosta poi la
decisione di chiudere lì.
5 L' ADDIO Avviene al parcheggio dei taxi di piazzale Loreto, dove la
nostra redattrice si fa accompagnare dopo aver pagato la "tariffa":
600 mila lire grazie allo sconto di 100 mila "per simpatia".

Testo
Ricordate il film American Gigolò? Richard Gere in completo bianco firmato Armani, su una Mercedes Pagoda decappottabile nel paradiso dorato di Beverly Hills, in California? Bene, scordatevelo. Ho provato a contattare un gigolò a Milano, per capire che cosa può succedere a una donna sola in cerca di compagnia a pagamento: mi sono imbattuta in un impiegato della Usl che fa "la vita" per arrotondare, offre da bere in un bar dai tavolini tirolesi e propone di passare la notte in un monolocale dell' hinterland. Proprio così.
Ma cominciamo dall' inizio. L' inserzione appare su Amica, in mezzo a una sfilza di "Accompagnatori" per donne "sole", "curiose", "disinibite", "in cerca di affetto", "di emozioni" e via dicendo.
Scelgo: "Alto 1,90, bellissima presenza, classe, raffinatezza".
Almeno ci si salva dal tipo "macho", mi auguro pensando ancora a Richard Gere, e chiamo. Numero di cellulare, risposta al primo squillo: la voce dall' altra parte è leggermente artefatta e, c' era d' aspettarselo, suadente. "Sono Giovanna", butto lì. "Ho letto il tuo annuncio".
"Ciao Giovanna, sono René. Da dove chiami?".
"Da Milano".
"Oh, finalmente, mi eviti lo stress di dovermi spostare. Città fredda, soprattutto in questa stagione...".
Non ho idea di come si organizzi un appuntamento al buio di questo genere. La cosa migliore da fare mi sembra non perdersi in chiacchiere: "Come sei messo in settimana?".
"Libero. La mattina lavoro in ufficio. Ma la sera non ho problemi".
Gli propongo mercoledì primo novembre, giorno di vacanza. Lui vorrebbe martedì: "Possiamo tirar tardi", insinua malizioso. Gli chiedo quanti anni ha.
"Trentuno e tu?".
"Più o meno...".
"Fantastico, se tu fossi stata più vecchia avrei inventato una scusa... Comunque, vedrai, ti sentirai una ragazzina". Propongo un incontro al Ginrosa di piazza San Babila, bar tipico da aperitivo.
Controproposta: il Motta, un self-service neon e caos, sempre a San Babila. Segno di riconoscimento: il mio tailleur nero e una copia del Corriere sotto il braccio.
In piazza San Babila alle sette di sera ci sono bancarelle che vendono libri, auto della polizia che fanno la posta agli scippatori, e il solito caravanserraglio dei giorni di shopping. Io con il collo stirato cerco qualcuno che arrivi al metro e novanta.
Niente. Un quarto d' ora dopo mi accorgo finalmente del tizio alto e magro, in abito blu, che toglie e mette nervosamente un paio di occhiali di metallo. Mi vede e punta deciso: "Giovanna? Scusami il ritardo. Ma vengo da L. (cittadina lombarda, n.d.r.) Sì, vivo da quelle parti...". Noto la cravatta a quadretti, i capelli scuri, che un tempo dovevano essere stati più folti, adesso tirati indietro dal gel, profusione di braccialetti d' oro ai polsi, quando mi stringe la mano, e orologio a destra. Cerco di immedesimarmi nel ruolo.
Inutile. A occhio e croce, il gigolò dalla faccia da ragazzo della porta accanto, look pulito, o meglio ripulito, non mi produce nessun brivido.
Ci incamminiamo lungo corso Vittorio Emanuele. "Di dove sei?", mi chiede.
"Siciliana, di Catania".
"Incredibile, anch' io sono di origini siciliane. Di Palermo". Poi per rompere il gelo: "Lavoravo lì come segretario di un politico".
"Dc?", immagino.
"Dc", mi risponde. Punto subito ai titoli accademici: "Hai studiato a Palermo?".
"Ho preso la licenza media. Poi mi sono messo a lavorare di giorno e a frequentare le serali. Ma la politica, sai, non era fatta per me.
A Palermo, ho visto tante di quelle schifezze. C' era anche quello che hanno ammazzato...".
"Lima?".
"Sì, Lima, io lo dicevo che era un mafioso... Per fortuna ho vinto un concorso all' Usl e sono arrivato al Nord. Ma tu cosa fai a Milano?". Tiro il fiato e sciorino quella che mi sembra la storia più credibile: "Sono qui per un paio di mesi, lavoro in una grossa azienda".
Ci sediamo ai tavolini di un bar, lungo corso Vittorio Emanuele. Un aperitivo, un caffè. Il cameriere porta lo scontrino. Prendo la borsa. René mi blocca: "Oh no, pago io". E ridendo: "Tanto poi alla fine della serata ti arriva la mazzata".
Faccia tosta per faccia tosta, gli chiedo quanto. Ma lui si ritrasforma in un uomo di classe: "Oddio, non farmi parlare di soldi, mi metti in tale imbarazzo. Passiamo la serata, poi si vedrà... Ma, a proposito, mi sembri una persona molto "gradevole", perché mi hai telefonato?". Rientro anch' io nei panni: "Mi sono separata da poco e non ho voglia di avere una relazione fissa. A Milano non conosco nessuno e per il momento non mi interessa far vita sociale". Lo convince e non lo convince, ma ho già capito che René preferisce parlare anziché ascoltare. "E tu come sei arrivato a far questo lavoro?".
"Avevo un' amica che faceva l' accompagnatrice. Un giorno ero con lei negli uffici della sua agenzia. E lì mi sono sentito fare la proposta: "Sarebbe perfetto per una nostra cliente"". All' inizio, dice, si è fatto pregare, ma poi ha capitolato di fronte all' offerta di un week end a Montecarlo. "Mi è andata da sogno: la persona che dovevo accompagnare era una donna bellissima, 37, 38 anni al massimo, piena di soldi".
"Perché aveva bisogno di te?".
"Era sposata con un industriale, uno molto conosciuto. Ed era terrorizzata all' idea di aver relazioni con gente del suo giro.
Magari avrebbero potuto ricattarla. Con un "professionista", invece...". Tira fuori il pacchetto delle Marlboro e l' accendino d' oro. Troppo narciso, troppo dentro al cliché del "raffinato" per diventare molesto. "E perché poi hai lasciato l' agenzia e sei passato agli annunci?".
"Non faccio mica la gettoniera. Quelli cominciavano a propormi donne orribili. Io non sono il classico uomo da monta. Vado con una donna solo se mi diverte. E' questo lo scopo: guadagnare un po' di soldi, conoscere gente... Certo, ogni volta a un nuovo appuntamento è una bella scarica di adrenalina".
Si son fatte le otto. Ho prenotato due posti al ristorante Calajunco (specialità marinare delle isole Eolie, conto salato). Cerco di convincere René a prendere un taxi, ma lui insiste per muoversi in macchina, Lancia Thema blu. Mi apre lo sportello, già lanciato sulla storia di famiglia: "Sono tornato in Sicilia per i 50 anni di matrimonio dei miei. E' stato così commovente. C' eravamo tutti, fratelli e sorelle". Al Calajunco le luci sono soffuse, sui tavoli appena il chiarore delle candele. L' imbarazzo è svanito, anche se lui continua a evitare domande personali. Io, al contrario, gliele butto lì, una dopo l' altra. "Ma tu ti sei mai sposato?". René mi racconta per intero la storia (vera, o presunta, chissà) del suo fidanzamento con Paola, conosciuta in Val d' Aosta durante una vacanza, ritrovata quando si è trasferito al Nord, amata e poi lasciata alla vigilia delle nozze quando si era fatta troppo gelosa e ossessiva. "Vedi", mi dice, fissandomi negli occhi, "non sono tipo da legarmi a una donna. Mi pesa già trovarla la mattina nel letto".
Gli chiedo delle clienti: "Sì, qualche volta si innamorano. Ce n' era una di 29 anni che è arrivata a offrirmi 50 milioni perché lasciassi questo mestiere. Le ho detto: "Bella mia non sono mica in vendita"". Un' altra, Marina di Torino, pare invece l' abbia denunciato per rapina, quando ha capito che René si limitava a fare l' accompagnatore negandole altri favori. "Era talmente brutta, poveretta, che non sapevo proprio come fare. Sono finito in tribunale, ma lei aveva ben poco a cui attaccarsi: mi hanno assolto". Un primo, un secondo, il caffè. Ormai non c' è particolare della vita di René che non mi sia stato rivelato: so che riceve una cinquantina di chiamate di "lavoro" al giorno, so quanto paga d' affitto (750 mila), so che ha licenziato la filippina perché costava troppo e stira le camicie da solo. Sono riuscita a farmi dire quale mestiere faceva il padre (il salumiere) e addirittura come si chiama di cognome. Per non parlare della sua vita negli uffici della Usl: "Unico uomo in mezzo a una trentina di donne...
Ovvio, che abbiano scoperto tutto". Ma lui dice di fregarsene: "Mi diverte. Ogni tanto mi metto alla macchinetta del caffè a raccontare come ho passato il week end a Londra o a Parigi". Unico argomento sul quale glissa: il suo guadagno da gigolò. "Quanto? Tanto da poter cambiare una giacca a settimana. Sai, con lo stipendio dell' Usl che ci fai? Non riuscirei neanche a pagare l' affitto". Arriva il conto: 176 mila lire. René non fa una piega e tira fuori l' American Express.
Lasciamo il ristorante e saliamo in macchina. "Ciaobella...". Oddio, penso. Invece prende tempo: "Andiamo a bere qualcosa". Mi porta al Bar Basso, in via Plinio, tutto fuorché un posto chic, tavolacci di legno, gioventù di periferia. Ci sediamo in un angolo, un po' appartati. Mi ripete ancora una volta di non essere una gettoniera.
"Se una donna non mi piace, glielo faccio capire. Per esempio, ti ho detto subito che ti trovo molto "gradevole"..." Butto giù la spremuta: "Andiamo via". Salgo in macchina, aspettandomi il peggio.
Ma René anche stavolta tiene fede alla "classe": "Cosa vuoi fare?".
"Cosa proponi?".
"Sei tu che devi proporre. Non in albergo, ti prego: è squallido. Al massimo, casa mia".
"Per stasera, accompagnami a un parcheggio di taxi". Incassa e mette in moto. Penso che sia arrivato il momento di parlare di soldi: "Allora, quanto ti devo?".
"Ecco, qui viene fuori la mia timidezza. Dopo... Guarda, ti faccio vedere...". Tira fuori un paio di ritagli di giornali: "Sono stato intervistato, due volte, sai?". Ha capito tutto? No, il giornale è solo un modo cortese per farmi conoscere la sua tariffa: 700 mila.
"Per te sono 600: ho passato una bella serata. Ti confesso, mi sarebbe piaciuto continuare". Il Richard Gere della Brianza mi chiede "almeno un bacio". Porgo cortesemente la guancia e vado via.




Testata
Epoca

Data pubbl.
12/11/95

Numero
44

Pagina
122

Titolo
PRIMO SCOPO, LA PACE

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Sommario
Storia e compiti dell' Onu.

Testo
All' inizio è stato come un arcobaleno: dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, dopo il fallimento della Società delle Nazioni, una grande istituzione internazionale chiamata a governare il mondo, garantire la pace, favorire la prosperità, stroncare la povertà e il sottosviluppo, promuovere i diritti umani.
L' Organizzazione delle Nazioni Unite, tenuta a battesimo il 26 giugno 1945, alla fine della Conferenza di San Francisco, diventava operativa 4 mesi dopo, il 24 ottobre, con l' approvazione dello Statuto da parte dei 51 Paesi fondatori. Mezzo secolo più tardi, quella che doveva essere la celebrazione di un anniversario si è trasformata in processo: l' Onu (che oggi ha 185 Stati membri), appesantita dalla burocrazia e da uno spaventoso deficit finanziario (oltre 5 mila miliardi su un bilancio 1994 di 4 mila miliardi e 500 milioni), reduce da due fallimenti, le missioni di pace in Somalia e in Bosnia, va riformata o, addirittura, sciolta? Prevale l' ipotesi della riforma, attraverso alcuni interventi.
Primo: bilanciare le spese. Meno sperperi per le agenzie e per il personale, ma anche accordi diversi con i Paesi contribuenti. Come gli Stati Uniti (al momento i maggiori debitori) che da soli coprono un terzo del bilancio. Secondo: allargare il Consiglio di sicurezza, l' organo che decide gli interventi in situazioni di crisi, composto da 15 membri, di cui 5 permanenti e 10 a rotazione (tra i quali, adesso, c' è anche l' Italia). Terzo: rivedere la politica delle operazioni di pace. Inoltre, dotare le Nazioni Unite di un esercito proprio o più realisticamente usare gli eserciti regionali, come le unità Nato? Quarto: rivedere le politiche economiche, sociali e sanitarie, in mano a una pletora di agenzie che oggi intervengono, secondo molti governi e organizzazioni umanitarie, in maniera inadeguata. Quarto: rivedere gli interventi di prevenzione dei conflitti. Molti governi guardano con sospetto le operazioni di "salvataggio" (come "le amministrazioni fiduciarie"), dominate dagli interessi dei Paesi più ricchi.




Testata
Marie Claire

Data pubbl.
00/11/95

Numero
11

Pagina
61

Titolo
CHI HA PAURA DELLE VEGGENTI

Autore
Di Micaela Ceresa e Maria Grazia Cutuli

Sezione
ATTUALITA'

Occhiello
INCHIESTA VIAGGIO STRAORDINARIO ALLA SCOPERTA DEL PARANORMALE

Sommario
Milioni di persone ci credono. Può anche capitare di andarci per caso, o per gioco: ma sentirsi descrivere il proprio avvenire è sempre un' esperienza emozionante. C' è chi resta segnato da un responso per la vita. Chi resta legato al cartomante. Chi ne esce migliore. Pregi, pericoli e misfatti nel mondo del mistero. UN MERCATO SELVAGGIO: MA DISTINGUERE IL BUONO DAL CATTIVO SI PUO' CHI NON E' SICURO DEL PASSATO, INTERROGA PIU' SPESSO L' AVVENIRE UN VEGGENTE ONESTO INCORAGGIA, AIUTA AD ESAMINARE IL PRESENTE

Didascalia
Marta nel suo studio. Iniziò vent' anni fa su consiglio di un
anziano maestro: "Mi lesse le carte e disse: credo sia proprio il
tuo destino".
La radice di mandragora è ormai rarissima. Il suo potere è nominato
nella Bibbia: "E se anche
non l' avesse per natura", sostiene Marta, "certo lo ha assimilato
da noi nel corso de secoli".
Alcuni dei talismani usati all' Istituto di alta magia di Milano. I
materiali più comuni: oro, argento, pergamena, cera.
Il consulto dei tarocchi è la forma di divinazione più diffusa.
L' origine dei simboli, mai rintracciata, si perde nel tempo: è il
loro primo mistero.
Leggere la mano: per alcuni è scienza

Testo
Esiste la magia? Forse no, ma basta prendere in mano un mazzo di tarocchi e scegliere una carta: una reazione è garantita. Ci sono persone assolutamente razionali che di fronte a una zingara che prova a leggergli la mano si tirano indietro con paura. Rivelando la segreta punta del dubbio. E' naturale. La coscienza di una quantità insondabile di energie, che agiscono intorno a noi ben al di là del nostro controllo, è inevitabile. E come tale, forse, andrebbe accettata: senza fanatismi, ma anche senza facili condanne. Tanto più che può accadere a tutti di essere coinvolti e che il fenomeno comunque dilaga. Il punto, dunque, non è schierarsi pro o contro la credenza. Ma, come sostiene Anne Placier, autrice di un bel libro appena uscito in Francia, La guide de la voyance, "conoscere i rischi che comporta". Il più grave non è quello di incontrare degli imbroglioni - fatto non raro di cui riportiamo qualche esempio. Ma quello di abdicare al senso critico, di cedere all' emozione, al punto di conformare la propria vita al responso del veggente. E un "destino", irresponsabilmente predetto come "cattivo", può rovinare un' esistenza. "Di più", conferma Maria Rosaria Riccio, psicologa ed esperta di tradizioni simboliche, "esiste anche una vera e propria dipendenza. Tarocchi e oroscopo si consultano nei momenti di massima fragilità e restarne legati è facilissimo. Siamo noi che decidiamo il loro potere". Consigli? "Avvicinarsi con rispetto, ricordando che il campo è delicato e noi siamo terribilmente ignoranti. C' è molta saggezza nelle tradizioni, possono dare molti stimoli: come i sogni in analisi. Ma invece di riflettere su se stessi, alcuni "escono" da sé, diventano prede di disperazione e speranza. Il mago può essere disonesto, ma anche il cliente ha le sue responsabilità. Come di fronte al medico. Bisogna voler guarire. Scegliere persone sicure lasciandosi guidare dall' istinto. C' è un "trucco" che appartiene alla scuola terapeutica Gestalt: prestare attenzione al proprio stato d' animo alla fine di ogni incontro. Se il risultato è gioia, pienezza, tutto bene. Ma di fronte a imbarazzo, o ansia, sospettare, reagire. E, prima ancora di scegliere le carte, chiedersi: sono sicura di averne bisogno?".
NESSUN MISTERO: SOLO MAGIA I poteri, i rischi, gli inganni. Come agisce un rito, una fattura, un legamento d' amore. Una parapsicologa spiega il suo mestiere.
Sguardo penetrante, piglio combattivo, Marta, membro dell' Albo europeo degli occultisti e direttrice dell' Istituto superiore di Alta Magia di Milano, parte all' attacco: "D' accordo, c' è di tutto nel nostro campo, gente onesta e disonesta, come in ogni professione. Ma noi siamo i più denigrati, ci mettono alla prova chiedendoci di spostare tavoli, piegare posate e altre stupidaggini.
E nessuno si chiede che cosa cerca davvero la gente da noi".
Marie Claire: Appunto, cosa chiede? Marta: Ascoltiamo storie che nessuno sa ascoltare. Che a volte ci lasciano senza fiato e richiedono enorme responsabilità. Le faccio l' esempio di una madre che deve decidere se fare operare il figlio di un male incurabile e domanda se c' è speranza: lei cosa farebbe? Io ho guardato le carte e ho visto il peggio. Ma le ho detto: vada avanti, se non lo facesse potrebbe avere rimorsi per tutta la vita.
Un altro avrebbe potuto dirle: lo guarisco io. Ma preferisco passare per incapace piuttosto che fare del male a qualcuno. Quella donna è tornata a ringraziarmi.
M C Chi si rivolge all' occultista? M Vengono tutti: casalinghe e studenti, ma anche avvocati, politici e industriali. Chiedono di vincere una causa, di essere rieletti. Ma vengono in primo luogo per problemi d' amore. E poi per quelli dei figli: drogati, sbandati, ammalati. Alcuni domandano persino di fargli avere l' ottimo a scuola.
M C E lei che cosa risponde? M Che faremo di tutto, naturalmente! M C Riesce a spiegare come agisce la magia? M Non vedo niente di misterioso nella magia: dico che è possibile trasmettere alle persone delle onde volitive che gli permettono di raggiungere lo scopo. Questo mestiere aiuta a risvegliare la forza che abbiamo dentro: la sicurezza, il coraggio. Perciò i riti li lascio fare ai clienti: perché acquistino sicurezza.
M C Non c' è anche il rischio di alimentare false speranze? M Le rispondo che si può ottenere moltissimo.
M C Ma come funziona un rito? M Come l' ipnosi: una persona, per mezzo di una certa tecnica, può trasmettere onde capaci di incantarne un' altra. Allo stesso modo il rito è soltanto un mezzo per "mettere in onda" la gente.
M C Dunque gli oggetti in se stessi non hanno potere? M I materiali vengono "caricati" dall' operatore: ma a nulla vale se chi li usa non crede in quello che fa.
M C Ci vuole fede? M La chiami come crede. Ma da solo un talismano non basterà mai: agisce se riesco a convincere una persona che può servire. Noi chiamiamo tutto questo magia e molti ne fanno un gran mistero, ma io credo che chiunque abbia forza interiore, e faccia gli studi adatti, può diventare buon occultista. E lo dico anche se dà fastidio a molti.
M C I rischi maggiori? M Incontrare un mago che ad ogni problema risponde: "Le hanno fatto una fattura". E' falso, e pericoloso: se la persona non può pagare il prezzo della contro-fattura, come ne esce? E un altro pericolo è cadere nelle mani di chi sostiene che la magia deve passare attraverso il sesso. Di maghi che irretiscono le clienti ce ne sono, e pochi hanno il coraggio di denunciarli.
M C La fattura esiste veramente? M Sì, dato che esiste anche la trasmissione di onde negative. Il pensiero umano è molto potente: basta la preoccupazione di una madre a far cadere un bambino dalla bicicletta.
M C Ed è possibile far innamorare una persona a comando? M Un giorno è venuta da me una donna disperata, suo marito la maltrattava da anni, anche fisicamente. Abbiamo lottato insieme per mesi, ma oggi quell' uomo è dolce, affettuoso, innamorato. Certo non basta fare un rito "di legamento" per far tornare un amore, occorre anche trasformare la persona che lo compie. Ma se si usano "i mezzi" giusti, e cioè i riti, l' onda volitiva può ottenere qualsiasi cosa.
M C Ma questo non significa "impadronirsi" di qualcuno? M In parte, forse. Ma in fondo si tratta di risvegliare sentimenti che c' erano e che si sono logorati. E' bene? E' male? Desiderare un amore per me non è male. Soprattutto se in mezzo ci sono dei figli, dei problemi economici seri.
M C E funziona.
M Purché la persona abbia il coraggio di andare avanti fino in fondo. I tempi sono imprevedibili e c' è chi dubita, si stanca. Ma per esercitare la propria influenza su un altro, bisogna avere una volontà più forte della sua.
M C C' è anche chi dalla magia diventa letteralmente dipendente.
M Sono i casi più difficili. Persone ossessive, a cui non puoi dire: "Lei non ha niente", perché vanno subito da un altro che, imbrogliandole, gli dia modo di perseverare. Se si è onesti, bisogna inventare qualcosa per trattenerle, e intanto lavorare sulla loro insicurezza. Ci sono riti anche per questo.
M C Lei è anche veggente? M Mi piace pensare di esaminare dei problemi, non di predire il futuro. So fin troppo bene che se dico a una persona: "Fra due anni sarai malato", tempo due anni e si ammalerà davvero.
M C Ma allora lei non usa le carte? M Certo che le uso, e sono anche molto consumate. Ma cerco solo conferme.
M C Si spieghi meglio.
M So bene che la gente si aspetta che io "indovini", ma il mio compito non è azzeccare quanti amanti ha una persona, ma risolvere i suoi problemi, renderla capace di lottare. Le carte mi dicono se ci sono delle possibilità: perché una cosa è certa, non escono per caso. Una volta è venuto anche un prete: era in crisi, si era fatto esonerare dalla scuola. L' ho incoraggiato, è rimasto prete e ha ripreso a insegnare. Comunico solo tendenze positive: non mi piace spaventare la gente.
M C E se vede davvero qualcosa di brutto? M Qualche volta le bugie sono necessarie.
IN CERCA DI UN FUTURO O meglio, di una risposta su se stesse. Per caso, per disperazione, Due donne si sono trovate faccia a faccia con le carte. E con la propria vita.
ROBERTA S., 32 ANNI, AVVOCATO "Sola per tutta la vita? Un responso terribile. Per me è stato più forte di cento sedute di analisi" Sono andata da una sensitiva con lo stesso spirito con cui sarei partita per Lourdes: sperando in un miracolo, o almeno in cerca di una spiegazione che da sola non sapevo e non potevo darmi. L' ho avuta, sì, ma il prezzo è stato più alto di quanto non immaginassi.
E' successo un anno fa. La fine della convivenza con Luca mi aveva procurato una depressione cronica dalla quale non riuscivo a venire fuori. Avevo provato con l' analisi, con gli psicofarmaci, con la meditazione orientale. Nessun miglioramento. Era come se fossi invecchiata di dieci anni: fine dei progetti, delle speranze, della voglia di vivere. Perché Luca, dopo tre anni di vita insieme, avesse deciso di rompere la relazione con me, non ero ancora riuscita a capirlo. Era, è vero, un uomo difficile, introverso, umorale, con un passato travagliatissimo alle spalle: genitori separati, infanzia in collegio, un lavoro in un' organizzazione umanitaria che l' aveva portato a lungo in giro per il mondo, sempre in mezzo a guerre, disastri, carestie. Ma credevo che tra noi ci fosse comunque un grande amore, un legame importante, difficile da spezzare. Una sera, invece, steso sul divano verde del nostro piccolo appartamento di Brera, a Milano, Luca mi ha detto: "Mi dispiace, Roberta, non so più cosa voglio fare del mio futuro. E non so nemmeno se ti amo davvero". Una settimana dopo mi annunciava che sarebbe partito per il Ruanda. Sono rimasta sola con i miei dubbi, i miei sospetti, i miei ripensamenti, sempre più vicina a un vero e proprio esaurimento nervoso. Finché, poco prima del Natale scorso, dopo psicanalisti, medici e guru, ho deciso di andare da una sensitiva, a dispetto del mio atavico scetticismo verso il mondo paranormale.
L' anticamera era umida e spoglia. Cercavo di ricordare a me stessa che ero lì solo per finta, per curiosità, ma avevo un nodo allo stomaco. Poi si è aperta una porta ed è comparsa Anna: una donna piuttosto giovane, sui 35 anni, alta, sottile, occhi chiarissimi e capelli neri. Non mi ha chiesto niente, solo la mia data di nascita.
"Sei una donna forte, passionale. Puoi essere quasi violenta", mi ha detto tenendomi le mani. "Non sai farti amare". Le ho chiesto di Luca. Anche per lui solo data di nascita e nient' altro. "Non c' è niente da fare, rassegnati. Quest' uomo è schizofrenico, profondamente segnato dall' infanzia che ha avuto. A prima vista sembra affascinante: ha un' esistenza piena, interessante. Ma è tutto un bluff". Un bluff? Schizofrenico? Erano esattamente gli stessi termini con cui aggredivo Luca quando ero arrabbiata. "Ho bisogno di incontrarlo", ho detto. "Devo sapere perché mi ha lasciata". Anna ha fatto un giro di Tarocchi, poi ha scosso la testa: "Non saprai mai niente da lui. E' fatto così. Si è svegliato una mattina e ha deciso che non andavi più bene".
E' stata in silenzio per qualche minuto, a occhi chiusi. Poi, con un misto di dolcezza e durezza nella voce: "Sei destinata a restare sola, mia cara. Non vedo un compagno nella tua vita, né matrimoni né figli. Ma l' hai voluto tu. L' hai scelto molto tempo fa. Hai segnato il tuo destino sin dal momento in cui hai deciso di puntare tutto su te stessa e sul lavoro". Mi è venuto da piangere, ho resistito a fatica. Non so se quella donna fosse dotata di un intuito particolare, non so se fosse capace di telepatia o cos' altro, ma tutto quello che mi stava dicendo era assolutamente vero. Ricordavo benissimo quando, fin da ragazzina, sfidavo il tradizionalismo dei miei genitori dicendo: "Tanto io non mi sposerò mai". Di quella mia resolutezza, della mia indipendenza, sono stata orgogliosa per anni. Ma un responso del genere adesso mi sembrava terribile, non riuscivo a sopportarlo. Mi sono ribellata, le ho chiesto come fosse possibile che alla mia età gli uomini non entrassero più nella mia vita: "Ce ne saranno tanti", ha risposto, "ma nessuno di loro resterà. Ne vedo uno entro la fine dell' anno, più anziano di te, forse sposato".
Quel verdetto non mi ha più abbandonata. Mi ha segnato più di cento sedute di psicanalisi, lasciandomi addosso una specie di certezza assoluta, indiscutibile. La conferma di quel dubbio che mi portavo dentro da sempre: sono una donna che forse avrà successo, farà carriera, ma non riuscirà mai ad avere un vero rapporto d' amore, a vivere la normale vita di una coppia.
Due mesi dopo ho rivisto Luca: nessuna spiegazione, come previsto, solo un cumulo di contraddizioni che mi hanno ulteriormente devastata. Adesso sto con Andrea: ha 48 anni, è divorziato. Dice di amarmi. Ma so che non durerà.
DANIELA, 28 ANNI, IMPIEGATA "Disse: c' è un uomo in arrivo, cara: attenta, è diverso dagli altri" A casa mia leggere i tarocchi era come sfogliare il quotidiano del mattino: mia madre non faceva un passo senza consultare la sua cartomante, e le mie zie pure. Io per la verità mi ero sempre sottratta: la consideravo una scemenza bella e buona. Ci sono finita in mezzo, quasi per caso, due anni fa. Mi ero ammalata di una strana febbre che i medici non riuscivano a diagnosticare: trentasette e mezzo di temperatura, e nessun altro sintomo. Dopo mesi passati in giro fra esami e specialisti, una sera a casa di amici ho conosciuto una strana ragazza dai capelli rossi, Sara, ex insegnante di lettere, da qualche tempo dedita a pratiche "alternative". Avevamo cominciato a chiacchierare con immediato e inspiegabile senso di intimità, come se ci conoscessimo da sempre. Lei mi aveva raccontato della sua passione per l' astrologia, i tarocchi, le medicine non ufficiali. Io le avevo detto della mia febbre. "Vieni a trovarmi", mi aveva detto alla fine della serata. "Vediamo se ti posso aiutare". La settimana dopo ero da lei, davanti a una scrivania su cui bruciava lenta una bacchetta d' incenso. "Non credo che tu sia malata", ha detto Sara dopo avere osservato a lungo le carte. "La tua sembra piuttosto una questione nervosa, psicosomatica. Che fine ha fatto il ragazzo con cui stavi l' anno scorso?". Paolo: non gliene avevo parlato affatto. Era stata una storia breve, partita bene, poi io mi ero raffreddata, come al solito, avevo avuto paura di legarmi troppo e per tutta risposta lui se n' era andato con un' altra. Credevo di aver dimenticato, non mi sembrava di aver sofferto in modo particolare. "Il problema è che la tua vita sembra quasi vuota, superficiale", ha continuato Sara. "Fai attenzione, sei troppo sbrigativa con te stessa, non ti presti attenzione. Smettila di controllare la febbre col termometro, al massimo puoi prendere qualcosa di omeopatico. E invece datti più ascolto, cerca di pensarti un po' di più".
Quella sera ho disdetto un appuntamento con un' amica e mi sono chiusa in camera da letto. Gli occhi fissi sulla parete, ho rievocato mille piccoli dettagli di un passato che sembrava dimenticato: virus e batteri che avevano minato il mio cuore prima ancora del mio corpo. Ero stata una bambina viziata, cresciuta senza problemi da genitori accodiscendenti, ma assenti. Non avevo mai avuto passioni, interessi o progetti particolari. Un lavoro in banca, tanto per prendere uno stipendio. Molti fidanzati, e nessuno veramente importante. E Paolo? Lui, forse, era stato importante, ma... Un mese dopo sono tornata da Sara. Avevo ancora la febbre, ma avevo smesso di misurarla in modo ossessivo. La lettura delle carte non segnalava nessun avvenimento rilevante, ma un generico "lento" cambiamento. "E' come se ci fosse una barriera tra te e il resto del mondo", disse Sara. "Da cosa cerchi di difenderti?".
Quella volta ho pianto tutta la notte. Era assolutamente vero: involontariamente avevo fatto dell' apatia e dell' indifferenza una corazza contro la solitudine e la mancanza di affetto. Ma che cosa potevo fare? Da che parte cominciare a riprendere in mano la mia vita? Mi addormentai solo verso l' alba, sul cuscino bagnato. Al mattino non riuscivo a credere ai miei occhi: il termometro segnava trentasei e quattro, non una linea di più.
Ho cominciato a frequentare Sara assiduamente. Le riportavo settimana dopo settimana tutti i miei piccoli avvenimenti quotidiani. Lei li ascoltava, li interpretava, mi guidava nei rapporti con gli amici, con i colleghi, con i miei genitori. Con mia madre in particolare.
Alla quale, a un certo punto, ho avuto il coraggio di dire tutto.
L' ho invitata a casa mia, sole io e lei, e le ho raccontato la mia solitudine, il mio vuoto. E infine, sì, anche la mia rabbia. Per la prima volta in vita mia l' ho vista scossa. E per la prima volta l' ho sentita vicina. Poco dopo le carte di Sara mi hanno dato un responso imprevisto: "C' è un uomo in arrivo, cara mia: stai attenta, perchè questo è diverso dagli altri". Si trattava di un collega: era lì da sempre, ma non mi ero mai accorta di lui. Ci siamo messi insieme sei mesi fa e anche se mi rendo conto che non sarà affatto facile, ho deciso di accettare la sua proposta di andare a vivere insieme. In cambio, non sono più andata da Sara.
All' improvviso ho sentito che non avevo più bisogno di lei: anzi, avevo bisogno di liberarmi dalla dipendenza, per quanto benefica, che sentivo nei suoi confronti. L' ho ringraziata tantissimo, ma dovevo farcela da sola".
Dodici milioni di italiani, secondo l' Eurispes, almeno due volte l' anno cercano di conoscere il proprio futuro. Un quarto del paese.
Fra questi, uno su cinque spende almeno una volta al mese dalle 100 / 200mila lire di un comune consulto, fino ai sette, otto milioni di una contro-fattura o di un legamento d' amore, per un giro d' affari che si calcola intorno ai 2mila miliardi.
Sorprendentemente, dei 20mila operatori dell' occulto (tanti quanti gli stregoni ufficialmente riconosciuti nello Zimbabwe), quasi la metà, il 47 per cento, lavora al Nord, non soltanto in studi privati, ma via telefono, via etere, via computer. E prossimamente anche su Internet. La maggioranza dei "maghi" (56 per cento), ritiene di aver ricevuto i propri poteri da Dio; il 21 per cento parla di "forze misteriose"; l' 11 per cento si rifà alla natura e il 7, 8 per cento cita qualità proprie della psiche umana. In ogni caso, fra tutti riescono a realizzare un reddito medio di 75 milioni l' anno.
HO LAVORATO AL 144 L' annuncio diceva: "Vuoi fare la cartomante? Vieni da noi". Storia di una truffa.
Non sostengo affatto che ogni servizio di cartomanzia telefonica sia un inganno. Quella che riporto qui, sperando che serva a qualcuno, è soltanto la mia esperienza. Non posso firmarla con nome e cognome perché non ho prove, altrimenti avrei già fatto regolare denuncia: ma se volete credermi è andata così. Studio psicologia, ma ho bisogno di lavorare e l' anno scorso mi è caduto l' occhio su quell' annuncio. Decisi di presentarmi: alla peggio, pensavo, mi sarei fatta due risate. C' era la fila: gente di ogni genere ed età, nessuna selezione, bastava che sapessimo parlare. La prova, non remunerata, consisteva in un intero turno di lavoro, dalle 9 alle 17 o dalle 17 all' una. Otto ore al telefono a rispondere alle domande della gente con il solo supporto di un mazzo di tarocchi forniti di didascalia: amore, fidanzamento, malattia, rottura... A noi il compito di ricamarci su. Qualche risorsa "esoterica" potevamo anche pescarla da un libro di traduzioni latine - non sto scherzando - che girava sul bancone dei telefoni: per far recitare ai clienti qualche formula "magica" se proprio fossimo rimasti a corto di argomenti.
Ero esterrefatta, ma anche curiosa di scoprire di più. E rimasi. Nel mese seguente - tanto sono rimasta - compresi che anche la giornata di prova faceva parte integrante del "sistema": manodopera gratuita garantita. Fui scelta come "fissa" perché sapevo intrattenere i clienti per tutti e quindici i minuti - circa 50mila lire - concessi dalla Telecom ai servizi 144: dopo la linea cade e chi vuole - o è indotto a volere - deve richiamare. Stipendio, in nero e solo in contanti: un milione e 400mila lire. Notti e festivi non pagati.
Eravamo una decina a quel bancone e quasi ogni giorno notavo facce nuove, ma che sapessero qualcosa di tarocchi ne avrò incontrati due o tre. Il resto era lavoro di fantasia. Le istruzioni erano semplici: chiedere a tutti, con la scusa dell' oroscopo, nome e data di nascita. La professione - importante indicatore economico - e il nome della persona amata. I dati, e i particolari della storia personale che man mano scoprivamo, andavano rigorosamente annotati in un quadernone che portava il nostro "nome d' arte" (Iris, Amanda, Otello...), in modo che se un cliente avesse richiamato in nostra assenza chiunque avrebbe potuto fare "l' indovino". Seconda regola: terminare lasciando il discorso in sospeso in modo da far richiamare almeno una volta. E, soprattutto, introdurre nella lettura delle carte "un elemento di forte negatività". Esempio: una signora sospetta che il marito la tradisca - è sorprendente, ma il novanta per cento delle chiamate riguarda amori infelici e tradimenti.
Niente di più facile che alimentare il sospetto, trovare nelle carte un segno negativo: "E' vero, cara, purtroppo vedo una forte ombra di sfortuna". E' terribile, ma chi soffre crede a tutto: uomini e donne, di ogni livello culturale. Ed è disposto a seguire chiunque gli dia una speranza. Le nostre istruzioni prevedevano appunto la disperazione. In modo da poter suggerire al momento giusto un' ancora di salvezza: una persona potente ed esperta, in grado di risolvere tutto. "Signora, non potrei, ma data la sua situazione avrei un nome prezioso da consigliarle. Mi dia il suo numero, la richiamo da un' altra linea". E l' altra linea c' era, libera da eventuali controlli legali, destinata a fornire il numero privato dei "maghi" che ci avevano "assunto". In altra sede, e dopo aver consultato i famosi quaderni, avrebbero stupito i clienti con la loro veggenza, inducendoli a chiedere riti e fatture al costo di milioni. L' operazione era chiamata "ribaltamento". E quando riusciva, il telefonista riceveva un premio di 100mila lire.
Ci ho messo un po' a capire l' intera truffa, tanto più terribile in quanto fondata sulle angosce della gente. Naturalmente non ho mai mandato nessuno dal mago: tanto che da un giorno all' altro sono stata lasciata a casa. Peccato, perché stavo cercando il modo di sottrarre un quaderno come prova. Non c' è l' ho fatta: in questo sono stati dei maghi per davvero. Ma devo dire la verità: più ancora di questi esseri spregevoli, quello che mi ha lasciato addosso una profonda inquietudine sono state l' ingenuità, la solitudine della gente. Cercavo in tutti i modi di spiegargli la spirale della dipendenza: suggerivo di parlare con un amico, col confessore... Ma non sono mai riuscita a farli desistere. Più ero sincera, più richiamavano. Quando mi parlavano di problemi economici, a volte riuscivo a eludere la sorveglianza: "Si rende conto che sta spendendo 50mila lire?". Niente da fare. Una donna mi ha fatto questa chiamata: "Sono disperata, mi è arrivata una bolletta di tre milioni perché chiamo troppo il 144: mi fa le carte per vedere se riesco a pagare?".

BOX
L' OCCULTO IN CIFRE TRA FINZIONE E REALTA' : DUE MAGHE ALLA PROVA Come in una candid camera, ci siamo presentati da due veggenti scelte a caso, a Milano e Roma, con un problema inventato. Un test un po' ardito. Con risultato a sorpresa.
L' inserzione era altisonante: "Gianna, gran maestra in legamenti d' amore, riporta a te la persona amata". La voce al telefono, cortese e suadente: "Facciamo i tarocchi, certamente, e anche la radioestesia. Non sa cos' è? Non si preoccupi: funziona meglio delle carte. Va bene per le 5?". L' iniziazione all' occulto comincia nella periferia milanese, al primo piano di una palazzina dipinta di fresco. Gianna è sulla quarantina, ha i capelli biondo platino, scarsa dimestichezza con la grammatica ma eloquio spigliato. Non è sola. Nel suo studio, tra sfere di cristallo e amuleti, c' è Elena, una ragazza sui trent' anni "specializzata in amore". E' lei che maneggia le carte, mentre Gianna si dedica in silenzio alla radioestesia: brucia foglietti e incensi in una coppa per "sensibilizzare" i tarocchi. Espongo il falso problema: vivo da 5 anni con Andrea, un uomo più vecchio di me, reduce da un matrimonio fallito e con figlio diciottenne. Lo vorrei sposare, ma l' ex moglie lo tormenta, il figlio lo trattiene. "Non dica altro", interrompe Elena. "Vediamo cosa dicono le carte". Primo giro: "Andrea è malato.
Pressione?". "Ma no, sta benissimo", dico io. "Niente affatto", insiste Elena, "c' è qualcosa che non va. Ha per caso mal di stomaco? Ah, eccolo lì il diavolo: la moglie. E' un osso duro.
Andrea è indeciso, vero? Certo, con quello che gli è successo...
Però è chiaro: ti ama". Gianna fa un segno di assenso al fulminante responso della collega, poi continua con fumi e fiammelle. Secondo giro. Si precisa la moglie: "Fredda, calcolatrice. Non è certo una santa". "Ha un amante?", chiedo speranzosa. "Niente di serio. Si diverte. Ma intanto continua a tormentare l' ex marito con la storia del figlio: ha sofferto molto per i genitori, vero?". Annuisco.
Gianna ha finito con i fuochi e porge a Elena il mazzo appena radioestesizzato. Il cerchio si stringe: "Attenta", dice Elena preoccupata. "C' è di nuovo la moglie: visto che rispunta il diavolo? Deve avergli fatto qualcosa: Andrea prende il caffè con lei?". "Non so... Sì, forse". "Ecco", sussulta Elena. "Deve avergli messo qualcosa nel caffè. Non è difficile, succede più spesso di quanto non si creda. Ma ora ci pensiamo noi. Per carità, niente magia nera. Però lo leghiamo a lei, per sempre. Basterà un pupo di cera. Lo battezziamo e poi arriva lei coi testimoni". "Testimoni?".
"Certo: ciocche di capelli, per esempio. Il pupo ha un buco in testa e uno nel cuore: infiliamo i testimoni e dopo qualche giorno lo sentirà pulsare. Però questo costa, vero? 3 milioni e 700mila lire.
Del resto, è per sempre. Le conviene provare". Pago il consulto, grazie: 120mila, con ricevuta fiscale.
Il secondo round esoterico si gioca nei quartieri bene di Roma.
L' indirizzo di Clara, cartomante e astrologa, arriva da un' amica, con ampie avvertenze sulla bravura e l' alto livello della clientela. Lo scenario, in effetti, è un altro: casa fine Ottocento, mobili d' epoca, quadri d' autore. E nessuna traccia di amuleti.
Clara, sulla cinquantina, rossa e spumeggiante nella camicia di seta, inforca gli occhiali e consulta un testo di astrologia: "Tesoro, che cosa ti è successo nell' 88? Qualcosa ha cambiato la tua vita?". Ho un attimo di smarrimento: nell' 88 mi sono trasferita a Milano, sì che ho cambiato la mia vita. Seconda domanda, a bruciapelo: "Hai la scoliosi?". Sì che ho la scoliosi, fin da bambina. "Infiammazioni al basso ventre?". Queste non ancora.
"Attenta, le avrai". Passiamo ad Andrea. Il tipo, a naso, non le piace. Non le ho ancora detto niente, ma ha già capito che è troppo vecchio per me. "Separato?". "Sì, separato". Fa una smorfia, alza le sopracciglia e delega le sue perplessità ai tarocchi. "Non capisco, non riesco a vederlo bene... E' come se fosse trasparente. Sei sicura che conti qualcosa nella tua vita?". I suoi occhi incontrano i miei. Abbasso lo sguardo e arrossisco. Di colpo ho il terrore che scopra l' inganno e penso alla mia amica. Farfuglio qualcosa e fuggo dopo aver lasciato sul tavolo un biglietto da 50mila. Senza ricevuta.




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/10/95

Numero
42

Pagina
67

Titolo
L' ITALIA DEI MAGHI CHI SONO, CHE COSA PROMETTONO, QUANTO GUADAGNANO, CHI LI FREQUENTA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E MARIO GIORDANO

Sezione
STORIE

Occhiello
Gli inserti di EPOCA DOSSIER SULL' ESOTERICO

Sommario
Un italiano su quattro si rivolge agli occultisti. I clienti? Soprattutto giovani, colti, ricchi. Tanto che l' industria del mistero vale ormai 20 mila miliardi. E per fare sempre più affari si inventa nuove vie. Ecco il primo grande dossier su cartomanti telefonici, medium televisivi e persino veggenti sindacalizzati.

Didascalia
Il mago di Arcella: appartiene alla categoria degli "operatori"
tradizionali. Che, secondo una ricerca Eurispes, sono legati alla
cultura contadina.
Gerarda Buonincontri, 36 anni, pranoterapista e cartomante
salernitana. E' il segretario dell' Unione sindacale occultistica
italiana.
Armando Pavese, 59 anni, è l' autore di Grande inchiesta sulla magia
in Italia (Piemme, 40 mila lire), con 1.100 indirizzi di occultisti.
Giovanni Panunzio, professore di religione. Ha fondato a Cagliari il
Telefono contro gli inganni dei maghi.
Pubblicità di "144" che promettono amore, soldi e salute.
Candela dello scongiuro, da usare in caso di viaggi e processi.
Accesa di sabato, tiene lontano gli jettatori. 29.500 lire.
Talismano di Adamo ed Eva: conserva l' amore dell' amato grazie a
una "reliquia originale" di Adamo ed Eva.
Prezzo: 49 mila lire.
Direttamente dal Brasile, "uno dei riti d' amore più potenti al
mondo". Il prezzo non viene indicato.
Polveri voodoo: quella per la vendetta costa 145 mila lire, quella
per il successo solo 68mila lire.
"Acchiappafantasmi", la macchina per individuare spiriti e folletti.
Prezzo: 4 milioni e 500 mila lire.
Abiti per riti magici: rosso per riavvicinamenti d' amore, nero per
procurare rotture. Tre vesti, costo un milione.
Sfere di cristallo con base in legno e libretto di istruzioni: la
più piccola costa 70 mila lire, la più grande 220 mila.
Completo per principianti in cartomanzia. Contiene amuleto,
tarocchi, libretto di istruzioni per eseguire i riti. Tutto a 99
mila lire.
Valigetta per magia bianca ed esorcismi: contiene fra l' altro
altarino lavabile, crocefisso, candele, calice, fermaglio per riti
all' aperto. Costo 260 mila lire.
Candela di Satana, disponibile in due colori: rosso per chiedere
aiuto alle forze del Male, nero per inviare spiriti maligni ai
nemici.
49 mila lire.

Testo
Altro che arti magiche o poteri paranormali. Le telefoniste che fino a qualche mese fa rispondevano al 144 "Chiavi del futuro" di Terni non conoscevano nemmeno il significato dei tarocchi. Confezionavano i loro pronostici grazie a piccole didascalie applicate sulle carte, mini guide con predizioni prestampate e oroscopi scopiazzati dai giornali. La gente chiamava, bevendosi così, a 2 mila e 250 lire al minuto, la sua pozione di fandonie. E avrebbe continuato a farlo se gli uomini della squadra amministrativa della Questura, rispolverando un articolo dimenticato del testo unico di Pubblica sicurezza, non avessero multato per "ciarlataneria" e denunciato per "abuso della credulità popolare" una quindicina di sedicenti cartomanti.
Italia magica uguale Italia truffaldina? Secondo la legge, sembrerebbe proprio di sì. Eppure, nonostante il rischio della "bufala" congenito nel mondo dell' occulto, 12 milioni d' italiani (secondo una stima della società di ricerche Eurispes) assetati di profezie continuano a frequentare maghi, veggenti e cartomanti. Un quarto d' Italia pronta ad alimentare un mercato selvaggio, dove si paga dalle 100 alle 200 mila lire per un comune consulto, fino agli 8 milioni di una controfattura o di un contromalocchio. Per un giro d' affari di circa 20 mila miliardi di lire, pari alla metà del fatturato di un' azienda come la Fiat Auto.
Nel calderone esoterico-commerciale bolle di tutto: tarocchi, oroscopi, intrugli, legamenti d' amore e fluidi misterici che viaggiano ormai via cavo, via etere, via computer, gestiti da cartomanti, veggenti, indovini. Quanti esattamente, difficile dirlo: si va dai 150 mila "operatori dell' occulto" stimati dalle associazioni di categoria (gli occultisti ne hanno fondate in gran quantità) fino ai mille e 100 indirizzi, raccolti in un volume, Grande inchiesta sulla magia in Italia, pubblicato di recente dalle edizioni cattoliche Piemme (40 mila lire).
Una mappa dell' occulto, questo libro sulla magia, in cui l' Italia viene definita "magico Stivale". Più di quello delle sette leghe.
L' autore, Armando Pavese, 59 anni, di cui 20 spesi a osservare il mondo dei fenomeni paranormali, socio della Società italiana di psicologia della religione, collaboratore dei Gris, i gruppi diocesani di ricerca e informazione sulle sette, scopre che l' irrazionale trionfa meglio al Nord che al Sud. Il Piemonte, per esempio, ha il doppio dei maghi della media nazionale: uno ogni 27 mila abitanti contro la media di uno ogni 52 mila. "La ricchezza e il consumismo hanno ammazzato il sentimento religioso", dice Pavese, che sull' argomento ha già pubblicato un Manuale di Parapsicologia, al primo posto tra i saggi più venduti in Germania, "ma non il bisogno di mistero e protezione. Si costruisce così una religione magica parallela".
Religione destinata a incrementare di anno in anno il numero dei suoi sacerdoti: tra il 1988 e il 1993 si è registrato un aumento di indirizzi sulle Pagine Gialle del 68 per cento, pari al 17 per cento l' anno. E si sono differenziati pure i canali di "contatto paranormale": la tivù magica che dà oroscopi e tarocchi in diretta (vedi il mago Otelma, la stessa Wanna Marchi che si è riciclata da taumaturga del corpo a quella dell' anima); i 144 con le predizioni telefoniche; le riviste specializzate (non solo gli "storici" Astra o Sirio); fino ai negozi dell' occulto dove "l' arte" si compra in "kit del buon mago", talismani, testi sacri dell' arcano...
"E chissà", dice Pavese, "presto ci troveremo la magia anche su Internet".
Medioevo e futuro. Ovvero: mistero e tecnica per vendere meglio.
L' antropologa Cecilia Gatto Trocchi, autrice della ricerca Eurispes, nel suo libro Magia ed esoterismo in Italia (Mondadori, 12 mila lire), distingue tre categorie.
La prima è quella dei maghi "tradizionali". Non compaiono sulla Pagine Gialle. Preferiscono affidarsi al sempre valido network del passaparola. "Sono operatori di estrazione modesta", dice la Gatto Trocchi, "spesso legati alla tradizione contadina". Risolvono problemi di cuore, lavoro, salute con polveri, unguenti, incensi, talismani a base di capelli, grassi, sangue mestruale. "Il mago d' Arcella, per esempio. E' diventato famoso, ma rientra ancora in questa categoria". Categoria che non disdegna i riti sessuali: "Fai finta che io sia tuo marito", dice a volte questo tipo di mago alle sue clienti.
Più portati all' high-tech i "rampanti organizzati", che imperversano invece su ogni mass media. Armati di computer, cellulare, sproloquiano usando e abusando del linguaggio New Age, filosofia astrologica che predica l' avvento della religione magica: "Non parlano di "fatture" o "demoni", ma di "negatività" e "vibrazioni"". Come Otelma, che non rinuncia però alle bardature carnevalesche.
Ultimi, gli esoterici. Non si limitano a fare i maghi, possiedono una loro setta di adepti, professano il "sincretismo magico", sintesi di elementi attinti a Occidente quanto a Oriente.
Caratteristica comune tra i tre gruppi: "La presunta capacità di risolvere ogni tipo di problema", dice Cecilia Gatto Trocchi, "una specie di psicoterapia dei poveri, applicata purtroppo in maniera selvaggia, fuori da qualsiasi contesto culturale". Le loro pratiche spaziano dalla cartomanzia alle predizioni astrali, alla pranoterapia, ai massaggi, all' agopuntura...
Tutto fa brodo pur di soddisfare il cliente, il quale va dal mago, secondo la ricerca della Gatto Trocchi, con precise richieste: per conoscere il futuro (al 40,5 per cento), per risolvere i problemi sentimentali (21,5 per cento), quelli di lavoro (19,1), per disturbi di varia natura (11,9 per cento) e persino per togliere il malocchio o la fattura (6 per cento).
Altri dati sui 12 milioni d' italiani abituati a bazzicare studi esoterici vengono da un libro, La sfida infinita (editore Salvatore Sciascia, L. 30 mila, pagg. 305), scritto da un sacerdote, Luigi Berzano, docente all' Università di Torino, e da Massimo Introvigne, direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni, uno degli esperti più autorevoli in fatto di sette, esoterismo e magie). La ricerca si limita a 18 comuni attorno a Caltanissetta, nella Sicilia centrale, ma approda a risultati inaspettati.
Per esempio: i giovani credono alla magia molto più degli adulti.
"La generazione dei padri", dice Introvigne, "è cresciuta in un' epoca che si è nutrita del mito della scienza, al contrario dei figli, che sembrano aver perso ogni fiducia. I ragazzi ricorrono alla magia, come all' omeopatia al posto della medicina tradizionale". Altra scoperta: i ricchi frequentano i maghi molto più dei poveri. Ma su questo non c' è da stupirsi...
La media di guadagno annuale di un mago si aggira sui 75 milioni, secondo le dichiarazioni dei redditi (alle quali i maghi sono obbligati), allegate ai registri Iva del 1994. Quella dichiarata, ovviamente. A Bellinzona, sul confine italo-svizzero, per esempio, un paio di settimane fa la polizia ha arrestato un ventottenne milanese, Giovanni Bassanese, di professione cartomante, che era riuscito a spillare a una cliente la bellezza di cento milioni.
E basta guardare quanto spendono per farsi pubblicità: 18 milioni e 700 mila lire a pagina su Astra (140 mila copie vendute di media ogni mese), 5 milioni su Sirio (50 mila copie). Pagine su pagine, dove Antea, la maga degli amanti, "si oppone a qualsiasi forma di negatività", il Mago di Londra, professore Honoris Causa, "ha ereditato forza e poteri soprannaturali", un 144 consigliato da Mario Merola porterà "fuori dal buio" chi telefona.
Un bel carosello di "bufale" che il direttore di Astra, Rudy Stauder, ha cercato di arginare con un decalogo: "Gli inserzionisti devono seguire alcune regole fondamentali. Non possono millantare la risoluzione di problemi di salute. Devono segnalare sempre il loro numero telefonico e non solo quello del cellulare. E, infine, niente promesse di consulti gratuiti".
Un grande equivoco. Che poi i maghi indovinino o no è un problema di quelli che li frequentano. "Una metà degli eventi previsti quasi sempre si realizzano", dice Armando Pavese. "Ma non per magia.
Semplicemente perché è nella natura dei fatti". Non ci sono maghi seri e maghi meno seri, almeno secondo Cecilia Gatto Trocchi: "La magia stessa è un grande equivoco: credere che attraverso una simbologia rituale si possa modificare la realtà". A sentire gli interessati, come Maestro Bassin, mago di Riccione, già nei guai per evasione fiscale: "Gli impostori ci sono, eccome: l' 80 per cento della categoria. Quelli che lavorano con il 144, per esempio. Come funziona?". Vengono prese delle ragazze qualunque, spiega il mago, e si chiede loro di inventarsi un rito: "Tipo, prendi un limone, mettilo sotto il letto, spargi il sale, poi telefona e ritelefona.
Così la bolletta sale. Ma mica siamo tutti gli stessi, noi maghi".
In cerca di credibilità. In generale gli operatori dell' occulto si danno un gran da fare per costruirsi una patente di credibilità.
C' è chi addirittura, al di là della giungla di "ordini professionali" che raccolgono le varie tribù magiche, preme per una legge: "E' stata presentata alla Camera la proposta di creazione di un albo di maghi", dice Guido Geraudo, direttore di Sirio, "alle dipendenze dei ministeri di Grazia e giustizia, della Sanità e della Pubblica istruzione". A firmarla due onorevoli di Alleanza nazionale, Carmine Patarino e Mario Pezzoli.
Il sindacato esiste già: l' Usaode, l' unione sindacale astrologica occultistica, aderente alla Cisl, che ha come segretario generale Gerarda Buonincontri, 36 anni, pranoterapista e cartomante salernitana, e come tesserati tremila occultisti.
Pochi ma buoni? "Liberi professionisti che lottano contro l' abusivismo di chi esercita per solo scopo di lucro", recita la signora, sfoderando la sua dichiarazione programmatica: "L' operatore deve avere uno studio fisso, una partita Iva, deve emettere ricevuta fiscale". La piattaforma prevede, almeno per i nuovi maghi, un diploma di scuola media superiore e un tariffario appositamente regolamentato.
Che cosa dice la legge. La cosa strana è che sia stata la Cisl, di matrice cattolica, a sindacalizzare l' occulto. "La Cisl", spiega il segretario, "è l' unica associazione ad accettare, oltre ai lavoratori dipendenti, quelli autonomi". Ma la Chiesa (vedi l' opinione di monsignor Ersilio Tonini nella pagina a fianco) non ha sempre lanciato anatemi contro maghi, astrologi e indovini? Gli ultimi sono partiti dall' Osservatore Romano e dal Comitato ecumenico per le comunicazioni sociali, un' associazione privata che fa capo al regista massmediologo José Pantieri: "Chi si professa credente non può credere anche nella magia", dice Pantieri, che se la prende anche con la Rai, rea di aver istituzionalizzato oroscopi e tarocchi.
Maghi nel mirino, insomma. Anche della legge. Che considera reato la magia. I poliziotti di Terni che hanno denunciato le telefoniste del 144, per esempio, e, prima di loro, quelli di Rieti che avevano chiuso una catena di studi, non hanno fatto altro che applicare alla lettera l' articolo 121 del testo unico di Pubblica sicurezza. Una norma che vieta "la ciarlataneria", includendo in questa categoria "indovini", "cartomanti", "interpreti dei sogni".
Ma anche qui c' è una contraddizione. La legge del 1931 viene di fatto smentita da una sentenza della Corte di Cassazione del 9 maggio 1986. Sentenza che, emanata dopo un processo per evasione fiscale a carico del Divino Otelma, finisce per legittimare l' occulto: "Non è né turpe né immorale la consulenza in materia parapsicologica", recita il testo, "che (...) si rivela oggi una vera disciplina".
Peccato, perché nel 1994 a contraddire nuovamente quanto stabilito dalla giurisprudenza sia stata emanata una circolare, firmata dall' allora ministro dell' Interno Roberto Maroni, che invita Questure e Procure a indagare sulle attività occultistiche. Con un' unica differenza rispetto all' articolo 121: la "ciarlataneria" è un reato amministrativo. A meno che non si ipotizzi l' "abuso della credulità popolare", articolo 661 del codice penale.
Pagine Gialle denunciate. In quanti lo sanno? Giovanni Panunzio, per esempio, professore di religione di Cagliari, inventore un anno fa del telefono antiplagio (070 / 806002), creato per raccogliere le denunce dei turlupinati dell' occulto. In 12 mesi sono state oltre 700 le richieste di aiuto arrivate. Il maggior numero di chiamate è giunto da Lombardia, Lazio, Sicilia, Campania. Le regioni meno esposte sembrano essere Basilicata, Trentino, Puglia, Abruzzo. A far ricorso al servizio sono state in prevalenza le donne, 62 per cento contro il 38 per cento di uomini. Età media degli utenti: 40 anni.
La cifra estorta di entità più rilevante: 300 milioni. La spesa complessiva confessata dai pentiti dell' occulto: un miliardo. I reati denunciati più frequentemente: truffa, circonvenzione di incapace, vilipendio alla religione.
In dodici mesi, sono stati 400, di cui 300 operanti con le linee del 144, le società esoteriche e gli occultisti segnalati dal Telefono Antiplagio, sei le sette denunciate: "Ci sono inchieste aperte in una ventina di Procure" dice il professor Panunzio. "Lo stesso Garante della concorrenza e del mercato ha in mano una quindicina di provvedimenti contro la pubblicità ingannevole dei maghi". Panunzio ha anche denunciato la Seat, società del gruppo Stet, per le inserzioni sulle Pagine Gialle. "E' assurdo che ci siano voci come Astrologia o Cartomanzia. E' come se ci fosse Ricettazione o Prostituzione". Che voglia mettersi a capo di una nuova crociata? Dura... Con 12 milioni di italiani pronti a credere a oroscopi e tarocchi.

BOX
QUESTE SONO LE TARIFFE Volete farvi togliere una fattura? Può costarvi anche 10 milioni. Ma ci sono occultisti che si accontentano di 300 mila lire. Ecco, per ogni "specialità", il tariffario aggiornato.
Prestazione Prezzo minimo Prezzo massimo Controfattura 300 mila lire 10 milioni Contro il malocchio 200 mila lire 8 milioni Talismani 100 mila lire 6 milioni Legame d' amore 500 mila lire 5 milioni Interpretazione sogni 300 mila lire 1 milione Esorcismo 200 mila lire 600 mila lire Oroscopo 100 mila lire 300 mila lire Lettura della mano 50 mila lire 200 mila lire Lettura carte 50 mila lire 200 mila lire Pendolino 50 mila lire 100 mila lire l' HIT PARADE DELL' OCCULTO Quali sono i maghi che guadagnano di più? Una classifica precisa è impossibile, perché i re dell' occulto sanno tenere riservati i loro redditi. Abbiamo comunque provato a compilare una hit parade degli incassi annui, facendo una stima di massima basata soprattutto sulle indicazioni forniteci dalla professoressa Cecilia Gatto Trocchi. Sul business esoterico l' antropologa ha condotto numerose indagini, raccolte in due libri, Viaggio nella magia (Laterza, pagg. 230, 18.000 lire) e Magia ed esoterismo in Italia (Oscar Mondadori, pagg.
211, 12.000 lire).
1) Divino Otelma 900 milioni 2) Maga Mishosha 800 milioni 3) Faraone Tutankhamon 700 milioni 4) Maestro Bassin 700 milioni 5) Veggente Ripacandida 600 milioni 6) Mago d' Arcella 500 milioni 7) Mago Cervino 500 milioni 8) Mago Aleff 300 milioni 9) Mago Alex 300 milioni 10) Mago Hollywood 200 milioni COSI' I MAGHI USANO GLI STRUMENTI PIU' AGGIORNATI SFERA DI CRISTALLO? NO, 144 E INTERNET Dalle chat-line specializzate ai consulti video. Fino alle divinazioni informatiche.
Forse non sapranno indovinare davvero il futuro. Ma di certo i maghi non vivono legati al passato. Anzi, conoscono alla perfezione il presente. E sanno come sfruttarlo. E' una questione di tempi: addio zampe di gallina e intrugli bolliti in vecchie stamberghe, la magia ora viaggia sulle ali della tecnologia. Informatica, chat-line e le strade dell' etere: anche i "divini maestri" s' inchinano davanti alla forza invisibile del mercato. Alle leggi di Cagliostro, qualche volta, si può disobbedire. Quelle del marketing, invece, sono tabù.
Gli effetti risultano a tutti evidenti: oltre mille telefoni 144 dedicati ad astrologia e cartomanzia, decine di ore giornaliere di trasmissioni tivù, una quindicina di "università della magia" con corsi milionari, cataloghi spediti come postal market in tutte le case, e studi magici dotati di computer per gli oroscopi e raggi laser per dar la caccia ai fantasmi. E' il trionfo del "terziario esoterico". E' il business dell' esorcismo, dove di veramente occulto ormai rimangono soltanto le somme realmente guadagnate dai leader del mercato.
Negli ultimi tempi il mercato della magia ha invaso in particolare le linee telefoniche: delle 3.254 chat-line (i 144) attive in Italia circa il 30 per cento, cioè più di un migliaio, sono dedicate ad astri, fatture e miracolose soluzioni delle pene d' amore. Molti di questi numeri, inoltre, hanno più di una linea, alcuni arrivano ad averne una ventina, che funzionano ininterrottamente giorno e notte. Vi si collega quotidianamente quasi un milione di persone.
L' incasso via cavo raggiunge dunque cifre da capogiro: circa 10 miliardi al giorno, oltre 3.500 miliardi l' anno.
Ogni chat-line guadagna in media dieci milioni al giorno. In genere al cliente telefonico viene imposta la tariffa Auditel più alta: 2.540 più Iva. Di queste 2.540 lire, 826 (il 32 per cento) rimangono alla Telecom, le restanti 1.714 (pari al 68 per cento) vanno al "Fornitore di Informazioni", cioè ai maghi. Solo i telefoni erotici, forse, riescono a guadagnare di più. Ma la gara è ancora aperta.
Dal telefono all' etere, il business continua. L' occulto va in onda e fa audience: il nuovo mago dev' essere più telegenico che telepatico, d' obbligo sfera di cristallo e abito originale. Sono circa trecento i "santoni" che, per far capolino sui piccoli schermi di tutt' Italia, pagano cifre da capogiro: da 600 mila lire a 10 milioni all' ora, a seconda dell' orario e del tipo di emittente. Qualche tivù fa affari d' oro: soltanto la società TivuShop, quella di Wanna Marchi e del "maestro" don Esimento, ha versato nel mese di marzo a Retemia 277 milioni per acquistare spazi pubblicitari. Ma in realtà ogni antenna locale che si rispetti ha almeno quattro o cinque ore giornaliere di trasmissioni di tarocchi e oroscopi, che inevitabilmente si trasformano, per rientrare dalle spese, in televendite di "sacri" amuleti. Alcuni cartomanti usano invece il piccolo schermo per trovarsi clienti: un rapidissimo consulto gratis in diretta, poi la seduta continua nello studio privato. A prezzi salati.
Un grande successo hanno incontrato anche le università della magia, dove si tengono corsi che vanno da 500 mila lire a 5 milioni. Ed è nato persino "Astrosys", un software per computer che gira su Ms-Dos e permette a tutti di leggere tra le stelle. Ora, quali nuove strade esplorerà il marketing della magia? Qualche tempo fa alcuni "maestri" avevano provato a entrare nel mondo di Videotel: non avevano previsto che il sistema avrebbe avuto poca fortuna. Adesso c' è qualcuno che già medita di sbarcare con filtri d' amore e polveri voodoonell' asettico mondo di Internet. E la curiosità aumenta. Chissà che effetto farà la macumba telematica.
AL POSTAL MARKET DELLA MAGIA PER I MEDIUM FAI - DA - TE Talismani, altarini, polveri fatate: tutto a domicilio.
Mago fai-da-te. Basta un buono d' ordine per ricevere a casa il kit completo per ogni esorcismo. Pagamento in contrassegno e successo assicurato, grazie alla "benedizione" del mago. Altro che esoterismo: i segreti un tempo riservati a pochi iniziati, ora sono disponibili a tutti. E viaggiano nelle caselle postali, in cataloghi pronta-consegna.
Ecco alcuni oggetti pubblicizzati da uno di questi postal market dell' occulto, che vengono inviati su richiesta. Si tratta di quello del Ceams, Centro europeo di alta magia sperimentale, di Rimini.
Tutti gli oggetti sono "consacrati dal Maestro Bassin nel Tempio Magico".
SE L' "OPERATORE DELL' OCCULTO" E' DISONESTO DIECI CONSIGLI PER NON FARVI TRUFFARE Parcelle da capogiro, ricatti, persino violenze. Ecco come potete ridurre i rischi.
Crederci o non crederci? Comunque sia, anche il variegato mondo della sfera di cristallo nasconde personaggi di ogni tipo. E quindi anche imbroglioni e violenti. Ecco un piccolo decalogo per cercare di smascherarli senza farsi abbindolare. Lo abbiamo realizzato in collaborazione con il Cicap (Comitato di controllo sulle affermazioni del paranormale) e con il Telefono antiplagio (tel.
070 / 806002), un servizio gestito da volontari che dà gratuitamente consigli e informazioni a chi è stato truffato dagli "operatori dell' occulto".
1 Occhio alla pubblicità. Non fidarsi dei maghi che si fanno troppa promozione. Spesso cercano soltanto facili guadagni.
2 No a 144 e trasmissioni tivù. Gli oroscopi via cavo o etere non hanno valore.
3 No al "soddisfatti o rimborsati". Spesso è un trucco con cui maghi smaliziati cercano di "piazzare" i loro prodotti.
4 No al consulto di altri maghi. Il mago corretto è geloso della propria autonomia e non chiama a consulto "colleghi". Spesso ciò avviene per spillare altro denaro.
5 Occhio al "rilancio". Diffidare se ci si sente dire: "Stiamo ottenendo buoni risultati, ma bisogna fare ancora qualche sforzo", con nuove richieste di denaro.
6 Non "scoprirsi" troppo. Chi cerca di scendere fin nei minimi dettagli della vita privata del cliente può cercare notizie utili per ricattarlo e sfruttarlo economicamente.
7 No a sedute collettive. Dietro a questi riti si celano rischi di violenza carnale.
8 Non portare i bambini. Sono stati segnalati casi di maghi che hanno chiesto di vedere i bambini del cliente e poi sono finiti sotto accusa per abusi sessuali.
9 Richiedere la fattura Iva. Il solo modo per costringere i maghi a pagare le tasse.
10 Non pagare in contanti. Se ci si ritiene truffati, presentare denuncia entro 90 giorni: se il pagamento è avvenuto con assegni è possibile ottenere la restituzione del denaro.




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/10/95

Numero
42

Pagina
78

Titolo
E CON LA TIVU' OTELMA E' DIVENTATO DIVINO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
Gli inserti di EPOCA DOSSIER SULL' ESOTERICO: I PROTAGONISTI NOI, PROFESSIONISTI DEL MISTERO

Sommario
L' ambasciatore mancato che ha sfondato con la magia-spettacolo. Il mistico che ha creato una setta miliardaria. L' astrologa che ha puntato tutto sull' elettronica. Tre storie di successo. Conquistato seguendo strade molto diverse. Ma con un segreto in comune. Voleva far politica nella Dc, poi il diplomatico. Però quando ha scoperto d' esser stato una Faraona egizia...

Didascalia
Il Mago Otelma, all' anagrafe Marco Belelli, 44 anni, laureato in
scienze politiche.

Testo
Un vicolo umido dei "carrugi" di Genova. Un antico palazzo dalla facciata scrostata. Al secondo piano, lo studio del Divino: due stanzoni dalla luce fioca, ingombri di foto e oggetti polverosi.
Mago Otelma, per l' anagrafe Marco Belelli, dottore in scienze politiche (e presto anche in storia e filosofia), mago televisivo più celebre d' Italia, attende i visitatori pietrificato in un caffettano bianco. Fa subito omaggio dei suoi gadget: videocassetta con rituali casalinghi contro il malocchio, curriculum, tariffari...
Una montagna di roba a ricordare che non si è di fronte a un comune cartomante, ma a un sacerdote dell' occulto su scala semi industriale.
La storia dello straordinario successo del Divino, 44 anni, studi a Genova, Roma, Milano, Parigi, un passato in politica, val la pena, però, sentirla dalle sue labbra: "In tutte le vite precedenti ho sempre svolto attività magico-sacerdotali: ero sacerdote in Atlantide, mago in tempo augusteo e forse anche Faraona in Egitto".
In Italia s' è limitato a ereditare un titolo di conte, (nononostante sia figlio d' un operaio e d' una sarta), grazie al bisnonno che, prima di scialacquar tutto, imperava sulla contea di Quistello, Mantova. A 5 anni il futuro mago ha già le visioni.
Durante il liceo classico si iscrive alla Giovane Italia, movimento legato al Msi, e subito dopo alla Dc: "Esperienza traumatica. Io, anticomunista da sempre, credevo di poter fare politica. Ma lì c' era solo gente interessata a raccomandazioni e prebende".
Quando la Dc appoggia la legge per il finanziamento pubblico dei partiti, Otelma, a quell' epoca Belelli, si mette a fare l' agit-prop al contrario. Fulminato da Pannella, "anche se eccede in atteggiamenti duceschi", entra in area radicale. La passione per la magia corre di pari passo, seppur con qualche incertezza iniziale: "Dopo l' università avevo vinto il concorso per la carriera diplomatica, frequentavo un corso all' Istituto di studi di politica internazionale, a Milano, le banche mi corteggiavano.
Normale essere incerto sul da farsi". Ma incontri pilotati dal "Destino", come quello con Ninoska, frequentatrice di circoli radicali ed esperta di oroscopi, gli chiariscono le idee: "Ninoska mi porta a lavorare per una radio. Dopo qualche anno debutto in tivù". Arriva il successo, l' audience lo premia: 12 milioni di "contatti" (leggasi spettatori) al Costanzo Show. Ma guai a parlar di soldi: "Sono il mago più famoso d' Italia, non certo il più ricco". Sarà, ma la Finanza lo denuncia per evasione fiscale. La Cassazione gli dà però ragione, lo riconosce "libero professionista".
Il Divino, legittimato anche dallo Stato, nel 1992 decide così di fondare un partito, Europa 2000, 10 mila preferenze alle politiche: "Speranze di vincere non ne avevamo, non essendo appoggiati da Craxi", spiega. "Ci interessava batterci per l' abolizione della legge Merlin, quella sulla prostituzione". Segue l' annuncio dell' apertura della "casa dell' amore", in gergo "bordello". "Era solo una trappola per giornalisti che, infatti, sono arrivati a frotte". Come ogni volta che il "Divino" promette qualcuna delle sue folkloristiche uscite: la scorsa estate alla festa del settimanale satirico Cuore ha indotto a rituali magici D' Alema, Prodi, Bertinotti... Alla faccia dei benpensanti, come quell' avvocato di Bologna che l' ha denunciato per aver chiamato Papa Wojtyla "lo stregone polacco". "Non era mica un' offesa. Ci sono stregoni africani, sudamericani. E c' è lui che viene dalla Polonia". In quanto a se stesso, Marco Belelli, in arte Otelma, si limita a definirsi: "Sua divina grazia, primo teurgo della chiesa dei viventi, venerabile maestro, fonte di vita e di salvezza".




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/10/95

Numero
42

Pagina
106

Titolo
"DON MAZZI PARLI PER SE'. LA DROGA, IO, LA CURO COSI'"

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Un' intervista di "Epoca" al prete di "Domenica In" ha riacceso la polemica tra i centri di recupero. "L' eroina è un vecchio problema, stiamo sbagliando tutto", ci aveva detto Mazzi la scorsa settimana. Ma ora replica don Gelmini: "E' lui che ha sbagliato tutto, non gli altri". Ovvero: non solo l' eroina fa ancora paura, ma ormai viene consumata da personaggi insospettabili... Che poi corrono in comunità.

Didascalia
Don Pierino Gelmini, 74 anni, fondatore delle comunità Incontro (190
centri in tutto il mondo).

Testo
La segretaria ci prova: "Per carità evitiamo tutte le domande che possano suscitare polemiche. Don Gelmini non le ama". Inutile. La polemica vien da sé, non appena don Pierino Gelmini, 74 anni, padre fondatore della comunità Incontro (120 centri in Italia, 70 all' estero, 4 mila ragazzi ospitati, 20 miliardi di fatturato annuo), apre bocca: "Voglio proprio rispondere a quello che don Mazzi ha dichiarato a Epoca: "Noi delle comunità abbiamo sbagliato tutto". Noi? Come si permette. Lui ha sbagliato tutto, non gli altri. Parli per sé, don Mazzi. Continui pure a far il sottocoda a sociologi di una certa parte politica che vogliono distruggere le nostre comunità, senza pensare che per i tossicodipendenti sono state l' unico percorso nel deserto sociale".
Usa toni sanguigni don Gelmini, urla, si infiamma quando si mette in discussione il ruolo delle comunità, come ha fatto don Mazzi su Epoca. Eppure anche lui deve fare i conti con il dopo-Muccioli, con la spaccatura che si è creata attorno alle vicende di San Patrignano, con le polemiche che dividono anche politicamente il fronte degli operatori, tra "progressisti" e "conservatori".
I primi come don Mazzi, ideatore del gruppo Exodus (28 centri in Italia, un migliaio di ospiti), sostengono la "revisione" dei metodi, l' adeguamento delle comunità al nuovo mondo delle tossicodipendenze. Gli altri, più vicini alle convinzioni del guru di San Patrignano, continuano a difendere le strutture chiuse, i programmi improntati all' ordine e alla rigidità.
Come don Gelmini. Dal giorno della morte di Vincenzo Muccioli (quando ha lodato l' amico "che usava metodi diversi, ma camminava nella mia stessa direzione"), non è retrocesso di un passo: "Attenzione a quelli che vogliono distruggerci. Qua non abbiamo a che fare con le mode: una stagione maxigonne, un' altra minigonne, una volta i jeans che non ti entrano nemmeno le gambe, un' altra i pantaloni dove sta dentro tutta la famiglia, compresi i suoceri. Eh no, le comunità sono ben altra cosa: vanno mantenute così come sono".
Epoca: Lei non pensa che il mondo della tossicodipendenza stia cambiando? Don Gelmini: Cambiando? Lo dice don Mazzi che ha quattro gatti... Io ho a che fare da anni con migliaia di persone, in Bolivia, in Costarica, in Thailandia, in Brasile, là dove le droghe non solo si consumano, ma anche si producono. Cocaina, eroina, hashish, marijuana. Di tutto. Non è il tipo di droga che conta in comunità, è il messaggio e l' aiuto che noi diamo.
Epoca: Il calo delle tossicodipendenze di eroina è un dato di fatto...
Don Gelmini: E' una balla. L' eroina rimane prioritaria, il buco continua a essere una passione anche per i più giovani e per persone insospettabili. Sì, l' eroina è dappertutto, il mondo è ormai contagiato.
Epoca: Eppure le statistiche, comprese quelle dell' osservatorio sulla droga del ministero dell' Interno, dicono che fortunatamente gli eroinomani diminuiscono.
Don Gelmini: Glielo spiego io perché. L' ho detto anche a un questore qualche giorno fa: voi conoscete solo quelli che arrestate.
E la massa? Anche da me c' è un 10 per cento di ragazzi che ha fatto uso di ecstasy, come ce ne sono, soprattutto in Sud America, che sniffano cocaina. Ma in comunità l' 80 per cento degli ospiti è eroinomane.
Epoca: E per loro funzionano solo le comunità chiuse? Don Gelmini: Non mi faccia arrabbiare. Cosa significa chiuse? Le mie comunità sono aperte a tutti, abbiamo ragazzi agli arresti domiciliari, altri agli affidi sociali. Il nostro programma dura tre anni. Diamo tempo ai ragazzi per sperimentarlo. Li teniamo un anno nei centri residenziali, poi alla nostra scuola di formazione primaria di Santa Marinella, sul litorale laziale. Quindi si fa una selezione: chi vuole continuare con la scuola secondaria, può seguire corsi di livello universitario. Gli altri vengono avviati al lavoro.
Epoca: E le comunità diurne che funzionano così bene all' estero? Don Gelmini: Oggi vanno di moda: entri la mattina, prendi il metadone e ripassi la sera. Ma sa cosa succede? Si continuano a mantenere in vita degli zombi, gente che avrà sempre bisogno della droga. Qui il problema è che certa gente si è stancata delle comunità residenziali e cerca di distrarsi con qualcosa di diverso.
Epoca: Si riferisce a don Mazzi? Don Gelmini: Io non faccio come lui che parla degli altri. Va a dire in giro che sono l' erede psicologico e spirituale di Muccioli...
Non si può essere così irresponsabili e superficiali.
Epoca: Non è forse stato lei stesso a difendere incondizionatamente Muccioli? Don Gelmini: Se 2 mila ragazzi rimangono in una comunità significa che qualcosa di buono si fa. Se invece vogliamo essere libertari a tutti i costi, fino a pensare di legalizzare le droghe, beh, allora... Mi viene in mente Walter Veltroni che dice: "Con sofferenza noi del Pds voteremo per la liberalizzazione delle droghe leggere". Con quale diritto impone al partito una scelta di questo tipo? Epoca: Parliamo di partiti, allora. Lei, come Muccioli, continua a chiamare a raccolta i leader del centrodestra: Berlusconi, Fini, Buttiglione...
Don Gelmini: Bugiardi. Siete tutti bugiardi. Io ho chiamato a raccolta tutti: da me sono venuti più di 100 deputati, anche quelli del Pds. C' è gente che è gelosa, perché i politici vengono qui e non lì. Ma è normale, vanno dove si lavora veramente e non dove si fa chiacchierologia.
Epoca: Ma è proprio necessario che le comunità stringano delle alleanze politiche? Don Gelmini: E' necessario sì, perché le leggi, comprese quelle sulla droga, si fanno in Parlamento.
Epoca: In altre parole, ha bisogno dei soldi dello Stato? Don Gelmini: Neanche per sogno. Io ho rotto con le istituzioni: mi sono rifiutato di iscrivermi all' albo ufficiale delle comunità per non accettare le condizioni imposte dalla nuova convenzione governo-Regioni che sta cercando di appiattirci tutti. Sa che ci obbligano a tenere minimo tre operatori per comunità? Ridicolo.
Epoca: Le sembra ridicolo che ci sia un maggiore controllo sulle comunità? Don Gelmini: Che controllino pure, ma, lo ripeto, mi fanno ridere.
Gli ispettori sono venuti da me per sapere come abbiamo impiegato i soldi. Ma quali soldi, se nessuno ha ancora ricevuto i finanziamenti del 1993 e del 1994! L' ho ripetuto mille volte ai vescovi italiani: preferisco che sia la Chiesa a sostenere il volontariato cattolico.
Se ci compromettiamo con lo Stato, ci trasformiamo in parastatali.
Epoca: Insomma quale strada intende percorrere? Don Gelmini: Quella di sempre. I sistemi alternativi non mi interessano. Danzaterapia, ergoterapia, idroterapia, lo stesso sport che spesso è il percorso più breve per arrivare alla droga, vedi il doping... Ci possiamo anche mettere a fare i balletti, ma certi operatori non cerchino poi di passare per uomini di scienza. Sono solo analfabeti.
Epoca: Addirittura? Don Gelmini: Certo. Ed è ancora peggio quello che sta succedendo nel mondo dell' informazione. In Italia stiamo assistendo alla manovra dei grandi spacciatori che attraverso i mass media vogliono disgregare i baluardi veri della lotta antidroga. Lasciatelo dire a me che passo mesi nelle mie comunità in Bolivia, dove hanno messo una taglia sulla mia testa...
Epoca: Sulla sua testa c' è anche una spada di Damocle: nel 1991 si è fatto iniettare un vaccino sperimentale contro l' Aids con il rischio di esserne contagiato. Come si sente oggi, a quattro anni di distanza? Don Gelmini: No, questa è una scelta privata. Preferirei non parlarne.




Testata
Epoca

Data pubbl.
15/10/95

Numero
41

Pagina
42

Titolo
O.J. SIMPSON: GUARDATE COSA RIESCONO A OTTENERE GLI AVVOCATI AMERICANI

Autore
Romano Giachetti Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA' IL SISTEMA GIUDIZIARIO DEGLI STATI UNITI? ECCO TUTTO QUELLO CHE INSEGNA L' ULTIMO, CLAMOROSO ESEMPIO

Sommario
Le prove portate dall' accusa? Schiaccianti. Ma i legali dell' imputato le hanno distrutte. Assoldando una ventina di detective. Scavando nel passato dei testimoni. Giocando d' astuzia coi media. Proprio come in un film.

Didascalia
La giuria sta per pronunciarsi: l' avvocato Cochran si stringe a
O.J. Simpson.
Il verdetto è: "Non colpevole". Simpson si abbandona a un gesto di
tripudio.
O.J. è salvo e abbraccia Cochran che ha vinto giocando la carta del
razzismo.
COSI' HA VINTO
Johnny Cochran, 58 anni, legale di Simpson. E' costato
800 mila lire l' ora, 2 miliardi per tutto il processo.

Testo
Not Guilty, non colpevole! Queste parole, pronunciate in un tribunale di Los Angeles martedì 3 ottobre, sono rimbalzate in America e nel mondo procurando tripudio o costernazione in milioni di persone, l' agognata libertà dell' imputato O.J. Simpson dopo quasi nove mesi di processo e circa sedici mesi di prigione, l' allontanamento dello spettro di moti razziali e il trionfo personale di un uomo, l' avvocato Johnnie Cochran, che con un' impeccabile strategia ha polverizzato la montagna di prove con cui l' accusa pensava di schiacciare l' ex campione di football per il doppio assassinio dell' ex moglie Nicole Brown e di Ronald Goldman.
La maggioranza degli americani è ancora convinta, come lo è il padre di Goldman, che l' autore del doppio, sanguinoso e raccapricciante omicidio sia lui, Simpson. E non pochi ritengono che il verdetto, pronunciato dai dodici membri della giuria all' unanimità dopo meno di tre ore di deliberazione, rappresenti una beffa alla giustizia, la conclusione farsesca di un circo giuridico che a Los Angeles è costato 13 miliardi di lire e all' imputato circa 10 miliardi. Ha vinto, dicono molti, il pregiudizio razziale. I nove membri neri della giuria non potevano condannare a vita un nero come loro, per di più celebre.
Questo è però un giudizio a caldo e non tiene conto del fatto che qualsiasi giuria, anche una giuria tutta bianca, non avrebbe potuto fornire un verdetto diverso. Che la questione razziale abbia avuto il suo peso, lo sanno tutti. Dodici persone, come ha detto Cochran, avranno sempre presente il colore della loro pelle, in America. Ma anche se ciò non fosse vero, il compito di questa giuria era di condannare O.J. Simpson solo se non avesse avuto il benché minimo dubbio sulla sua colpevolezza, solo se non vi fosse stato il decisivo reasonable doubt, un "ragionevole dubbio". Se questo dubbio era presente in tutti e dodici, come dimostra il verdetto unanime, come potevano condannarlo? La chiave era lì: il dubbio. Quando i giurati hanno chiesto di riascoltare solo una testimonianza apparentemente marginale, quella dell' autista Allan Park, che prelevò Simpson la sera del delitto per accompagnarlo all' aeroporto, è chiaro che cercavano di ribadire un ennesimo dubbio: non, come si speculava subito dopo, che l' imputato non era a casa al momento del doppio omicidio, ma che, al contrario, per averlo commesso avrebbe dovuto risalire sul fuoristrada Bronco, percorrere la distanza dalla scena del delitto alla sua abitazione (distanza che anche secondo la polizia richiede almeno cinque-sei minuti a forte andatura), far sparire l' arma del delitto, gli abiti grondanti sangue e le scarpe Magli, liberarsi del guanto insanguinato, rientrare in casa, lavarsi e aprire il cancello per far entrare l' autista. Il tutto in cinque minuti.
Impossibile? Forse. C' è ancora chi lo ritiene possibile. La giuria non si è pronunciata né in un senso né nell' altro e ha optato per il verdetto "non colpevole". Questo verdetto, da notare, non dichiara Simpson innocente: dice semplicemente che le prove fornite dall' accusa non sono state sufficienti per eliminare l' ombra del dubbio. Mentre Simpson, secondo la legge, non potrebbe venire riprocessato per gli stessi reati nemmeno se confessasse il grande quesito che travaglia ancora l' America: ha trionfato la Giustizia? Di certo ciò che ha funzionato alla perfezione è il piano strategico della difesa, aiutato in parte dagli errori dell' accusa. Simpson, appena arrestato, non badò a spese. Arruolò subito Robert Shapiro, uno dei massimi avvocati americani. Shapiro lo consigliò di finanziare la migliore "squadra" del Paese: F. Lee Bailey, leggendaria figura del foro, Johnnie Cochran, re del dibattito, Barry Scheck, uno dei massimi esperti legali del Dna, e almeno altri venti "mastini" decisi a confrontarsi con l' enorme apparato che l' accusa, capeggiata da Marcia Clark e dal nero Christopher Darden, poteva impiegare per condannare Simpson; il compito della difesa non era di trovare il colpevole. Era quello di far sorgere un dubbio in almeno un giurato, uno solo. Toccava all' accusa la responsabilità di smantellare anche quel dubbio.
Cochran, un nero sicuro di sé, elegante, paziente, esuberante quando deve, freddo quando gli conviene, si accinse a demolire l' inoppugnabile. Vediamo come.
Il poliziotto razzista. Mark Fuhrman, il poliziotto-detective che guidò le indagini sul duplice omicidio, ha rappresentato un grave passo falso dell' accusa. Fuhrman è infatti uno che si è sempre vantato in pubblico di fabbricare prove false contro la gente di colore, che vive all' interno di un ranch di razzisti ariani, che ha più volte espresso il suo desiderio di vedere "i neri tutti bruciati". Che validità potevano dunque avere le prove portate al processo da un simile elemento? Il sangue. L' accusa avrebbe trovato tracce non solo sul luogo del delitto, ma anche in casa e sulla macchina dell' imputato. La difesa risponde che i test sul Dna commissionati dalla polizia di Los Angeles sono inaffidabili. O addirittura potrebbe essere stato Fuhrman, il poliziotto razzista, a rubare un campione di sangue di Simpson dal laboratorio incaricato di fare le analisi, per creare una prova falsa. Un' infermiera avrebbe infatti raccontato di 1, 5 cc di sangue scomparsi dal laboratorio.
I guanti. Ne è stato trovato uno insanguinato nel viale di fianco alla casa dell' omicidio. L' altro nell' appartamento di Simpson.
Qualcuno dice che sono esattamente gli stessi guanti portati dall' imputato durante una trasmissione in tivù, regalati dall' ex moglie. Quando al processo viene però chiesto a Simpson di indossarli, risultano troppo piccoli per la sua taglia. C' è anche qui lo zampino di Fuhrman? I capelli. Capelli come quelli di Simpson sono stati trovati sugli abiti delle vittime, così come alcune fibre di un maglione blu. La difesa obietta: qualsiasi maschio nero ha capelli di quel tipo. E in casa di O.J. non è stato trovato nessun maglione blu.
Le scarpe. Sul luogo del delitto l' accusa ha individuato le impronte di un paio di scarpe italiane, le stesse calzate abitualmente dall' ex campione di football. La difesa risponde: sono scarpe molto comuni, portate negli Stati Uniti da migliaia di persone...
Sembravano prove schiaccianti, ma... Ma, in ultima analisi, non hanno avuto peso né il sangue, né il Dna, né gli abusi coniugali, né i testimoni, né la mancanza di un alibi. E nemmeno la questione razziale. Hanno deciso la formulazione della legge e quei "cinque minuti impossibili". La giuria ha fatto il suo dovere. Solo O.J.
Simpson sa se ha anche fatto giustizia.

BOX
1 La prima mossa della difesa: contestare, per mesi, ogni giurato proposto fino ad arrivare alla composizione ottimale per O.J.: 9 neri su 12, in maggioranza donne.
2 Il passo successivo: la difesa ha istituito una task force di detective (tra cui uno dei maggiori esperti mondiali di Dna) per smontare le pesanti prove raccolte dall' accusa.
3 La strategia processuale: la difesa ha cercato di insinuare il "ragionevole dubbio" in almeno uno dei giurati. Secondo la legge americana, infatti, il verdetto deve essere unanime.
4 La mossa vincente: Cochran ha puntato tutto sul complotto razzista ai danni di Simpson. E ha vinto anche perché una condanna avrebbe scatenato disordini a Los Angeles.




Testata
Epoca

Data pubbl.
01/10/95

Numero
39

Pagina
88

Titolo
LA DOPPIA VITA DI UN ASSESSORE "MOSTRO"

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Certo, non ha ucciso nessuno. Ma sua moglie l' accusa di averla picchiata. Le sue impiegate di essere maschilista e volgare. E perfino i suoi compagni della Lega... Peccati veniali? Mica tanto. Anche perché a Milano Furio Patri ha un incarico molto speciale: difendere le donne.

Didascalia
LEI L' HA QUERELATO Sopra: Furio Patri, 43 anni, leghista, assessore
milanese al Decentramento e alla Condizione femminile. Nella foto
grande: la sua ex moglie, Daniela Parisini, funzionaria della Corte
dei Conti. I due sono alle carte bollate, con accuse reciproche.

Testo
"Violento e manesco", a sentir l' ex moglie. "Maschilista e volgare", secondo le colleghe d' ufficio. "Arrogante e brutale" per gli avversari politici, felici di poter infierire sul nuovo assessore leghista. Certo è che, colto di sorpresa sulla porta del suo ufficio, maniche di camicia, cravatta gialla e un filo di pancetta, Furio Patri, 43 anni, responsabile al decentramento per il Comune di Milano con delega alla Condizione femminile, sembra un innocuo ragazzone, pronto a sfoggiare il più mansueto e innocente dei sorrisi: "Credo proprio, al di là delle mie esperienze personali, che si debba fare qualcosa per le donne. Ancora oggi sono il sesso debole, la parte meno tutelata della società".
Verrebbe voglia di credergli, se non fosse per l' inciso sulle "esperienze personali": due querele, corredate da certificato medico, presentate dall' ex moglie, Daniela Parisini, funzionaria alla Corte dei Conti, che lo accusano di minacce e percosse. E se non fosse per i particolari che lui stesso in municipio avrebbe pubblicamente fornito sui "graffi al collo" inflitti alla consorte e sulla sua propensione al pugno duro nei confronti delle donne in genere.
Un po' troppo per un assessore delegato ai problemi femminili, oltre che alla gestione ammistrativa dei sette Centri donna istituiti a Milano... E infatti Patri se ne è reso conto. Scoppiata la bomba delle due querele, proprio in uno dei momenti peggiori per la giunta leghista guidata da Marco Formentini, sempre più spesso accusata di non aver rispettato il programma elettorale del ' 93, l' assessore ha improvvisamente chiuso bocca. Ha affidato il contrattacco al suo avvocato, Lina Bruna Bernardini. Che dice: "Le querele della signora sono roba di due anni fa. Il mio cliente l' aveva già denunciata per calunnia".
Chieste le dimissioni. Restano le voci di corridoio sulle pubbliche smargiassate. "Le ho sentite anch' io", confida Umberto Gai, consigliere di Rifondazione comunista. "Pare proprio che l' assessore non facesse mistero dei suoi comportamenti un po' brutali". Gli fa eco un collega della Lega, Guido Carlo Bolla, premettendo: "A Patri ho offerto tutto il mio appoggio. Ma certo è uno che non scherza in quanto a maschilismo". Allarmata e decisa, Letizia Gilardelli, ex socialista oggi indipendente, presidente del consiglio comunale, ha chiesto che Patri rinunci all' incarico, almeno fino a quando non si chiarirà se le botte alla moglie le ha date oppure no. Della stessa idea (a dispetto dell' appoggio dato all' assessore dal sindaco Formentini), un altro lumbard, Bruno Soldi: "Patri non può mettere in imbarazzo la Lega proprio in un momento così difficile. Deve andarsene". Ma su questo l' interessato non transige: "Restituirò le mie deleghe quando scadranno. E con risultati alla mano".
Al di là dei sorrisi da agnellino, all' assessore non mancano aggressività e grinta, causa in parte degli odi che si è tirato addosso. Nato a Roma (il padre era un dirigente d' azienda), laureato in ingegneria elettronica, Patri è approdato a Milano 16 anni fa, con un curriculum lungo come un rosario, tra cui trionfa un corso di specializzazione ad Harvard nel 1992. Socio fondatore della Pegaso, società di consulenza aziendale, Patri ha lavorato per Alitalia, Alfa Romeo, Enel, Fao, una cinquantina di enti, istituzioni, aziende pubbliche e private. Ha scritto saggi economici per la Franco Angeli, fino a capitare due anni fa in una commissione per il decentramento amministrativo. Lì, la fulminazione per la Lega, prima e unica, a sentir lui, passione politica della sua vita.
In municipio è arrivato il 25 luglio, in cordata con il vicesindaco Giorgio Malagoli, come un temporale d' estate. O meglio, come un carrarmato. Non aveva ufficio? Si è preso l' aula dei gruppi consiliari. L' hanno sloggiato? In pieno agosto ha telefonato a un collega in montagna annunciandogli che stava per impossessarsi dei suoi locali. Il seguito: una crociata antiassenteismo. Prima, pretendendo che arrivassero via fax nel suo ufficio tutti i fogli con le presenze e le assenze dei dipendenti. Poi, quando le linee telefoniche sono andate in tilt, si è dedicato alle incursioni di buon mattino, nelle sedi di quartiere, per invitare gli operatori "a prendere un caffè". Il tutto, raccontano, condito con modi bruschi, urla, parolacce da far arrossire un camionista.
Funzionaria silurata. Prima vittima del nuovo corso "manageriale" è stata Bianca Locatelli, la funzionaria che coordinava i Centri donna (consultori che offrono assistenza legale nei quartieri, promotori di iniziative come i corsi di autodifesa). Il motivo? La signora giura di non saperlo. "Mi ha detto semplicemente che con me non poteva collaborare. Altri mi hanno riferito che mi considera un residuato della Prima repubblica". Forse sono state maldicenze reciproche, litigi e antipatie personali. Certo è che, a parte la rimozione della Locatelli, l' assessore finora non si è mai occupato dei Centri donna. Anzi, ad agosto, aveva lasciato intendere alla Girardelli che pensava di affidare a lei e a una rappresentante della Lega l' intera questione.
Che Patri non sia proprio la persona più adatta all' incarico? Chi ne era già convinto ha visto la prova provata nelle accuse della moglie. Anche se per ora sono top secret, visto che Daniela Parisini non vuole aprir bocca. Sul matrimonio tra i due, in compenso, parla l' avvocato di lui: "Un' unione durata poco, quattro anni in tutto.
Come succede spesso, con liti e disaccordi... Fatto sta che la signora per ora vive nella casa del marito, un appartamento molto bello, proprio in centro". Che tra quelle stanze siano volate botte, o ci siano stati solo "graffi sul collo", come andava raccontando l' assessore, o addirittura nulla, come sostiene adesso, lo deciderà il giudice. Furio Patri, intanto, paladino non certo per vocazione del sesso debole, continua con la sua linea dura in Comune. Dicono però che da qualche giorno urli un po' meno e taccia di più.




Testata
Epoca

Data pubbl.
17/09/95

Numero
37

Pagina
46

Titolo
NEL MONASTERO DI POMAIA, DOVE HANNO STUDIATO BUDDHA ANCHE RICHARD GERE E MARCO COLUMBRO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
Un sindaco del Pds, una ventina di monaci guidati da un pisano. Ecco come si vive nel paese di mille cinquecento anime dove è stato riconosciuto come la reincarnazione di un santone vissuto nell' anno Mille.

Testo
Per qualche tempo ancora saltellerà sulla sua mountain bike, lungo il selciato di pietra del monastero di Pomaia, in mezzo alla campagna toscana. Guiderà l' Uomo Ragno sul video a colori del suo computerino. Indosserà felpe colorate e il capellino all' americana.
Ma nel giro di pochi mesi, Tenzin Dhonjang, bambino tibetano, figlio di una coppia di profughi emigrata in Canada, sarà costretto ad abbandonare la vivacità dei suoi sette anni, per lasciare il posto a tracce più antiche, al bagaglio "genetico" delle sue esistenze precedenti, quasi un millennio di vita secondo il ciclo della reincarnazione buddhista.
Tenzin è infatti un Lama, ventitreesima reincarnazione di Gomo Rinpoce, monaco e "santo" apparso per la prima volta intorno all' anno Mille. L' ha stabilito l' oracolo, entità suprema che ha la voce e il volto dei sommi "sacerdoti" tibetani. L' ha confermato lo stesso Dalai Lama (il papa dei buddhisti) scegliendo a caso in una ciotola di rame una pallina con il nome di Tenzin. Mentre è stata la mamma, Yanki-la, ultimogenita di Goma Rinpoce durante la sua ventiduesima reincarnazione, a scegliere Pomaia, il più importante centro del buddhismo italiano, in provincia di Pisa, per la cerimonia di consacrazione del bambino.
Qui nel 1985, era passato infatti l' "ex" Gomo Rinpoce, nonno di Tenzin, prima di "lasciare il corpo". Qui ci sono ancora gli oggetti che gli appartennero e che il vecchio Lama disse "tornerò presto a prendere", indicando così la sede geografica della sua successiva consacrazione.
In Italia la cerimonia che il 7 settembre ha trasformato il piccolo Tenzin in Lama è stata un evento senza precedenti, celebrato, tra ali di folla, giornalisti, simpatizzanti buddhisti, praticanti e curiosi arrivati da tutte le regioni. A intonare i mantra rituali c' era pure il Lama Zama Rinpoce, direttore della più importante rete internazionale di centri buddhisti, mentre il bambino alternava momenti di raccoglimento a sbadigli, sotto il saio giallo e bordeaux. La consacrazione fa di lui un "uomo santo", destinato ai rigori filosofici e religiosi del monastero di Sera Jhe, in India, dove Tenzin tra qualche tempo andrà per completare il cammino verso il "Dharma", la giusta via dei buddhisti.
Pomaia è la sua prima tappa verso l' Illuminazione. Il centro, fondato da Lama Yesce e Lama Zopa Rinpoce nel 1976, è ospitato in un castello restaurato d' inizio secolo, in mezzo a un giardino seminato di "stupe", gli altari votivi a forma di campana che simboleggiano i quattro elementi, terra, aria, fuoco e acqua.
Residenza ufficiale del Lama Ghesce Ciampa Giazto, l' istituto è un crocevia di seguaci che arrivano da tutte le parti d' Italia, e anche dall' estero. Richard Gere, per esempio, è stato qui. Come Marco Columbro e la cantante Ivana Spagna.
Arrivano i seguaci attratti dai corsi del maestro, o semplicemente per dedicarsi ai ritiri, e alle terapie psicofisiche come lo shatzu, lo yoga, il tai-chi. In soli o in coppia. Adulti e bambini. Laici e monaci ordinati secondo i voti buddhisti. L' attuale direttore del centro, Massimo Stordi, 37 anni, una gioventù vissuta tra la casa di famiglia a Volterra e l' Università di Pisa, prima di approdare in India, è per esempio egli stesso un monaco. Mostra la veste, gialla e bordeaux come quella del piccolo Tenzin. Ha la testa rasata, il tono di voce basso e paziente che si usa con i profani: "L' istituto riconosce il Dalai Lama come guida spirituale", spiega, "e segue gli insegnamenti del maestro Tzong Kapa, vissuto nel quattordicesimo secolo". In termini teoretici, gli insegnamenti applicati a Pomaia si rifanno alla tradizione tramandata nelle regioni del Tibet, prima che l' invasione cinese di 40 anni fa mettesse sotto assedio la comunità obbligando i monaci a fuggire. Tradizione che in Italia conta 30 mila praticanti, associati all' Ubi, l' Unione buddhista italiana, organismo ufficialmente riconosciuto dal nostro governo.
Gli altri, 60 mila o 70 mila membri , classificati tra i seguaci della scuola giapponese Soka Gakkai, tra i devoti di Sai Baba, i fedeli di Krishna, i "sannyasin" di Osho Rajnees, fanno parte della galassia, ma non sono riconosciuti come buddhisti a tutti gli effetti. "Il buddhismo tibetano è la forma più completa che esiste al mondo", ribadisce Massimo Stordi quando gli si parla di altre scuole e altri gruppi.
I monaci a Pomaia sono quasi una ventina. Nel giardino attorno al castello, passeggia Giusy, 38 anni, i capelli grigi, quasi a zero.
Arriva da Roma. "Lavoravo come impiegata prima di diventare buddhista", dice con semplicità. La sua storia individuale, come quella degli altri di Pomaia, reduci chi da esperienze di estrema sinistra, chi da tossicodipendenza, chi da storie familiari travagliate, scompare in una "ricerca personale", intima e privata.
Ha preso i voti nel 1985 quando a Pomaia è arrivato Goma Rinpoce, il nonno di Tenzin, affascinata tra danze, rituali e insegnamenti.
Esser monaca significa rispettare i voti, alcuni interiori e segreti, altri comuni a tutti i monaci, come non uccidere, non avere rapporti sessuali. "Portare il saio, non usare gioielli, vivere a contatto con la natura, sono gesti simbolici, importanti, perché permettono, spiega, di "scacciare dalla propria esistenza le emozioni che turbano, che sconvolgono la mente e fanno a pezzi l' equilibrio". Quello che lei ha trovato nel buddhismo è "solo un modo per stare un pochino meglio, proteggere la mente dalla confusione a cui tutti, oggi, siamo condannati". Oltre il giardino, più in alto sulla collina, si affaccia Pomaia, 300 anime nel comune di Santa Luce che in tutto ne fa mille e cinquecento. Proprio dietro la piazza, in un' antica palazzina a due piani con il porticato ad archi, vive Giamilia Carli, sindaco pidiessino del comune. Ha 33 anni, una laurea in legge e una carriera giocata con passione tutta nell' amministrazione comunale: prima consigliere, poi assessore, e nel 1993 sindaco eletto con la nuova legge. Giamilia non è buddhista, ma guarda con affetto e amicizia quelli che "praticano".
"L' istituto è diventato il cuore del Paese", dice. "E' una fonte di richiamo e di arricchimento culturale per tutti". Tra i libri esposti in salotto, il sindaco mostra la collezione intera delle opere di Hermann Hesse e alcuni testi sacri del buddhismo che gli sono stati regalati proprio da Massimo Stordi. "In mezzo ai buddhisti che frequentano il centro c' è gente come Renato Scilli, oculista famoso di Pisa, ci sono famiglie che si sono trasferite da altre parti d' Italia e si mantengono con i lavori più diversi: falegnameria, giardinaggio, antiquariato, oggettistica. I loro bambini frequentano le nostre scuole. E tra poco avremo anche il piccolo Tenzin". Un Lama non capita tutti i giorni. Ma i percorsi del Dharma sono infiniti.




Testata
Epoca

Data pubbl.
30/07/95

Numero
30

Pagina
88

Titolo
E VI RICORDATE IL CASO JIMMY? ADESSO ...

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Una ragazza uccisa a Clusone, vicino a Bergamo. L' amante subito arrestato per il delitto. Pareva una storia chiusa. Ma due anni dopo il giallo si riapre. E compare il signor X.

Didascalia
1 - L' ACCUSATO
Gianmaria Negri Bevilacqua detto Jimmy, 27 anni. Contro di lui
indizi, ma nessuna superprova.
2 - LA CASA DOVE E' AVVENUTO L'OMICIDIO
La palazzina di Clusone, a 40 chilometri da Bergamo, dove nella
notte del 31 luglio 1993 è stata uccisa Laura Bigoni. La ragazza
lavorava a Milano, nel paese lombardo trascorreva le vacanze.
3 - LA VITTIMA: ACCOLTELLATA NEL SUO LETTO
Laura Bigoni, uccisa con nove coltellate. L' omicida ha poi cercato
di dar fuoco al cadavere con una bomboletta di lacca. La ragazza,
che aveva 23 anni, era un' addetta alle pulizie del Comune di Milano.

Testo
Due misteri. Uno presto risolto, una coppia di braccialetti ritrovati al cimitero. L' altro invece tutto da svelare, l' ombra di un uomo nel portone la notte del delitto. Per questi due misteri torna alla ribalta un giallo che sembrava dimenticato: l' omicidio di Laura Bigoni, 23 anni, addetta alle pulizie del Comune di Milano, accoltellata la notte tra il 31 luglio e l'1 agosto di due anni fa nella sua casa di villeggiatura di Clusone, in val Seriana, a 40 chilometri da Bergamo. Un thrilling di mezz'estate che non ha niente da invidiare agli altri grandi gialli insoluti, a cominciare da quello dell' Olgiata.
Sembrava che il mistero sulla morte di Laura fosse stato chiarito, sembrava fosse stato immediatamente individuato e sbattuto in galera il presunto assassino: Gianmaria Negri Bevilacqua, detto Jimmy, 25 anni all' epoca del delitto, protagonista di un triangolo amoroso, che vedeva da un lato la ragazza uccisa nel ruolo di amante, dall' altro una seconda donna, Vanna Scaricabarozzi, in quello di fidanzata ufficiale.
Per due anni l' inchiesta, nelle mani di Maria Vittoria Isella, pubblico ministero di Bergamo, si è concentrata su Jimmy, sul filo di un' accusa costruita come un "teorema", ma indimostrabile: un cumulo di indizi, infatti, però nessuna prova. Al punto che lo stesso magistrato, scaduti i termini delle indagini, è stato costretto a chiedere un secondo anno di proroga.
I braccialetti ritrovati qualche settimana fa (una mano misteriosa li aveva deposti nella notte sulla tomba di Laura Bigoni) sembravano aprire una pista. Era stato Jimmy a metterli? Segno di pentimento? Oggetti rituali, vista la dichiarata passione del giovane per lo spiritismo? O erano le tracce di un altro uomo? No. I due braccialetti, ritrovati dallo zio di Laura, Giovanni Facchi, un piccolo imprenditore di Clusone che sull' omicidio non ha mai risparmiato dichiarazioni a caldo e a freddo, sono stati smarriti da chissà chi. Una donna del paese ha infatti raccontato ai carabinieri di essere stata lei ad appoggiare i monili sulla tomba: li aveva trovati camminando in un vialetto del cimitero.
Un mistero si sgonfia, ma salta fuori un altro elemento finora trascurato. Che potrebbe capovolgere totalmente il "teorema" dell' accusa.
Perché c' è un secondo uomo, una sagoma scura intravista poco prima del delitto nell' atrio della casa di Laura. Che fosse Jimmy anche i carabinieri di Clusone lo escludono: "La corporatura e la fisionomia non corrispondono a quella del ragazzo". Chi era allora? E cosa faceva lì quella notte? I carabinieri non aggiungono altro. Di certo dopo due anni di indagini, decine di testimoni interrogati, cumuli di indizi raccolti, l' uomo dell' atrio è ancora un'ombra senza volto.
Una delle tante ombre peraltro che si aggirano a Clusone quella tragica notte del 31 luglio 1993. Notte di fuoco, sotto tutti gli aspetti. Già il pomeriggio è andato male. Laura l' ha passato con Jimmy a Clusone, dove trascorre le vacanze da sola nella casa dei genitori. Hanno litigato. E non deve essere la prima volta. Jimmy, pur essendo fidanzato con Vanna (fanno progetti di matrimonio, hanno comprato casa a Cesano Maderno), non vuole rinunciare all' altra donna. Si destreggia malamente, tra bugie, inganni e promesse non mantenute, come quella di portare Laura a Montecarlo.
Dopo il litigio va via, da Vanna, a Milano, mentre Laura si prepara a trascorrere la serata in discoteca, alle "Colline verdi" di Clusone. Le dà un passaggio un posteggiatore del paese, Franco Serturini. E in discoteca Laura subito rimedia un accompagnatore, Marco Conti, orecchino ai lobi, identificato dai testimoni come "biondino", nonostante biondino non sia. Escono assieme lui e Laura, vogliono trascorrere la notte in casa di lei. Ma arrivati alla villetta, vedono una luce accesa al primo piano. Laura non si stupisce più di tanto, comunque suggerisce di appartarsi nel bosco.
Al ritorno dal tete-a-tete, la luce in casa è ancora accesa. Laura saluta il "biondino", dirigendosi verso le scale. E qui, secondo la ricostruzione del ragazzo, appare l' ombra nell' atrio, quel secondo uomo al quale gli investigatori non sono riusciti a dare un nome.
Il resto è un cadavere trafitto da nove coltellate, su un materasso che brucia a fuoco lento. L' assassino ha infatti tentato di incendiarlo con una bomboletta di lacca.
Il pm Isella, 38 anni, magra, nervosa, irascibile, si orienta subito verso Jimmy. Tra lei e il ragazzo è muro contro muro, ma il giudice sembra non aver dubbi: Jimmy ha ucciso per gelosia. L' alibi del giovane non regge: avrebbe passato la notte a Milano con Vanna, che conferma ma si contraddice. Dichiara prima di avere il sonno leggero, poi di averlo pesante, cosicché lui potrebbe essere uscito di notte o chissà... A Clusone, poi, c' è una barista che sostiene di aver visto alle tre di notte una bionda con aria sconvolta vicino a casa di Laura. Potrebbe essere Vanna, complice di Jimmy... Una bionda con i capelli lunghi. Al riconoscimento da parte della testimone, Vanna si presenta però con i capelli corti. Tagliati per l' occasione? Nella notte più lunga di Clusone, appaiono anche una jeep scura accanto alla casa di Laura, un taxi targato Milano con due persone a bordo... Jimmy e Vanna? Un tassista finisce sotto accusa per falsa testimonianza. Ma continuano a mancare prove schiaccianti contro Jimmy. Certo, ci sono i suoi strani comportamenti del giorno successivo al delitto. Come la telefonata fatta a casa di Laura, pur sapendo che la ragazza sarebbe dovuta andare in montagna. Jimmy non riattacca quando sente una voce estranea. Apprende della morte e come se niente fosse va al lago con Vanna. Si dispera dopo, quando i carabinieri andranno a prenderlo per arrestarlo. Secondo l' accusa, poi, l' assassino conosceva bene l' appartamento di Laura: è andato in cucina, ha preso un coltello. E Jimmy per l' appunto era di casa, sapeva dove Laura teneva le chiavi.
Non basta. L' assassino doveva essere pratico di liquidi infiammabili come la lacca con la quale ha tentato di bruciare il materasso. E, guarda caso, Jimmy aveva lavorato con i vigili del fuoco... Il ragazzo finisce in galera. Ci resta quattro mesi, fino al 6 dicembre 1993, quando viene scarcerato per scadenza dei termini. L'esame del Dna su una macchia di sangue ritrovata sui suoi pantaloni non offre nessun elemento contro di lui.
Ma il teorema resta. "Rinvio a giudizio?", commenta l' avvocato Vinicio Nardo, dello studio Saponara di Milano, difensore di Jimmy.
"Ce l' aspettiamo. Tenendo conto dei tempi tecnici, dovrebbe arrivare a fine ottobre. Ma non lo temiamo".
E per Vanna Scaricabarozzi, quieta impiegata presso uno studio di odontoiatria? Gli investigatori vanno giù pesanti: secondo loro l' accusa potrebbe essere di favoreggiamento o addirittura concorso in omicidio. "La sua posizione è legata a quella di Jimmy", dicono.
"Impossibile che lui sia uscito la notte di casa senza che Vanna se ne sia accorta". Sempre che il "teorema", come lo chiamano gli stessi investigatori, continui a reggere.




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/07/95

Numero
29

Pagina
14

Titolo
TUTTA LA VERITA' SULL' ITALIANO CHE STA SFIDANDO CHIRAC

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
Inchiesta speciale Da Ischia a Mururoa: storia di Mimmo Casa, l' ecoguerriero capomacchina sulla Rainbow Warrior II di Greenpeace

Didascalia
La sorella di Mimmo, Susanna, e la mamma Maria.
L' ecoguerriero italiano è con Greenpeace come motorista nel
1993.
Al corso di sub a Livorno.
Con la fidanzata spagnola Salude.
Con alcuni commilitoni "tifosi".
Mimmo Casa, 28 anni, di Ischia, è il primo a sinistra.
Con alcuni compagni a bordo della bananiera "Dole".
Durante il militare in Marina alla capitaneria di Ischia.
Il suo sogno era fare la guardia costiera nella Marina americana.
Mimmo a 4 anni al mare.

Testo
Un po' Masaniello, un po' avventuriero. Sicuramente ragazzo di spirito, Mimmo Casa, 28 anni, originario di Ischia, e numero tre della Rainbow Warrior II, la nave di Greenpeace partita lo scorso giugno per le acque della Polinesia a protestare contro le otto esplosioni nucleari annunciate da Chirac. "Che ce so' andato a fare a Mururoa?", ha detto al procuratore francese che lo interrogava. "A piglia' nu pocu de sole e de plutonio". Il momento, lunedì 9 luglio, non era dei più adatti alle battute, l' esercito francese aveva speronato la nave, stordito l' equipaggio con i lacrimogeni, catturato i pacifisti che tentavano di raggiungere l' atollo con un gommone, ma Mimmo, pare, non perde mai il suo usuale buonumore.
Unico italiano ad aver preso parte alla spedizione anti-nucleare, l' ecoguerriero che per oltre un mese ha documentato via satellite alla stampa la crociata della Rainbow Warrior II, sotto questo punto di vista ha una storia tutta da raccontare. Che non comincia affatto con l' impegno civile e le sfida a Chirac.
Nato a Ischia e non a caso. "Una famiglia di naviganti", dice la madre, Maria, 58 anni, casalinga. Il nonno, Gino, è già lui una leggenda. Capitano di lungo corso, barbone bianco, viso sempre abbronzato, passa le ore a raccontare ai numerosi nipoti le sue avventure per il mondo. "Mimmo cresce che sembra un Tornado", dice la madre. "Non sta fermo un attimo".
Rimane orfano di padre a 7 anni, insieme alla sorella più giovane Susanna. I parenti paterni gli destinano un posto in azienda, una ditta di trasporti. E il bambino ci prova. A 11 anni comincia a darsi da fare, con piccole commissioni. A 14 decide di studiare ragioneria mentre lavora. "Ma non era la sua strada", lo giustifica la madre. Più divertente il militare: tre anni in Marina, alla capitaneria di Ischia. E la prima vera infatuazione. L' ecoguerriero di oggi sogna all' epoca di fare il guerriero e basta. Ha simpatie di destra e non sa ancora di possedere un' anima pacifista... Tenta così di entrare all' accademia navale di Livorno, ma riesce solo a prendere il brevetto di sommozzatore (anche se con i "duri" del Consubin, la punta di diamante della Marina italiana). Col brevetto, al porto di Ischia, si occupa del recupero delle ancore. "Qualcuna la annodava lui, apposta per poi avere da lavorare", ride la cugina, Giulia Razzano, 34 anni, amica di infanzia e scorribande, ambientalista convinta. Ma l' isola per Mimmo comincia a diventare una gabbia. I piccoli eroismi dell' adolescenza, la mamma li elenca tutti, non bastano più: "Scalava la casa arrampicandosi con le funi. Lo chiamavano Grisù perché non c' era incendio che non lo vedesse in prima linea insieme alla forestale. Correva con la moto da far paura...". Cominciano i viaggi, Germania, Francia, Grecia (in bicicletta) e i nuovi lavori. Poi tenta il salto negli Stati Uniti.
"Il suo sogno", è la cugina che parla, "era quello di entrare nella guardia costiera americana". A Washington vive il marito di una zia che fa il generale e che gli ha promesso una mano. Ma il progetto fallisce, perché si scopre all' ultimo momento che l' accesso alla divisa non è previsto per gli stranieri. Mimmo torna in patria e si imbarca a Genova su una bananiera della Dole che fa la spola con l' Ecuador. "Andata e ritorno, ritorno e andata. Fatto sta che si stufa", dice la sorella, Susanna. Raggiunge a San Pedro, in California, il cugino Gino: stessi sogni, stesse avventure, stesso motoclub, quello dei "Lupi arrapati" di Ischia. Ma poco dopo è costretto a tornare in patria.
A quel punto, è il 1993, scatta la folgorazione per Greenpeace.
Ricorda la madre: "E' stata una trasmissione tivù: la vede e decide di mandare il suo curriculum". Mimmo vanta buone esperienze come sommozzatore e sottufficiale di marina. Al telefono, durante i primi colloqui con l' organizzazione pacifista è brillante, spiritoso, estroverso. Lo prendono sulla MobyDick a pattugliare le coste italiane e spagnole contro le spadare. Mimmo non perde tempo: organizza subito una puntata a Ischia, con tanto di visita delle scolaresche a bordo, e nel frattempo si fidanza pure. Con Salude, una biologa spagnola, che a sentire i parenti "gli avrebbe fatto mettere la testa a posto", tanto che quando non è in viaggio vive con lei a Palma di Mallorca.
I pacifisti da parte loro sono entusiasti del giovane ischiano. Lo riprendono anche l' anno dopo sul Solo, per un giro nei mari del Nord. Anche stavolta senza incarichi direttivi. Ma ancora per poco.
Quando la Rainbow Warrior II decide di salpare per la Polinesia, Mimmo sale a bordo come ufficiale di macchina sulla nave che sarà destinata a mandare in crisi Chirac, tirandogli addosso la disapprovazione di mezzo mondo, compresa quella di Scalfaro e Dini, del cancelliere tedesco Kohl, dei premier della nuova Zelanda e dell' Australia. "Masaniello" si trova a essere compagno di avventura di personaggi come David Mac Taggart, ex presidente di Greenpeace, del vescovo dissidente Jacques Gaillot. Tutti i giornali parlano di lui, l' eroe italiano a Mururoa. Si prende sì "nu poco de sole e de plutonio", ma anche un bel gran momento di gloria.




Testata
Epoca

Data pubbl.
25/06/95

Numero
25

Pagina
54

Titolo
LE LETTERE NON ARRIVANO? PROVATE CON LORO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
Sono gli emissari delle Poste svizzere, che hanno appena aperto un ufficio a Milano. Sì, perché il caos del servizio attira in Italia la concorrenza. Anche dall' Honduras.

Didascalia
Un gruppo di addetti della Mondial Sped: è attraverso questa
società che le Poste svizzere stanno operando in Italia.

Testo
Volete spedire una lettera da Milano a Londra, a Tokyo oppure a New York? Mandatela via Zurigo, le Poste svizzere se ne faranno carico.
Basta mettersi in contatto con un ufficio appena aperto a Milano. Lì si occuperanno di raccogliere la corrispondenza, trasportarla in Svizzera e smistarla in tutto il mondo.
Sì, le Poste svizzere sono sbarcate in Italia. Sono le prime a farlo. Almeno ufficialmente. Perché da tempo parecchi stranieri provano l' assalto al nostro mercato, considerato tra i più lenti e inaffidabili d' Europa: le Poste olandesi, danesi, britanniche, oltre a un numero difficilmente calcolabile di società private che hanno creato una rete capillare di "re-mail", cioè un sistema di rispedizione che scavalca le Poste italiane appoggiandosi direttamente alle straniere.
Effetto della "deregolamentazione" europea, che sottrae spazio agli enti statali e ne mette in crisi in molti Paesi il monopolio. Ma in Italia è anche conseguenza dello sfascio delle Poste pubbliche: lettere recapitate in ritardo, ben oltre i 3,6 giorni di media calcolati nelle statistiche ufficiali per la corrispondenza interna; buste sgualcite; tonnellate di corrispondenza abbandonata nei magazzini, per non parlare di quella che sparisce. Tanto che, assieme alle interrogazioni parlamentari, cominciano a partire denunce alla magistratura da parte di associazioni di utenti, che lamentano come i disservizi provochino danni gravi ai cittadini. Su un traffico annuo di quasi 6 miliardi di pezzi (dati ' 94) "sono andati persi negli ultimi quattro anni un miliardo e 200 milioni tra lettere, stampati, pacchi", dice Renato Russo, vicepresidente dell' Usfi, l' Unione stampa filatelica italiana.
Benvenute allora le Poste pubbliche estere. O le società private. Ma fino a che punto? Epoca ha voluto dare un' occhiata ai servizi di "re-mail". Scoprendo un mercato ricco di dinamismo e prospettive.
Che rischia però di trasformarsi in una giungla.
Le ultime arrivate, come abbiamo visto, sono le Poste svizzere.
Avendo a che fare con un monopolio, si occupano solo della corrispondenza per l' estero (è assolutamente vietato il "re-mail" dall' Italia per l' Italia). Come piazza di prova, hanno scelto la Lombardia, dove si concentra il 19 per cento del traffico nazionale.
Non operano direttamente, ma attraverso una società privata, la Mondial Sped, collegata a una holding svizzera, la Mondial Transport, a sua volta legata alle Poste elvetiche. "I nostri clienti sono soprattutto aziende, ma non escludiamo i privati", dice Silvano Gilgen, amministratore della Mondial Sped. Il sistema prevede la raccolta di corrispondenza a domicilio, quindi la spedizione: "I carichi partono due volte al giorno da Milano.
Arrivano a Chiasso e da lì in quattro, cinque ore a Zurigo, dove vengono consegnati alle Poste svizzere e quindi distribuiti in tutto il mondo". I vantaggi? Si misurano in termini di qualità e rapidità: da 1 a 5 giorni per la consegna della corrispondenza d' affari, 10 per quella non urgente. Sulle tariffe Renzo Spada, procuratore della società a Milano, non si sbilancia: "Dipende dagli accordi che si fanno con i clienti". A differenza delle Poste italiane, dove vige il principio della non flessibilità, la società svizzera, come chiunque lavori sul "re-mail", varia le tariffe a seconda della quantità di corrispondenza. Il servizio dunque è più vantaggioso per le aziende che hanno grandi carichi, meno per i privati che pagano dal 5 al 15 per cento in più rispetto alle tariffe postali italiane.
Gli stessi amministratori della Mondial Sped lo definiscono un sistema "a metà strada tra quello dei corrieri capaci di recapitare la posta entro 48 ore in tutto il mondo, a prezzo più alto, e le Poste statali, a buon mercato, ma molto lente". Un sistema che dovrebbe fruttare parecchio. La Mondial Sped punta infatti al 5 per cento del mercato lombardo in tre anni. Più o meno 50 miliardi.
Dovrà però affrontare una concorrenza scatenata. Tra gli enti pubblici, le Poste olandesi, forti di una propria flotta aerea e di una fama che le indica tra le più efficienti del mondo (24 ore per recapitare la corrispondenza urgente), per ora mirano a rilevare da quelle italiane la gestione dei corrieri, cioè i recapiti veloci entro 48 ore. In prospettiva aprirebbero uffici a Milano, Roma, Firenze. Tra i privati, il "re-mail" è adottato da un paio d' anni da società come la Tnt-Mailfast, di proprietà per metà del colosso australiano Tnt e per metà di un consorzio formato appunto da Poste estere: canadesi, tedesche, francesi, svedesi... Tra i clienti della Mailfast ci sono banche come il Credito italiano, aziende come l' Agip, enti fieristici e congressuali, università e persino ordini religiosi come i Carmelitani scalzi: "La corrispondenza viene spedita all' estero in aereo e smistata attraverso i 60 centri che abbiamo in tutto il mondo", dice Alessandra Sacchetti, dirigente del gruppo. "E' poi affidata alle Poste estere che la fanno arrivare a destinazione". Garanzie sui tempi? "Darle in assoluto è da pazzi.
Siamo comunque in linea con le Poste più efficienti". In altre parole: dai 3 ai 6 giorni per l' Europa, 10 per il resto del mondo.
E la Tnt-Mailfast assicura un risparmio medio del 15 per cento rispetto alle tariffe italiane.
C' è qualcuno che fa promesse ancora più allettanti. Ma a quali condizioni? Renato Russo, vicepresidente dell' Usfi, lo spiega: "Attenti. Il mercato è congestionato da società improvvisate che trasportano sì carichi all' estero a prezzi anche convenienti, ma spesso non hanno né i mezzi né le autorizzazioni". Sopravvivono grazie al fatto che operano in una fascia grigia dove le regole non sono chiare. E dove c' è anche chi viola quelle basilari, sfidando addirittura il monopolio di Stato. Nonostante sia vietatissimo, sono molti i casi di società che raccolgono la posta in Italia, la portano all' estero e da lì la riavviano verso il nostro Paese.
Sembra incredibile, eppure questa strana triangolazione all' apparenza può offrire vantaggi. In termini di tempo e soprattutto di tariffe, specie se si sfruttano i sistemi postali di Paesi del Terzo mondo, che in media offrono ribassi del 25 per cento.
RISCHIO FORTE Sì, perché qui c' è una sorpresa. Chiunque voglia inoltrare la sua corrispondenza tramite "re-mail", come prima cosa farebbe bene a informarsi sul circuito postale che verrà utilizzato.
Per tagliare i costi, molte società a insaputa del cliente "imbucano" nell' ex Iugoslavia, nell' ex Unione sovietica o in Paesi come Honduras o Costa Rica. Altre usano sistemi misti: servizi postali di Paesi europei insieme con quelli di Paesi meno sviluppati. Si risparmia, sì, ma il rischio è grande. "In passato l' abbiamo fatto pure noi", ammette Marco Lavanna, amministratore della Sky-Express, società che fa capo alla multinazionale Sky-net Worlwide Express, e che in Italia ha uffici a Roma, Milano e Firenze. "Ma abbiamo dovuto smettere. Usare i sistemi postali di certi Paesi significa non poter assicurare nulla: nemmeno che la posta arrivi". Oggi la Sky-Express opera solo su Poste "sicure" come le danesi, le inglesi e le statunitensi. Clienti preferiti: gli anglosassoni con residenza in Italia. Per loro, la società ha creato a Roma sei punti di raccolta della corrispondenza: dal ristorante americano "Mister George" alla libreria internazionale Economic Book. Anche per la Sky Express i costi da applicare ai clienti sono variabili.
E le Poste italiane? Tre anni fa, con un discusso contratto, diedero in concessione alla Send Italia il monopolio del recapito di espressi e telegrammi. Oggi quel contratto non c' è più. Ma i vertici dell' ente, disastrato economicamente (3.300 miliardi il deficit riportato l' anno scorso nella relazione della commissione tecnica del ministero del Tesoro) e altrettanto malmesso dal punto di vista del servizio fornito, almeno a parole non sembrano contrari a queste invasioni di campo. "Si va verso la liberalizzazione", dice Vincenzo Martini della divisione business delle Poste. "Non possiamo che essere d' accordo. Sì, dobbiamo recuperare qualità, produttività, ma...". Si rimanda al futuro. Nel 1996 l' Ente poste dovrebbe trasformarsi in società per azioni. E allora si vedrà.




Testata
Epoca

Data pubbl.
04/06/95

Numero
22

Pagina
110

Titolo
SIGNORINA MIKULA, MI FAREBBE UN CAFFE'?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA ESCLUSIVO

Sommario
Adesso la "donna del bandito" fa la barista. Lavora a Rimini, in un pub aperto tutta la notte. E i suoi conti con la giustizia? Tutt' altro che risolti. Ecco che cosa potrà succedere a una ventenne che sembrava una vittima, poi si è sospettato fosse una "belva" e che adesso...

Didascalia
L' ingresso dello Shamal, il pub-pizzeria di Miramare di Rimini,
dove Eva Mikula (19 anni) da qualche settimana lavora come barista.
Eva Mikula al bancone dello Shamal. Ungherese, ha fatto la
lavapiatti a Budapest fino all' aprile del 1992. Poi ha conosciuto
Fabio Savi, il killer della Uno bianca, che l' ha portata in
Italia. Savi è accusato di aver ucciso 23 persone.
Eva Mikula lavora allo Shamal solo di sera, dalle 19 fino all' alba.
La ragazza ha evitato l' arresto collaborando con i giudici.
La Mikula ha vissuto a spese dello Stato (un milione al mese) e
protetta dalla polizia. Era agli arresti domiciliari, sospesi per
lavorare.
La ragazza con un amico. Tra i sospetti che pesano su di lei anche
il traffico d' armi e la ricettazione di denaro frutto di rapine.

Testo
Eva Mikula la donna del mistero, la bambolona ossigenata dai tacchi a spillo e calze a rete, compagna vittima o forse complice di Fabio Savi, uno dei fratelli-assassini della banda della Uno bianca, lascia gli arresti domiciliari e riappare sulla Riviera romagnola.
Stavolta come barista, dietro ai banconi di un pub, lo Shamal di Miramare di Rimini, dove dispensa sorrisi e bevande ai giovani avventori di provincia.
Un' apparizione a sorpresa, che non è affatto un lieto fine.
Nonostante non sia più agli arresti domiciliari, oltre il cumulo dei sospetti nati dalla sua relazione con il killer (complice dei Savi? Cassiera della banda? Spia manovrata da chissà quali servizi segreti?), pesa su di lei la minaccia concretissima di un rinvio a giudizio per traffico d' armi, possesso di documenti falsi e ricettazione. Ma per il momento Eva non sembra curarsene. Dopo i mesi trascorsi ad amministrare e vendere in più versioni la propria immagine, un po' Nikita, un po' finta tonta, un po' sex-symbol, la "donna del boss" sembra solo preoccupatadiritornare nell' anonimato e "darsi da fare", come dice il suo avvocato Paolo Masini, "per guadagnarsi da vivere". Appesantita da qualche chilo, porta occhialini da vista, jeans e camicia di cotone al posto della minigonna, ha preso in affitto un seminterrato (700 mila lire al mese) a Rimini e va in giro su uno "scooterone".
Quanto all' ingaggio come barista, il signor Pozzi, proprietario dello Shamal, non si lamenta. Uomo di poche parole e lunghe vedute (sono in tanti i pub della Riviera che si disputano Eva), si limita a commentare: "La vita privata? Affare suo. Basta che sappia fare il suo lavoro". Niente da ridire: la Mikula si presenta puntuale ogni sera alle sette e va avanti fino a mattino inoltrato.
Per la gioia degli avventori, che la trattano da mascotte e sono pronti a farle scudo (basta che sospiri "non ne posso più") a ogni incursione di giornalisti e fotografi. Incursioni che irritano molto anche il suo legale: "Se continua la ressa", dice l' avvocato Masini, "la mia cliente sarà costretta a smettere di lavorare".
Questione di privacy, ma non solo. C' è di mezzo, per Eva Mikula, una posizione giudiziaria ancora tutta da chiarire. Da grande accusatrice della banda della Uno bianca (a carico dei fratelli Savi ci sono 23 morti e 90 feriti), ad accusata. "Collaboratrice" di giustizia subito dopo l' arresto dei Savi, era riuscita a evitare le manette. Il Servizio centrale operativo di Roma le aveva dato cinque poliziotti di scorta, nascondigli segreti (dai quali l' hanno lasciata uscire per vendere le sue interviste) e un milione di stipendio al mese. Scarsa fiducia nel suo ruolo di pentita, o eccessivo onere per lo Stato, fatto sta che a un certo punto le è stata tolta la protezione, sostituita il 20 marzo da un ordine di arresto domiciliare. Con una concessione: la possibilità di allontanarsi da casa due volte la settimana per "provvedere al proprio sostentamento". Ultimo passaggio: la sospensione degli arresti, concessa dal gip di Rimini, Eugenio Centro, con parere favorevole del sostituto procuratore Daniele Paci. "Doveva pur guadagnarsi da vivere", ribadisce il suo legale.
Ancora per poco. E' lo stesso giudice Paci ad aver chiesto il rinvio a giudizio: "La si accusa di aver fatto da interprete con i trafficanti dei Paesi dell' est quando il suo compagno andava a far rifornimento di armi, di detenzione e uso di passaporti falsi e ricettazione di una quarantina di milioni ricavati dalle rapine dei Savi", spiega il magistrato. E non è tutto. Altri guai per la Mikula sono in arrivo pure dalla procura di Pesaro. Eva avrebbe partecipato con Fabio Savi a un sopralluogo a una banca, dove il 24 maggio 1994 sarebbe stato poi ammazzato un impiegato, Ubaldo Paci. Il sostituto procuratore Gaetano Savoldelli Pedrocchi non si sbilancia: "La posizione della Mikula per ora è stata stralciata. Ma non certo archiviata. Dobbiamo ancora capire se era lì casualmente come compagna di Savi o come complice".
Vittima o complice, dietro le sue maschere Eva ha comunque le sue responsabilità. Gliel' hanno ricordato al processo che il 22 maggio si è aperto in Corte d' assise a Rimini per una parte dei crimini commessi dai Savi (rinviato a ottobre), i parenti in lacrime delle vittima della Uno bianca: "La Mikula sapeva tutto. Poteva evitare la strage. E non l' ha fatto".




Testata
Epoca

Data pubbl.
21/05/95

Numero
20

Pagina
16

Titolo
NOI, LE VITTIME DELLA UNO BIANCA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI STEFANO TORRIONE

Sezione
STORIE

Occhiello
ESCLUSIVO

Sommario
Venticinque morti e 104 feriti: è la lunga scia di sangue della banda dei poliziotti che ha scioccato l' Italia. A sei mesi dall' arresto dei fratelli Savi, i sopravvissuti agli agguati hanno fondato un' Associazione. Per chiedere giustizia. E perché nessuno debba più vivere incubi del genere. Ecco, per la prima volta, i loro racconti. Che fanno rabbrividire.

Didascalia
Foto di gruppo dell' Associazione vittime della Uno bianca. Il primo
a sinistra è l' avvocato Luciano Palmerio, uno degli otto legali che
sostiene l' azione delle famiglie colpite dalla follia omicida dei
killer di Bologna.

Testo
QUESTO SERVIZIO "Non uscire più di casa. Farsi crescere barba e baffi per non essere riconosciuti. Sobbalzare a ogni squillo del telefono. Portarsi dentro lo strazio della morte di un parente. O ferite addosso che magari ti condannano per sempre all' invalidità. Noi vittime della banda della Uno bianca sappiamo bene cos' è il terrore. L' abbiamo vissuto. Lo viviamo ancora". Parla Vito Tocci, carabiniere, quattro pallottole in corpo, scampato per un pelo alla morte in uno dei tanti agguati dei criminali che dal 1987 al 1994 hanno tenuto sotto tiro quattro province italiane: Bologna, Pesaro, Rimini e Forlì. A sei mesi dall' arresto dei fratelli Savi (Roberto e Alberto, poliziotti, Fabio camionista) e dei loro complici (Marino Occhipinti, Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta, tutti e tre in servizio alla Questura di Bologna), le vittime della banda hanno deciso di costituirsi in Associazione. Poliziotti o carabinieri come Tocci, ma soprattutto gente comune, commercianti, impiegati, commessi, operai, pensionati, extracomunitari. Parenti di morti ammazzati e sopravvissuti al delirio sanguinario di un gruppo di criminali che in pochi mesi ha lasciato sul selciato 25 morti e 104 feriti. Una strage senza ragione "per la quale adesso vogliamo che si scopra tutta la verità", dice il presidente dell' Associazione, Ada Di Campi, poliziotta ferita alle gambe nel 1987 durante una tentata estorsione. "Meglio, se in un processo unico. Non in quattro procure come si fa al momento". E non bastano le tre facce dei Savi dietro le sbarre: "Bisogna accertare tutte le responsabilità.
Chiediamo giustizia per tanto sangue versato". Ecco la storia di una follia omicida che ha sconvolto l' Italia. Raccontata dalle vittime della banda della Uno bianca.
ANCHE NOI SIAMO MORTI INSIEME A LUI Domenico Moneta, 60 anni (nella foto con la moglie Paola Colonnelli), padre di Andrea, 28 anni, uno dei tre carabinieri uccisi il 4 gennaio 1991 durante l' agguato al quartiere Pilastro di Bologna."E' come continuare a vivere in un mausoleo. Mia moglie ha voluto in salotto una foto di nostro figlio in divisa a grandezza naturale, su una sagoma di legno. Insieme ai suoi disegni, i ritratti, le macchinette della polizia con le quali giocava da bambino. E' questo che non mi dà pace. Andrea, per via del mio lavoro (sono stato poliziotto per 12 anni, poi dipendente della Presidenza del consiglio), è nato e cresciuto tra gente in divisa. E proprio dei poliziotti l' hanno ammazzato... L' ho incoraggiato quando è diventato carabiniere, volevo che si facesse le ossa per poi cercare un altro impiego. Di Bologna era stufo. Mi aveva chiesto di aiutarlo a cambiare sede. Ma l' ultima volta che l' ho sentito, erano le 4 del pomeriggio del giorno in cui l' hanno assassinato, mi ha detto: "Papà non ti preoccupare. Rimango per sempre a Bologna".
Già, per sempre... Qualche ora dopo una telefonata anonima: "Suo figlio è morto". Una risata e hanno riattaccato. Anche io e mia moglie siamo morti con lui, ridotti come vegetali. Non usciamo più di casa. Abbiamo paura. Perché? Io non condivido la tesi del pubblico ministero di Rimini, Daniele Paci. Lui dice che dietro ai Savi non c' è nessun altro. Di Pietro gli ha dato ragione. E proprio a Di Pietro ho scritto un biglietto, per invitarlo ad approfondire le indagini. Credo di più nella tesi del magistrato di Bologna, Giovanni Spinosa, che ritiene ci siano ancora zone d' ombra da indagare. Ho contattato politici, poliziotti, magistrati e la risposta è sempre la stessa: "Mah... vediamo... non sappiamo..." E il ministro dell' Interno? Perché non ci dà ascolto?".
IN QUESTURA SAPEVANO GIA'? Daniela Florio, 26 anni, ferita il 19 dicembre 1990 nel campo nomadi di Santa Margherita di Quarto, periferia di Bologna. "Per sfuggire ai killer mi sono dovuta trasformare in una zingara. Tre anni in giro per l' Italia soffrendo il freddo, la fame, la fatica. Ma non è bastato. Il fatto che la sera dell' agguato mi trovassi all' accampamento mi aveva trasformato in una "superteste". Perché ero lì? Ero andata a portare cibo e vestiti. Poi gli spari, una raffica di mitra mi ha trapassato l' inguine e il femore. Quando ho ripreso conoscenza ero all' ospedale. Poi è cominciata un' avventura allucinante. Ricevevo telefonate minatorie. Avevo paura, non sapevo a chi rivolgermi. Le condizioni fisiche peggioravano. Si è parlato persino di amputazione della gamba. I nomadi mi hanno offerto protezione. Così sono partita insieme a loro. Ma dovunque andassimo, a Padova, a Milano, a Roma, c' era sempre qualcuno che sparava sull' accampamento. Il 4 ottobre hanno sparato contro l' auto di mio padre. Non si è mai ripreso: è morto l' anno dopo. Quando sono tornata, un dirigente della Questura mi ha detto: "Va' via. Qui il giro è troppo losco". Sapevano già?".
ANCORA ADESSO CAMMINO A STENTO Alessandro Santini, 28 anni, ferito il 3 marzo 1994 durante la tentata rapina alla Banca cooperativa di Imola, di via Bainsizza, a Bologna. "A ricordarlo ora, quello che mi è capitato sembra una commedia dell' assurdo: qualcuno alle spalle con una pistola in mano che mi bloccava tra le due porte di ingresso della banca, io che tentavo di entrare nella filiale, quello che mi tratteneva, gli impiegati che volevano parlar con lui al citofono.
Poi il tonfo di uno sportello, fuori: era un operaio in strada che chiudeva il suo furgone. Il rapinatore ha avuto paura. Sono partiti i colpi. Due alle gambe, un terzo al braccio. Poi il rapinatore è fuggito. La gente adesso mi dice: "Beato tu". Beato, certo, in confronto a quelli che sono morti. Anche se zoppico, e cammino a stento. La cosa più sconcertante è sapere che almeno da un anno c' erano elementi sufficienti per arrivare all' identificazione della banda. Libero Gualtieri, ex presidente della commissione stragi, già nel 1991 aveva parlato di "schegge impazzite dello Stato". E se è vera la relazione dell' ex vicecapo della polizia Achille Serra, fatta dopo gli arresti, in Questura c' erano davvero tante "mele marce"".
ORMAI SONO UN MEZZO CARABINIERE Vito Tocci, 31 anni, carabiniere, vicepresidente dell' Associazione Vittime della Uno bianca. E' stato ferito il 30 aprile 1991 nell' agguato a Marebello, vicino a Rimini.
"Ormai sono un mezzo carabiniere. Niente incarichi operativi: i quattro proiettili che mi sono rimasti dentro, tra la spalla e l' ascella, non me lo permettono. Certo, poteva finir peggio. Era un agguato premeditato. Eravamo in una strettoia, al buio. Al primo colpo, devastante, ho pensato alla Uno bianca, ai killer di Bologna.
Secondo colpo, terzo colpo. I proiettili mi hanno colpito alla schiena. Bruciavano. Il vetro della nostra Ritmo era in frantumi.
Non si vedeva più nulla. Chiamavo la centrale via radio, ma non arrivava nessuno. Sul lungomare i killer si sono dileguati. E' stato l' autista a trasportare me e gli altri in ospedale. Otto mesi dopo sono tornato in servizio, o meglio, a mezzo servizio. In compenso c' è a chi questa storia è giovata. A Eva Mikula, la compagna di Fabio Savi, che fa la star, con il beneplacito delle istituzioni.
Addirittura scortata. Lei si dichiara pentita. Ma quando? Dopo che i Savi sono stati scoperti. Deve pagare anche lei".
HANNO UCCISO MIO FRATELLO E ROVINATO MIO NIPOTE Anna Poli, 53 anni, di Bologna, sorella di Carlo Poli, 40 anni, elettrauto morto dopo la tentata rapina alla banca di Riale di Zola Predosa (Bologna), il 7 ottobre 1993. "Ora provo una tale rabbia e amarezza a sapere che la banda della Uno bianca era fatta anche da poliziotti. Quelli che ci avrebbero dovuto tutelare... Un marciume così. Ma non riesco a capire il gioco che c' è dietro ai Savi. Dopo la morte di mio fratello, hanno arrestato Gian Luca Maurizzi, pregiudicato collegato alla malavita del Pilastro. Nessuno nella mia famiglia ha mai creduto che il killer fosse lui. Ma che cosa potevamo fare? Mio fratello aveva 40 anni, un lavoro in proprio come elettrauto, tanti progetti in testa, una casa da ristrutturare a Borgo Panigale. Ha lasciato un ragazzo di 17 anni che non dice più una parola, ha smesso di andare a scuola, non vuole neanche sentir parlare del padre. Un fratello, il maggiore di noi, 50 anni, 18 trascorsi a lavorare con Carlo in officina, che in piena crisi depressiva non ha retto al dolore: gli è venuto un ictus. Una moglie che oggi vive con 600 mila lire di pensione al mese. Due genitori anziani, ormai distrutti. Che cosa c' è da dire, a parte che vorremmo giustizia?".
HANNO DETTO A MIO MARITO: "DEVI MORIRE ... " Rosa Alessandri, 55 anni, vedova di Adolfo Alessandri, ucciso il 26 giugno 1989 durante l' assalto alla Coop di Corticella, Bologna. "Sono passati sei anni.
Io continuo a vivere nella stessa casa, con la finestra che dà proprio sul punto dove me l' hanno ammazzato. Ho il suo cippo lì, lo guardo tutte le mattine. Quel giorno ho sentito un boato spaventoso.
Poi lo spostamento d' aria. La poltrona camminava da sola per la stanza. Mio marito è corso verso casa. Ha visto due che sparavano dal terrazzo del supermercato, poi se li è trovati di fronte. Ha gridato: "Ma cosa fate, delinquenti?". E quelli: "Devi morire". Era in bicicletta. Mi sono affacciata alla finestra. Troppo tardi. Era a terra, in mezzo al sangue. Sì, è credibile che siano stati i Savi, ma non da soli. Si parlava di una decina di banditi. C' entra anche Marino Occhipinti. Era amico di mio figlio. Andavano al campo di calcio assieme, con i bambini. Al sabato sera erano con le mogli in pizzeria. Mio figlio diceva: "Questa zona è pericolosa per i bimbi, troppi extracomunitari". Ma lui lo rassicurava: "Non ti preoccupare: sono un poliziotto. Porto sempre la pistola". Già, la pistola".
IL MIO ANTONIO E' RIMASTO NOVE MESI IN AGONIA Gabriella Bianchini, 40 anni, vedova di Antonio Mosca, poliziotto, morto nove mesi dopo essere stato ferito durante il conflitto a fuoco del 4 ottobre 1987 al casello autostradale di Cesena. "Perché? Continuo a chiedermi quando penso ai Savi. Erano poliziotti, avevano un lavoro. Non erano morti di fame. Perché uccidevano? E le loro mogli, perché li hanno coperti? Sanno quanta gente avrebbero salvato, se avessero parlato? E chi doveva indagare, ha fatto veramente tutto quello che si doveva? Sì, aspetto che si faccia giustizia. Ma quale giustizia...
Mi hanno ammazzato il marito, un uomo che aveva 40 anni, faceva il poliziotto e ci credeva. Era ancora un ragazzo. Era troppo "forte", mio marito. L' avevo conosciuto quando lavoravo in aeroporto e lui stava di servizio lì. Napoletano. Un tipo riservato, che amava scegliersi gli amici, quelli di cui potersi fidare. L' ho visto morire a poco a poco. Un' agonia durata nove mesi. Le ferite alla spalla non guarivano mai. Poi è cresciuto un tumore, proprio lì dove l' avevano colpito. Oggi vivo con la sua pensione e i nostri due figli, di 17 anni uno, 16 l' altro, non parlano mai di lui".
IN TRIBUNALE HO SPUTATO IN FACCIA A SAVI Ada Di Campi, 30 anni, poliziotta, ferita il 4 ottobre 1987 al casello autostradale di Cesena mentre tentava di sventare l' estorsione a Savino Grosso.
"Quella notte fu un inferno. Ci sparavano a due metri di distanza con fucili a pallettoni. Che effetto fanno le pallottole in corpo? All' inizio è come un fuoco. Dopo perdi la sensibilità. Ricordo solo di aver pensato a mia madre e a Dio. Avevo 21 anni. Facevo la poliziotta da 3 mesi. Per questo lavoro avevo rinunciato a un posto all' Inps, a Brindisi, la mia città. Mi ero trasferita a Rimini, vivevo da sola. Finalmente autonoma. Ma quella notte sull' autostrada sono morti tutti i miei sogni. Ancora oggi sono sotto terapia: invalida al 70 per cento. Nel 1991 mi sono sposata.
L' anno dopo è nata mia figlia. Poi, a novembre scorso, è arrivata la notizia che a spararci erano stati dei colleghi. Alberto Savi aveva lavorato con me a Rimini. Lo credevo timido. Era uno che non ti guardava mai negli occhi. Poi mi sono chiesta: "Cosa ha pensato quando mi ha vista arrivare con le stampelle? Quando in ufficio scoppiavo a piangere?" L' ho incontrato in udienza e gli ho sputato in faccia. Lui ha abbassato gli occhi".
INTORNO A NOI SOLTANTO INDIFFERENZA Luigi Cenci, 32 anni, uno dei tre poliziotti feriti il 4 ottobre 1987 al casello autostradale di Cesena durante la tentata estorsione al commerciante di Rimini Savino Grosso. "L' agguato, le pallottole, il sangue... Ma il peggio, in un certo senso, è venuto dopo. Quando mi sono accorto che attorno a me e agli altri colleghi feriti c' era solo indifferenza.
Non un solo dirigente della Questura è venuto a trovarci in ospedale. In quei giorni è arrivato un ispettore del ministero degli Interni a "indagare" sul nostro ferimento. Belle indagini. Ha sentito tutti, tranne noi che stavamo in corsia. Nel 1990 ho chiesto un colloquio con il capo della polizia, Vincenzo Parisi. Non mi ha nemmeno ricevuto. Peggio ancora, la volta in cui ho accompagnato dal vicecapo Gabriella Bianchini la vedova di Antonio Mosca, il nostro collega morto dopo l' agguato al casello di Rimini dell' ottobre 1987. Era stata invitata personalmente. Rimini-Roma in autobus. Poi l' accoglienza: "Ci dispiace, ma il dottore oggi è impegnato". Dopo la morte di Mosca non ho avuto più voglia di lavorare al commissariato. Oggi faccio l' istruttore alla scuola di polizia di Senigallia, vicino al mio paese d' origine. I miei genitori sono molto più contenti".
L' HO VISTO MENTRE CERCAVA DI AMMAZZARMI Aniello Di Martino, 59 anni, direttore dell' ufficio postale di San Lorenzo di Riccione, preso d' assalto con una carica di tritolo il 7 luglio 1991. Di Martino è stato poi ferito, con il figlio, il 13 luglio, in un agguato. "Dio mio, una carica di tritolo per rapinare una ventina di milioni alla posta. Se non è terrorismo questo...
Ricordo il colpo secco, l' esplosione. Alla banca accanto pensavano fosse caduto un aereo. Poi fumo, calcinacci, il bancone antiproiettile spostato di un metro. E l' uomo a viso scoperto, come un fantasma, che cercava un varco per ammazzare me e le due impiegate. Una settimana dopo hanno tentato di uccidermi insieme a mio figlio, sotto casa. Ci sono ancora i segni dei proiettili sulla facciata della palazzina. Troppe stranezze in questa storia. Per esempio l' uomo che, subito dopo il tritolo all' ufficio postale, mi ha fermato qualificandosi come poliziotto. Continuava a chiedermi se avessi riconosciuto qualcuno. Che fosse uno di loro? Poi la Mikula.
Ha dichiarato ai giudici che spesso Fabio Savi tornando a casa le diceva di avermi incontrato al poligono di tiro. E' vero. Io frequentavo il poligono, ma ho smesso alla fine del 1991. La Mikula sostiene di essere arrivata in Italia ad aprile 1992. I tempi non corrispondono. Perché lei continua a mentire sul suo arrivo? E ancora, una strana telefonata, subito dopo l' agguato sotto casa. Ha risposto mia moglie, stavano zitti. Poi all' improvviso si è sentita in linea la radio della polizia. Era un indizio significativo, no?".




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/05/95

Numero
18

Pagina
112

Titolo
MA CHI PUO' FAR DEL MALE A BIMBI COSI'?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Neonati gettati nei cassonetti. Abbandonati sui gradini di una chiesa. Partoriti in casa e rifiutati da madri giovanissime... I casi di cronaca sono centinaia e aumentano di giorno in giorno. Tanto che ora un gruppo di assistenti sociali lancia un allarme: sconfiggere questo orrore è possibile. Con un' idea. 'Ogni anno 400 bambini vengono abbandonati dalle loro madri'

Testo
Gravidanze segrete, ragazzine che partoriscono in bagno, neonati soffocati in sacchetti di plastica, nascosti dentro gli armadi, gettati nei cassonetti della spazzatura, lasciati sui marciapiedi, davanti alle chiese, ai conventi, affidati alla pietà della gente o alla fortuna. A volte salvati per miracolo, a volte ritrovati troppo tardi, già morti. Sembrano storie di altri tempi, cattivi soggetti da romanzo d' appendice. Sono invece fatti di oggi, storie di abbandoni e infanticidi, a Roma come a Milano, a Pisa come a Terni, a Brescia come a Crotone. Talmente attuali da diventare oggetto di un convegno a Milano, dal 27 al 28 aprile, al quale sono intervenuti magistrati, medici, docenti universitari, psicologi, operatori sociali, tutti impegnati su un fenomeno che non è fatto solo di casi isolati o sporadici. Secondo gli ultimi dati disponibili del ministero di Grazia e giustizia, in Italia nel 1992 sono stati abbandonati dai genitori 390 minori, contro i 650 registrati nei due anni precedenti. Una cifra calcolata addirittura per difetto, basata sul numero di madri che hanno partorito in ospedale e che esclude quello di coloro che l' hanno fatto privatamente.
Figli della povertà, dell' ignoranza, della paura? Di stupri, incesti, gesti di incoscienza? "Non solo. Spesso vittime del caos che regna nelle istituzioni sanitarie. Della scarsa informazione sulle possibilità che una donna in difficoltà ha di trovare delle soluzioni a una maternità non desiderata. Esistono leggi fatte apposta per questo. Strutture che dovrebbero occuparsene. Solo che in molti casi non si conoscono, o comunque funzionano poco e male".
Frida Tomizzo, 45 anni ben portati, è una signora bionda, con un' aria da impegnata vecchio stampo che le danno i capelli corti e gli occhialini di metallo. Da oltre 20 anni fa l' assistente sociale. Prima per l' Anfaa, l' associazione nazionale delle famiglie adottive e affidatarie. Adesso anche per l' associazione Promozione sociale, il gruppo di volontariato torinese che si è occupato di organizzare il convegno di Milano. Convegno in cui si è parlato di "esigenze e diritti di gestanti, madri e neonati in difficoltà". Ma anche del ruolo che le istituzioni, gli operatori, il volontariato dovrebbero svolgere per garantire assistenza e protezione.
"Da anni mi occupo di minori abbandonati", racconta Frida Tomizzo.
"Ho visto madri rinunciare ai loro figli dopo averli cresciuti e allevati... Ma i fatti di cronaca degli ultimi mesi fanno rabbrividire. A furia di leggere i giornali, noi che lavoriamo nel volontariato, abbiamo deciso che bisognava far qualcosa, se non altro puntare l' attenzione su questo fenomeno...". Ed è così che con un tam tam, al quale hanno partecipato anche l' istituto italiano di medicina sociale e il centro internazionale di studi sulla famiglia, è nata l' idea del convegno. "Non serve ipotizzare", dice Frida Tomizzo, "come ha fatto il Movimento per la vita, il ritorno alla "ruota", lo sportello girevole degli istituti di assistenza medievali, dove le donne, non viste, potevano depositare i loro neonati. Basterebbe utilizzare le strutture sanitarie".
Avere aiuto è facile. Come? Chiedere aiuto è più facile di quanto sembra: basta rivolgersi a un consultorio per avere le informazioni necessarie. "Bisogna sapere che le province e i comuni sono obbligati per legge ad accogliere le gestanti in difficoltà a offrire loro assistenza negli ultimi mesi di gravidanza e durante e dopo il parto. Esistono per questo le comunità-alloggio, pubbliche o private, tutte coperte dalle convenzioni Usl". L' unico vero problema ce l' hanno le extracomunitarie senza permesso di soggiorno: "Possono partorire in ospedale, ma purtroppo la legge non prevede per loro altro tipo di assistenza".
Aiuto materiale e psicologico. Ma è davvero solo un problema di assistenza? Madri così disperate da chiudere la propria neonata in una busta di plastica dentro una valigia e lasciarla per strada, come è successo a Sant' Angelo dei Lombardi (Avellino), o ad abbandonare il neonato nella toilette di un aeroporto, come è capitato a Pisa, hanno solo bisogno di aiuto materiale? "Certamente non solo di quello", dice Tomizza. "Quasi sempre chi arriva a tanta disperazione è una ragazza molto giovane, lasciata dal partner, osteggiata dalla famiglia, con situazioni economiche difficili alle spalle, talvolta con insufficienze mentali o esperienze di tossicodipendenza e vagabondaggio. Assistere le madri in difficoltà significa dar loro un supporto psicologico, aiutarle a capire se davvero vogliono rinunciare a proprio figlio, se è possibile recuperare il rapporto con il partner o con la famiglia di provenienza. Per poi metterle nelle condizioni di decidere, ma solo alla fine, se riconoscere o no il bambino".
Garanzia di anonimato. Il riconoscimento non è infatti un passaggio obbligatorio. Anzi. La legge concede tempo per riflettere persino alle donne sposate. Ma con una differenza. "Le ragazze molto giovani possono aspettare di decidere fino al compimento del sedicesimo compleanno: nel frattempo le strutture pubbliche si prendono cura del figlio. Le più grandi, invece, hanno tempo di decidere fino a due mesi dopo il parto. Nel frattempo possono rimanere in comunità, così come possono dare in affidamento il neonato a una famiglia esterna". E tutto sotto garanzia di anonimato: "Sì, è importante saperlo: in ospedale si può partorire senza essere obbligati a rivelare la propria identità. Il neonato verrà registrato come figlio di donna che non vuole essere nominata. Sarà quindi l' ufficiale di Stato a dar lui un altro cognome, segnalandolo al tribunale dei minori. A quel punto il bambino diventa immediatamente adottabile". Il rischio che il neonato resti senza famiglia non si corre: secondo le stime del ministero, per ogni minore non riconosciuto in Italia ci sono almeno 15, 20 richieste di adozione.
Il caos delle strutture pubbliche. Ma le strutture sanitarie italiane sono davvero in grado di garantire quello che promette la legge? Frida Tomizza sospira: "Ci sono carenze, eccome. Intanto il caos delle competenze divise tra province e comuni. Non a caso stiamo cercando di ottenere una legge quadro che le unifichi e le accorpi". Ma anche caos geografico: "Non tutte le città sono attrezzate alla stessa maniera. In Piemonte, per esempio, dove ci sono 800 minori in istituto su 4 milioni e mezzo di abitanti, abbiamo 3 comunità-alloggio a Torino per gestanti e madri, più 7 o 8 strutture convenzionate. In province come Asti o Vercelli non esiste nessuna comunità. Al Sud, un deserto...". Soluzioni? "I comuni potrebbero offrire affitti a prezzi agevolati. Si possono organizzare, come talvolta succede, reti di famiglie disposte all' affidamento anche temporaneo, creare asili nido che aprano la mattina alle sette fino a pomeriggio inoltrato...".
Un po' di impegno delle istituzioni, insomma. E di buona volontà.
PERCHE' QUESTO NON SUCCEDA PIU' Nell' ultimo anno, un infanticidio al mese. Ecco le cifre di una tragedia.
24 gennaio 1994, Casalnuovo (Napoli) F.A., 15 anni, partorisce e uccide la propria bambina in casa.
24 febbraio, Porto Torres (Sassari) Dopo una gravidanza segreta, una giovane di 16 anni partorisce in casa una bimba che muore poco dopo.
7 aprile, Lodi (Milano) Una donna sposata di 35 anni arriva in ospedale per un' emorragia da parto; più tardi un parente porta al pronto soccorso il cadavere del neonato trovato a casa.
15 aprile, Vignola (Modena) Lungo l' argine del fiume Panaro viene trovato il corpo di una neonata morta: il cadavere è avvolto in un asciugamano e sepolto nella terra.
11 maggio, Fontegreca (Caserta) M.F., 32 anni, partorisce una bambina nel bagno di casa e l' abbandona in un deposito di legna. La bambina muore dopo 6 giorni.
30 maggio, Altamura (Bari) Una ragazza partorisce in casa una bambina che nasconde in un sacchetto di plastica; poi viene ricoverata in ospedale. Dopo una perquisizione viene trovato il cadaverino.
1 giugno, Gorgonzola (Milano) E.M., 27 anni, partorisce un bambino nel bagno di un negozio; soccorsa, la donna è ricoverata in ospedale, mentre il bambino è trovato morto in fondo al water.
6 giugno, Gubbio (Perugia) R.F,. 38 anni, partorisce una bimba e la nasconde in casa; ricoverata per emorragia, non vuole ammettere di aver partorito. In una perquisizione nella sua abitazione viene trovato il cadavere della neonata.
27 giugno, Trento Una ragazza di 20 anni partorisce una bambina che abbandona in un vigneto. La bambina è trovata, poco dopo, in buone condizioni di salute.
24 luglio, S. Angelo dei Lombardi (Avellino) A.G., 32 anni, partorisce una bambina e la mette in una busta di plastica chiusa in una valigetta che lascia lungo la strada. Il 26 un contadino trova la neonata ancora viva e la porta in ospedale dove muore poco dopo.
13 ottobre, Cantù (Como) Una ragazza partorisce in casa un bambino che presenta ferite da arma da taglio presumibilmente prodotte nel tentativo di tagliare il cordone ombelicale.
7 dicembre, Roma Viene trovata davanti a un convento una bambina in buona salute avvolta in una coperta. La nascita risale al giorno prima.
20 gennaio 1995, Pisa Un neonato viene trovato abbandonato nella toilette dell' aerostazione dell' aeroporto della città.
22 gennaio, Brescia Una neonata viene lasciata morire dalla madre sul balcone della stanza dove l' aveva partorita da sola.
25 gennaio, Thiene (Vicenza) Una neonata viene trovata in un sacchetto di plastica vicino a uno studio ostetrico.
1 febbraio, Lucca Una giovane chiude il neonato nell' armadietto del bagno dell' astanteria dell' ospedale dove ha partorito da sola. Il bambino viene ritrovato subito dopo.
24 marzo, Crotone Una donna di 29 anni, già madre di quattro figli, chiude in un armadio una bambina appena partorita. I carabinieri ritroveranno il cadaverino il giorno dopo.
3 aprile, Frascati, Roma Una liceale di 19 anni, P. C., partorisce da sola una bambina e la nasconde in una busta nell' armadio. Ma forse la bimba è nata già morta. Lo stabilirà l' autopsia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/05/95

Numero
18

Pagina
64

Titolo
CHE GUEVARA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
E ORA LO VENDIAMO ANCHE AGLI AMERICANI In Italia l' ultimo libro dell' eroe cubano ha fatto boom: 160 mila copie. Un best-seller che adesso esce anche in Usa e in Inghilterra. Un' apoteosi? Tutt' altro. Polemiche a non finire. Perché in quel testo del Che...

Didascalia
Ernesto "Che" Guevara era nato il 14 giugno 1928 a Rosario in
Argentina. Fu ucciso in Bolivia l' 8 ottobre 1967, a 39 anni.
A sinistra: il libro del Che che ha scatenato le polemiche in
Inghilterra. E' un diario in cui Guevara racconta le bravate
giovanili. Sopra: altri due testi di successo di Che Guevara.
Guevara il giorno del suo matrimonio con Aleida March, a La Avana,
il 6 giugno 1959.
Che Guevara con la prima figlia Hildita, nata nel 1956.

Testo
Ancora il Che. Credevate che fosse solo il simbolo di un' epoca passata? Sbagliato. Il mito del comandante Guevara è inossidabile. E non solo nelle camere di tanti adolescenti, dove ancora troneggia, a quasi trent' anni dalla morte, l' immancabile poster con il basco di traverso, il sigaro Avana tra le labbra, lo sguardo fiero proiettato oltre l' orizzonte. Il successo si misura anche (soprattutto?) sul terreno commerciale, dove il mito si traduce in fortuna editoriale, produzioni cinematografiche e polemiche che ne aumentano la leggenda.
Primo dato a sorpresa è appunto quello editoriale: Latinoamericana, il diario giovanile di un viaggio fatto dal Che insieme all' amico argentino Alberto Granado, pubblicato da Feltrinelli in due edizioni (una ridotta, l' altra ampliata con gli scritti di Granado), ha venduto in un anno e mezzo oltre 120 mila copie. Praticamente un best seller, sulla cui scia L' anno in cui non siamo stati da nessuna parte, diario del Che in Africa (edizioni Ponte alle Grazie, 20 mila lire) ha raggiunto in soli quattro mesi 30 mila copie.
Altra sorpresa: un film. Ci sta già lavorando come sceneggiatore Gianni Minà, esperto delle vicende latino-americane, ma anche scopritore del fortunato diario. Regista sarà l' argentino Luis Puenzo (Oscar nel 1988 per la Historia oficial), con la produzione italiana della Rodeo Drive. E non è tutto. Latinoamericana sarà a maggio anche sul mercato inglese e statunitense con il titolo Motorcycle Diaries (curatore Colin Robinson, Edizioni Verso).
Polemiche dissacratorie. E qui, proprio sul mercato anglosassone sono già scoppiate le polemiche. Ad accanirsi è niente meno che il quotidiano inglese The Guardian, pilastro dell' informazione democratica, sul quale il corrispondente da Washington, Martin Walker, scrive: "Può risultare sorprendente, ma Che Guevara, prima di diventare un rivoluzionario era un play-boy che si lanciava in selvagge scorribande in moto, seduceva le mogli dei suoi amici, e beveva copiose quantità di vino rosso". Insomma: il passato del Che è "politically incorrect".
Cosa c' è di vero, a parte il gusto revisionista verso "un rivoluzionario"? A differenza di altri scritti di Guevara (Diario in Bolivia compreso, edizioni Feltrinelli, 2 milioni di copie vendute in tutto il mondo dal 1968 a oggi: 200 mila solo in Italia), Latinoamericana non è certamente un manifesto ideologico. E' soprattutto un diario privato, poco ligio ai toni leggendari ed eroici tramandati dalla storia ufficiale. Scritto da un giovanissimo Che, studente in Medicina, che qualche anno prima del romanzo Sulla strada di Jack Kerouac (era il 1952), lasciati a Buenos Aires gli agi di una famiglia borghese, metteva alla prova proprio "on the road" curiosità e intemperanze dei suoi 23 anni. Il ragazzo che in sella a una Norton 500 (soprannominata "Poderosa") insieme ad Antonio Granado, giovane medico disoccupato, percorre Cile, Perù, Colombia, non è ancora il guerrigliero che avrebbe combattuto sulla Sierra Maestra di Cuba a fianco di Fidel Castro. Non è il rivoluzionario che avrebbe addestrato truppe in Argentina, Guatemala, Bolivia. E neanche "l' eroe-faro" che combattenti di mezzo mondo, palestinesi, mozambicani, angolani, fino al sub-comandante Marcos nel Chiapas, avrebbero preso come esempio. Ma The Guardian infierisce forse più del dovuto: donnaiolo, scansafatiche, imbroglione... E anche razzista. Uno dei passaggi incriminati, infatti, è l' arrivo a Caracas dove il Che riporta le sue osservazioni sulla razza negra e quella portoghese: "Il nero indolente e sognatore, spende i suoi pochi soldi in frivolezze qualsiasi o nel tentativo di "piazzare un bel colpo"", si legge nel diario, "mentre l' europeo possiede una tradizione di lavoro e di risparmio". O ancora, a proposito degli indios a Cuzco, in Perù, Guevara sottolinea il "concetto un tantino animale che questi indigeni hanno del pudore e dell' igiene". Tanto più che sulla sua personale igiene The Guardian dubita fortemente, sottolineando il brano in cui il Che, colpito da dissenteria, avrebbe "scaricato" fuori dalla finestra.
A voler scardinare il mito, le occasioni non mancano. Lo stesso Che Guevara, il cui viaggio si svolge con la preoccupazione primaria di trovar da mangiare, bere e dormire gratis, si definisce nei suoi appunti uno "scroccone motorizzato" prima, "appiedato" dopo che la "Poderosa" abbandona lui e Granado su un picco delle Ande. Né tanto meno il futuro rivoluzionario nasconde i suoi istinti guerrieri, sperimentati ai danni di un mastino ringhioso contro il quale, temendo fosse una tigre, scarica la sua pistola nei pressi di Bariloche, in Argentina. Più "deludente" il diario sotto il profilo sessuale, a parte un vorticoso giro di danza durante il quale il giovane Ernesto stordito dal vino, tenta maldestramente di sedurre la moglie di un meccanico e si trova a dover fuggire all' improvviso, insieme all' amico Alberto, inseguito dai "ballerini infuriati". Peccati di gioventù? A difendere il personaggio, contro i giudizi più inclementi, è lo stesso editore italiano: "Polemiche inventate", dice Carlo Feltrinelli, che insieme a Gianni Minà era personalmente a Cuba, quando Hildita, la primogenita del Che ha accettato che si pubblicasse il diario. "In Italia nessuno ne ha tenuto conto. E' solo nei Paesi anglosassoni che si è voluto costruire un caso, probabilmente a fini pubblicitari".
Altro che bravate. Il libro in realtà riflette ben altro che le bravate di un ragazzino. Per Gianni Minà, alle prese con la riduzione cinematografica del testo, il diario racconta proprio la nascita degli ideali di Che Guevara, il suo primo contatto con le miserie e le ingiustizie che lo porteranno a lottare accanto ai popoli latini: "Il viaggio inizia con il pretesto di andare a trovare due ragazze in Cile e finisce invece in un lebbrosario a San Pablo, in Perù, dove Ernesto e Alberto danno aiuto come medici. E' la scoperta di una vocazione".
Il mito resiste? Basta leggere il finale di Latinoamericana: "Nel momento in cui il grande spirito che governa ogni cosa darà un taglio netto dividendo l' umanità intera in due sole parti antagoniste, io starò con il popolo", scrive il Che, "assalterò barricate e trincee, tingerò di sangue la mia arma, sgozzerò ogni nemico mi si parerà davanti". Altro che goliardate.




Testata
Epoca

Data pubbl.
09/04/95

Numero
14

Pagina
50

Titolo
VI RICORDATE BELLINI & COCCIOLONE?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Giosafat Capulli

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
ora non sono più in ... ...in Italia. Il colonnello Bellini vola sui Tornado in Inghilterra. Il maggiore Cocciolone fa il navigatore in una base Nato in Germania. Una fuga all' estero? Non proprio. "Epoca" li ha ritrovati: quattro anni dopo la guerra del Golfo, ecco le ultime novità sui due militari finiti nelle mani di Saddam. Raccontate dai diretti interessati.

Didascalia
PRIGIONIERO DI SADDAM Maurizio Cocciolone, così come apparve alla
televisione irachena il 20 gennaio 1991. Tre giorni prima, allo
scoppio della guerra del Golfo, il Tornado con cui era in missione
insieme con Gianmarco Bellini era stato abbattuto dalla contraerea.
ISTRUTTORE SUI TORNADO Gianmarco Bellini, 35 anni, con la moglie
Fiamma, detta Fiammetta, 38 anni; la figlia di quest' ultima,
Marzia, 20 anni, il figlio Gianluca, di sei. Bellini, che ora è
tenente colonnello, vive in Inghilterra, nella base di Cottesmore,
presso Leicester, e insegna ai piloti dei Paesi Nato i segreti dei
Tornado. Confessa, oggi, che la notorietà seguita all' episodio del
Golfo è stata per lui e per la famiglia un vero incubo: "E quando
stavo per abituarmici, è finita". Bellini tornerà in Italia il
prossimo anno. Probabile destinazione, un ufficio al Ministero.
IN SERVIZIO SUGLI AWACS Maurizio Cocciolone, 34 anni, con la moglie
Adelina, 32. Hanno due figli, Andrea Silvia, due anni, e Alessandro,
un anno. Attualmente vivono in Germania in una villetta (nella foto
sopra) a Ubachpalemberg. Cocciolone, ora maggiore, lavora a una base
Nato vicino a Colonia e fa il navigatore sugli aerei radar: ha
appena partecipato a un' azione nei cieli dell' ex Iugoslavia.

Testo
Oggi vivono all' estero. Gianmarco Bellini, tenente colonnello, è in servizio in Inghilterra nella base di Cottesmore, dove fa da istruttore ai piloti di Tornado. Il maggiore Maurizio Cocciolone è invece in Germania, distaccato alla base Nato di Gailenkirschen, come navigatore sugli Awacs. Sì, proprio loro due. I piloti italiani di Tornado presi prigioneri da Saddam Hussein il 18 gennaio 1991, nei giorni roventi della guerra del Golfo, quelli che commossero e divisero l' Italia tra chi li osannava come eroi nazionali e chi li denigrava come esempi emblematici della nostra inettitudine militare, sono espatriati, ma volano ancora. A quattro anni esatti dalla stagione di notorietà che seguì il loro rilascio (marzo 1991: assalto dei fotografi, copertine dei giornali, cerimonie e soprattutto polemiche), Epoca li ha ritrovati.
Non più eroi, e nemmeno martiri. Tanto meno star da rotocalco rosa.
Due ufficiali come tanti, votati, in quella babele militare che sono gli organismi multinazionali, a una buona carriera, ma anche all' anonimato. Un anonimato che serve a dimenticare. Per Maurizio Cocciolone, soprattutto, il più colpito, tra i due, dai veleni che ne seguirono il rilascio. Ricordate? Il suo volto tumefatto alla tivù irachena, le sue parole biascicate a memoria contro la guerra, usate dal rais di Baghdad come strumento di pressione politica. E poi, le foto del suo matrimonio vendute in esclusiva a un settimanale. Per questo, o per le parole estorte da Saddam (non si è mai saputo), il governo italiano gli negò la medaglia d' argento, concessa invece a Bellini.
Acqua passata. Oggi Cocciolone è in Germania, in una base a 70 chilometri da Colonia. L' ex navigatore di Tornado arriva a bordo di una Bmw blu vecchia di qualche anno, vestito di nero con un giubbotto di renna chiara sulle spalle. E' la sua prima giornata di riposo dopo due settimane trascorse in missione in Grecia.
Operazione "deny flight": controllo dell' embargo aereo nei cieli della ex Iugoslavia a bordo degli Awacs, i "radar volanti". E' tornato a decollare, dunque. E in zona di guerra. "Oh, niente di pericoloso", minimizza lui, "solo routine". Segno che il passato, compresi i malumori dei superiori, è finalmente alle spalle? Maurizio Cocciolone vorrebbe non parlarne: "Certe cose pesano ancora. Le foto del mio matrimonio, per esempio. In fin dei conti riguardavano un fatto privato della mia vita...".
Lavorare per la Nato, a Gailenkirschen che è una delle basi più importanti, è però un privilegio: un regalo da Roma, dopo la medaglia negata? "Eh, sì. I posti sono pochi e le richieste molte...".
In borghese Maurizio Cocciolone sembra anche più giovane dei suoi 34 anni. Ha l' aspetto esangue. E un difetto all' occhio sinistro, leggermente più chiuso del destro, che dà allo sguardo un' aria malinconica. "Le botte degli iracheni... Si è spezzato un nervo qui", dice toccandosi dietro, all' attaccatura del collo, "che ha compromesso l' occhio, il braccio e la mano. Non riesco a muoverli come prima". La menomazione non gli impedisce però di lavorare sugli Awacs. Ma ce n' è voluto per riprendersi: "Un anno di ospedale a L' Aquila, la mia città. Spese a non finire". Nessun rimborso per i piloti del Golfo? "Niente. La sola assistenza gratuita che ho ricevuto è stata, dopo il rilascio, sulla nave-ospedale Mercy che mi ha raccolto in Barhein". L' esperienza in ospedale gli ha messo però un' idea in testa: "Vorrei lanciare una sottoscrizione per raccogliere fondi da destinare al reparto di neuropsichiatria infantile, dove ero io.
Manca tutto, roba da non credere".
Ferite nel corpo. E quelle dell' anima? "Adesso c' è la famiglia, ci sono i bambini... E mi interessa stare vicino a loro". La famiglia è in Germania con lui: la moglie Adelina, ex impiegata alla base di Ghedi, vicino a Brescia, dove lavorava anche Cocciolone, oggi in aspettativa, e due figli: la bambina, Andrea Silvia, 2 anni, e il maschietto, Alessandro, un anno. Vivono a Ubachpalemberg, un paesino alla frontiera con l' Olanda, in una villetta bassa, sulla strada: "Noia? Qui la vita non è un granché. Ma siamo vicini al Belgio e all' Olanda. Io sono un fanatico della pittura e le mostre non mancano. Giorni fa a Maastricht ce n' era una fantastica. Maestri fiamminghi...".
E il lavoro, la carriera, gli Awacs? "E' quello che ho scelto. Ogni tanto mi pesa esser sempre in missione e vivere con la valigia dietro. Ma niente di eroico. Fare i piloti oggi è come fare i tassisti".
Il rambismo sembra morto tra le dune del Kuwait, dove il Tornado di Bellini e Cocciolone venne abbattuto dalla contraerea irachena.
Tanto per Cocciolone, che Rambo non si è mai sentito, quanto per Bellini, l' ufficiale che i comandi italiani decorarono con medaglia d' argento per "lo sprezzo del pericolo dimostrato, il contegno fermo ed esemplare". Alla base di Cottesmore, in Inghilterra, nella zona di Leicester, dove lavora personale anglo-tedesco-italiano, Bellini, 35 anni, comanda uno dei tre gruppi di volo: "No, non sono cambiato dai tempi del Golfo. Servo la nazione come allora", dice con enfasi, "la carriera fa parte di me. Ma certe volte ho anche paura per la mia famiglia, i miei figli". La grande, Marzia, 20 anni, figlia della moglie, è rimasta a Brescia. La moglie Fiamma e il piccolo Gianluca, 6 anni, sono invece in Inghilterra con lui.
Vivono all' interno della base, in una casetta con giardino. Il bambino frequenta la scuola inglese. La moglie prende lezioni di lingua. La sera incontrano gli italiani che abitano in zona: "C' è una comunità a Peterborough fatta di ex operai e piccoli imprenditori".
I suoi ricordi del Golfo sfumano come la nebbia della campagna britannica. Sono ricordi confusi. Le strade di Abu Dhabi: "Una città affascinante, moderna da una parte, antichissima dall' altra". O la prigione: "Un cortile, tutto in cemento, tagliato in due da una rete da pallavolo. Non si vedeva nulla, solo mura". Parla da reduce, Bellini. "E' stato duro superare tutto. Mi ha aiutato ricominciare a volare, tre mesi dopo il rilascio. Ma avevo perso la memoria di quello che era successo nei primi 10 giorni di prigionia. Come se mi mancasse una fetta di esistenza".
I ricordi tornano però negli incontri con gli altri ex prigionieri di guerra, con lui a Cottesmore, nelle bevute serali di birra: "Finiamo sempre per parlarne... Il Golfo, Saddam. No, non credo ci fosse motivo di farlo fuori. Il nostro scopo era liberare il Kuwait".
Cocciolone lo sente ogni tanto al telefono: "Mi è dispiaciuto per la sua medaglia, ma... Caratteri diversi, reazioni diverse". Le foto vendute ai giornali, le interviste, la pubblicità: a Bellini non è piaciuta la notorietà? "E' stato un incubo. Poi, quando stavo cominciando ad abituarmi all' assedio, è finita". Il futuro che lo aspetta è ben diverso. "Tra un anno tornerò in Italia. Magari mi manderanno al Ministero a pilotare scrivanie".




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/03/95

Numero
12

Pagina
58

Titolo
LA COLLETTA DI MARIO E OLIVIERO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI STEFANO TORRIONE

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA' / LA CURIOSITA' DELLA SETTIMANA

Sommario
Sembrava una buona idea. Un noto fotografo, Toscani, a disposizione del pubblico per un ritratto d' autore a 100 mila lire l' uno. Motivo: aiutare Capanna nei guai con la giustizia. E invece...

Didascalia
Toscani mette in posa Capanna con due vecchi amici del servizio
d' ordine del Movimento Studentesco.
Mario Capanna e, a destra, Oliviero Toscani. Sotto: una donna posa
con il figlio neonato alla serata per l' ex leader del Sessantotto.

Testo
Centomila lire a Mario Capanna e, in cambio, una foto firmata da Oliviero Toscani. Come campagna di solidarietà sembrava azzeccata: il nome del fotografo Benetton per raccogliere fondi a favore dell' ex leader carismatico della sinistra. L' ex capo del Movimento Studentesco, poi segretario di Democrazia proletaria, fino al 1991 deputato verde, oggi saggista e scrittore, deve infatti pagare 90 milioni per aver diffamato nel 1985 un giudice di Milano, Guido Salvini. Causa: alcuni volantini in cui Capanna accusava il magistrato di uso indebito della carcerazione preventiva a danno di due imputati nel delitto Ramelli, il neofascista ucciso nel 1975.
Capanna era già riuscito a raccogliere 55 milioni e sperava nel fotografo di Benetton per arrivare al resto. Ma il nome Toscani ha fruttato meno del previsto. Lunedì 13 marzo, alla Bodeguita del medio, ristorante cubano a Milano, dove il fotografo aveva montato il suo set con Capanna, sono passate infatti 70 persone. Non c' erano i vip, i cabarettisti, i personaggi in vista (vedi Sergio Cusani) che il 6 febbraio erano intervenuti allo Zelig, locale storico della sinistra milanese, per il primo round di aiuti (17 milioni raccolti in quell' occasione). Solo gente comune, fan dell' ex leader del "movimento", tutti lì per solidarietà a Capanna.
"Solidarietà, certo", dice Toscani. "Mi sono prestato per questo".
E aggiunge: "La politica però non c' entra niente". Lui che si dichiara lontano da tutte le ideologie, l' anno scorso si è candidato a Bologna per i radicali, all' interno del Polo della libertà, ma, dice "solo per andare contro Occhetto", tanto da essere ora pronto a votare Bossi "che è contro tutti gli altri". Per curiosità, che cosa faceva Toscani nel ' 68? "Ah, per me era già passato. Giravo per gli Usa, seguivo il rock' n' roll e le convention dei democratici". Prima di lunedì Capanna di persona non lo conosceva nemmeno. Li ha messi in contatto il proprietario della Bodeguita, Gualtiero Menoni, uno che alla politica invece ci crede.
Come ci credono i 70 che si sono fatti fotografare.




Testata
Epoca

Data pubbl.
12/03/95

Numero
10

Pagina
38

Titolo
SONO STATA A MOGADISCIO. VE LA RACCONTO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
Il viaggio di una cronista di "Epoca" nell' inferno somalo.

Testo
BOX
Mogadiscio è l' ammasso di case bianche, basse, sforacchiate dai proiettili. E' l' odore della sporcizia cotta al sole, tra le bancarelle che vendono manghi, pompelmi, chat, l' erba che si mastica per resistere alla fame e alla fatica. E' il tanfo del sangue all' ospedale Digfer, dove si opera senza barelle, senza letti, con i feriti per terra, sulle stuoie. E' il pizzicarti in gola della polvere da sparo, dopo le mille battaglie consumate per strada.
Le carovane dei dromedari sfilano lente lungo quella che Siad Barre battezzò via Lenin, sotto l' Arco di trionfo popolare. Qui, all' inizio dell' intervento dell' Onu, vigilavano i carri armati dei marines. Oggi scorrazzano le "tecniche", i furgoncini dei somali armati fino ai denti. I vicoli si perdono in quartieri inaccessibili, come Bermuda (lo chiamano così, dal misterioso triangolo, per via delle quotidiane imboscate), o il mercato di Bakhara, dove puoi comprare ogni tipo di arma a poche centinaia di dollari.
Mogadiscio è anche il passaggio delle donne che sfilano con le loro schiene erette e le lunghe cosce nei vestiti tradizionali, verdi, gialli, marroni. E' la tendopoli di profughi, capanne a ombrello, dove i bambini mostrano tubi, proiettili, coltelli alla cintura. E', nella parte sud, il regno dei morioon, bande che girano armate, la bocca piena di chat: qui non ci si ferma più neanche per comprare un frutto sulle bancarelle.
Nell' ex cuore coloniale e moresco della città, accanto alla piazza dominata dal casermone dell' ex Banca popolare e dall' arco dedicato a Umberto di Savoia, le case, pur saccheggiate, mantengono merli e antichi decori. La casbah oggi è luogo di morte e di paura. Ieri, ai tempi dell' amministrazione fiduciaria italiana, era quartiere di bar, club, hotel. Nella zona nord, dove il presidente ad interim Alì Mahdi ha riportato una parvenza d' ordine sotto la sharia, la legge coranica, la città all' improvviso si anima. Botteghe, negozietti, gente per strada. Poco importa che i kalashnikov non riposino mai.
Il giorno dura poco a Mogadiscio, fino alle 5. Poi è il coprifuoco.
Ma i kalashnikov non lo rispettano.




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/03/95

Numero
9

Pagina
122

Titolo
FARO' CANTARE LA BIBBIA AI DIAVOLI DEL ROCK

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Il Salve Regina in videoclip. Poi la versione pop del Padre nostro e dell' Ave Maria. Interpretati da Vasco Rossi e dai Litfiba. Un nuovo modo per conquistare i giovani o senso degli affari? Don Neroni, prete e discografico, nega. E a "Epoca" confida: non è che l' inizio.

Didascalia
SI'
PIERO PELU'
"El diablo", leader dei Litfiba: piace a don Giulio
NO
JOVANOTTI
Bravo ragazzo, ma il rap non si addice al Vangelo

Testo
A parte un "mamma, quanto è brutto" scappatogli di bocca quando se l' è trovato di fronte, don Giulio Neroni non si è formalizzato. A lui, prete della Compagnia San Paolo, responsabile del settore discografico delle Edizioni Paoline, vale a dire inni sacri e salmodianti cd, "El diablo" non fa paura. Anzi. Quel Pietro Pelù, satanico vocalist dei Litfiba, il gruppo italiano che ha fatto del rock bandiera di somma trasgressione, gli sembra un tipo in gamba.
"Gli ho parlato del mio progetto: far cantare brani religiosi alle rock star. E lui era veramente interessato. Potrebbe essere il primo a entrare nella nostra compilation".
Uno scherzo da preti? Niente affatto. Don Giulio Neroni, sacerdote di mezza età, 59 anni, capelli bianchi, sguardo accigliato, a vederlo un tipo anche introverso e compassato, è deciso a tutto pur di allargare i confini della sua etichetta discografica. Vuole aprire le porte della Chiesa cattolica al rock e ai suoi santoni coinvolgendoli in una "provocazione culturale" senza precedenti, facendo cantare brani a sfondo biblico a personaggi come Vasco Rossi, Eugenio Finardi, Gianna Nannini, Franco Battiato, Francesco Guccini. Senza pregiudizi o moralismi, dimenticando il passato (o anche il presente), dannato, politicizzato, dissacratorio che sia stato.
Ne ha parlato partecipando al Roxy bar, la trasmissione di Red Ronnie su Videomusic, dove era stato invitato per presentare i Tra, trio cattolico New Age che ha appena realizzato un videoclip con la versione pop della più nota preghiera alla Madonna, il Salve Regina.
Interprete a sorpresa una modella slava, statuaria e vestita di nero, sensuale più che virginale. "L' importante per noi della Società San Paolo", spiega adesso, seduto tra una parata di dischi e cassette nei suoi uffici di Albano laziale, "è uscire dai nostri circuiti. Dobbiamo fare in modo che i nostri dischi non girino solo per le parrocchie, ma siano ascoltati dai giovani".
Un' idea solo per far quattrini, questa della "compilation" sacro-profana delle Edizioni Paoline? I"cantautori di Dio", come Alberto Bruno e Roberto Bignoli, compositori dell' area cattolica, in un' intervista rilasciata all' Avvenire, hanno protestato parlando di "consumismo spirituale". Certo è che l' etichetta discografica della San Paolo, presente sul mercato con una trentina di titoli religiosi l' anno, 7-9 mila copie a cd (pezzi forti: inediti sacri di musicisti del calibro di Donizetti, Rossini, Bellini) potrebbe approdare così anche alla musica leggera (con l' Ave Maria e il Padre nostro?). E in grande stile. Quelli di Videomusic si sono offerti di sponsorizzarla, mentre a Milano si è già messa al lavoro Alda Faidutti della casa discografica Carosello, impegnata a contattare i manager delle maggiori star.
Operazione religiosa? Don Neroni puntualizza: "Ogni brano deve aver per soggetto un personaggio dell' Antico testamento, come Mosè, Isaia...". E le condizioni sono chiare: "Non permetterò nessuna eresia nei testi. Non ho certo intenzione di tradire la mia vocazione". Il mecenate del rock aspira a qualcosa di più: "Voglio stanare certi cantanti dal loro ambiente", dice, "far affiorare il loro senso religioso". Più che un' apertura sembra una crociata: "Sono convinto che la trasgressione spesso è solo una facciata commerciale. E mi spaventa pensare come i cantanti possano manipolare migliaia di giovani che partecipano ai loro concerti con messaggi sbagliati".
Rivoluzione, dunque, ma sotto il segno di Cristo. Don Neroni non imbraccia una chitarra elettrica, piuttosto sfodera il Vangelo: "Se Gesù ha accolto la Maddalena, non possiamo noi far cantare delle rock star?". Nato a Canterano, in Ciociaria, è cresciuto ascoltando in radio Modugno che nel suo cuore "rimane il migliore, specialmente con quella vecchia canzone "Vecchio frac" che mia madre detestava".
Ha studiato teologia nel 1969 in Laterano, "dove si contestava il rettore come succedeva nelle università laiche". Ha trascorso i primi 15 anni di sacerdozio nei gruppi giovanili, "girando l' Italia nel periodo delle messe beat", ma dopo, confessa, con i giovani ha perso ogni contatto.
Ha cominciato a occuparsi di musica come direttore della casa discografica della San Paolo. "Ma la sola cultura che ho in questo campo", dice, "si limita ai canti gregoriani". Fondamentali per don Neroni: "Sono alla base di tutta la musica. Il rap, per esempio, non è invenzione di oggi. Risale alle messe in latino. Quello che in gergo si chiama "tono retto" non è altro che questo tipo di ritmo".
Gli piacerà Jovanotti allora? "Non molto. E' un personaggio positivo, ma non mi prende. Piuttosto Guccini. "Dio è morto" era la mia canzone preferita. Politica? No, era canzone dell' impegno civile".
Vasco sì, Battiato no. Strano prete, don Neroni. Non si definisce di sinistra, ma neanche di destra: "Ricordo sempre da ragazzino quanto olio di ricino i fascisti hanno fatto bere a mio zio". Contatta El diablo e disdegna il "buon" Jovanotti. Dice di "voler aprire un dialogo con Vasco Rossi", ma ha delle riserve su Franco Battiato: "E' uno dei più sensibili ai temi della spiritualità. Ma non può leggere solo il Corano". Diffida ancor più di Zucchero e del suo "Miserere": "Il riferimento religioso era solo nel titolo". Non esclude però nessuno.
Nel frattempo sogna di calcare anche altre scene. "Sanremo, per esempio. Ci tenevamo a mandare i Tra". Per quest' anno è andata male, ma "prima o poi ci arriveremo". Il business (e lo show) continua.




Testata
Epoca

Data pubbl.
12/02/95

Numero
6

Pagina
96

Titolo
IO, DON VITALIANO, IL PRETE CHE HA SFIDATO LA PIVETTI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA CHI E' IL SACERDOTE CHE LOTTA PER I TERREMOTATI IRPINI

Sommario
Ha urlato tutta la sua rabbia al presidente della Camera in visita in Irpinia. Ed è nato un caso. Siamo andati a conoscere questo strano parroco. Scappato tre volte dal seminario. "Se per difendere i derelitti bisogna urlare, non mi tiro certo indietro"

Didascalia
IN LOTTA PER LA RICOSTRUZIONE
Don Vitaliano Della Sala, 31 anni, parroco di Sant' Angelo a Scala,
Avellino. Dietro di lui la fotografia di Che Guevara appesa in
canonica.
A sinistra: le rovine della chiesa di Mercogliano, distrutta dal
terremoto del 1980.

Testo
Ad Avellino e dintorni lo chiamano da tempo "prete barricadero".
Eufemismo che viene sostituito, a secondo delle circostanze, da "prete comunista" o, più semplicemente, da "rompiscatole". Colpa di quella foto di Che Guevara che don Vitaliano Della Sala, 31 anni, parroco di Sant' Angelo a Scala, tiene appesa in canonica. O forse dei "casini" che il giovane parroco ha sempre piantato in due anni di sacerdozio: occupazione nei centri sociali, scioperi della fame, auto-incatenamenti in chiesa. Non si aspettavano però, gli avellinesi, che don Vitaliano, per quanto combattivo, da parroco di un paesino come Sant' Angelo, 600 abitanti, una manciata di case tra i tornanti della montagnosa Irpinia, sarebbe stato capace di conquistare la ribalta nazionale, mettendosi a protestare niente meno che in faccia a Irene Pivetti. E proprio per quella storia infinita che è la ricostruzione dell' Irpinia dopo il terremoto del 1980. Storia di sperperi, di corruzioni e tangenti multimiliardarie nell' ex feudo di Ciriaco De Mita: 55 mila miliardi spesi in 14 anni.
"Presidente non creda ai politici che sono in questa sala", ha urlato don Vitaliano, rosso in faccia come un Savonarola, davanti al presidente della Camera, invitata ad Avellino il 30 gennaio a parlare di chiese da ricostruire, quasi un centinaio distrutte dal sisma di 14 anni fa e mai restaurate. "Sono politici bugiardi.
Bugiardi e ladri. Hanno partecipato anche loro allo sperpero. E poi non ci sono solo le chiese alle quali pensare, ma anche le case: 14 mila persone vivono ancora nelle baracche". Una denuncia che è stata un altro terremoto per le autorità umiliate davanti alla Pivetti.
Tanto è vero che il vescovo di Montevergine (a cui fa capo la parrocchia di S. Angelo) si è sentito in dovere di avvertirlo: "Vitaliano, stavolta hai proprio esagerato. Così rischi di farti sbattere fuori". E il parroco, che al primo impatto è pacioso e bonario, dice di aver avuto un po' di timore: "Di carattere sono timido e fifone", confessa, "tanto da aver paura di dormire la notte in canonica". Ma per farsi forza ha ripetuto tra sé e sé la frase che più gli è cara: "La chiesa non dev' essere un dormitorio, ma un campo di battaglia".
Sotto la tonaca, i jeans. Come la parrocchia di Sant' Angelo a Scala. Don Vitaliano si presenta al mattino con la tonaca indossata in fretta e furia sopra i jeans e sotto una giacca a vento viola. La stanza dove lavora dà sulla piazzetta della chiesa. E' piena di carte, di giornali, di libri, graffiti sui muri, il poster del Che e le foto degli amici. Il parrocospiegasubito: "Sant' Angelo non è tra i paesi più colpiti dal terremoto. Ma questa storia della ricostruzione l' abbiamo vissuta comunque sulla nostra pelle".
Quando è arrivato due anni fa, la chiesa madre era ancora inagibile, nonostante si fosse speso per il restauro un miliardo e 800 milioni. La messa si celebrava in una cappella buona al massimo per una trentina di fedeli, con la pioggia che cadeva sull' altare.
Don Vitaliano e i parrocchiani hanno sopportato fino all' estate scorsa. "Poi, un giorno, abbiamo preso a calci le transenne che chiudevano l' ingresso della chiesa e ci siamo riappropriati almeno della piazza". Subito dopo, lo sciopero della fame, con il prete incatenato all' interno della parrocchia, le autorità che promettono e non mantengono e, infine, la gente del paese che, stanca dell' andazzo, si rimbocca le maniche e ultima i lavori di restauro.
Il prete "comunista" la vince anche stavolta. Merito della testardaggine e dell' anticonformismo che si porta dietro da sempre. Nato a Mercogliano (un paese vicino a S. Angelo) padre e madre proprietari di una merceria, fratello maggiore impiegato in banca, è entrato nel seminario di Benevento a 11 anni per sua volontà. Ha resistito fino a 17 anni: poi la fuga. "Quei posti sono a metà tra un campo di concentramento e un manicomio. Lì si fa di tutto per annullare le individualità". Una volta fuori conosce una ragazza di Palermo che lavorava per la Caritas. L' amore profano lo turba, ma non riesce ad avere il sopravvento su quello sacro.
Rientra in seminario, stavolta a Posillipo, dai gesuiti. E ci resta fino a quando non lo buttano fuori: manca la vocazione, dicono i superiori. Continua comunque a studiare teologia, prima a Napoli, poi a Roma: è ospite da amici, "un giorno qui, un giorno lì, perché non avevo tanti soldi". Ma il sacerdozio gli resta in testa, anche se con una visione sua. "Fare il prete significa saper stare con la gente, compresi i reietti e i diseredati". Le sue battaglie a fianco dei tossicodipendenti non piacciono a tutti. Il sindaco del suo paese, per esempio, Mercogliano, lo accusa di danneggiare "l' immagine turistica", per via dei manifesti che Vitaliano, nel frattempo protagonista delle occupazioni studentesche nei centri sociali, si diverte ad affiggere sui muri. "Mi denuncia per diffamazione a mezzo stampa. Finisco due volte in tribunale, ma vengo assolto". Il vescovo di Montevergine si rifiuta però di ordinarlo sacerdote, nonostante Vitaliano si arrabatti a dimostrare che la vocazione ce l' ha e per davvero.
Finalmente prete. E' il nuovo abate Francesco Pio Tamburrino, l' attuale, che si decide nel 1992 a dargli i voti. Ma anche così, l' indomito Vitaliano non rinuncia alle sue attività. Parte per la Bosnia con i "Beati costruttori di pace", lancia appelli per la popolazione in guerra. Riesce a raccogliere 21 tonnellate di viveri e li porta in Croazia. E adesso l' Irpinia. "Qui hanno ricostruito i municipi, hanno fatto autostrade, stadi, fabbriche... Si pensa alle chiese, importantissime. Ma la gente che vive nelle baracche? Bambini cresciuti senza una casa? Ho accusato i politici di essere dei ladri, è vero. Non dimentichiamo che la provincia di Avellino è ancora un feudo come ai tempi di De Mita, dove spadroneggiano riciclati e portaborse". Capito perché lo chiamano "barricadero"?



Testata
Epoca

Data pubbl.
05/02/95

Numero
5

Pagina
22

Titolo
LA DROGA SI BATTE COSI'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI MASSIMO SESTINI

Sezione
STORIE

Occhiello
ESCLUSIVO ECSTASY IN DIRETTA SU "EPOCA": MANETTE AI SIGNORI DELLO "SBALLO" DEL SABATO SERA

Sommario
Undicimila pasticche sequestrate: è stata la più importante operazione contro la droga che spopola in discoteca. Ve la raccontiamo minuto per minuto.

Didascalia
L' IRRUZIONE
Martedì 24 gennaio: i finanzieri del Goa (Gruppo operativo
antidroga) di Firenze irrompono in un appartamento: stanno cercando
quattro spacciatori di Ecstasy.
L' APPOSTAMENTO
Pietrasanta (Lucca): l' elicottero dei finanzieri illumina a giorno
la villetta di uno dei ricercati.
I CONTROLLI
I finanzieri perquisiscono i locali della zona: l' Ecstasy viene
spacciata in bar e discoteche.
L' EPILOGO
Il maggiore Gianpaolo Pinna, comandante del Goa, mostra le 11 mila
pastiglie requisite.
Un altro modo di spacciare: si tratta del "trip",
un francobollo cosparso di Lsd.
Il comandante Pinna (a destra) coordina l' operazione "White bird"
dall' elicottero.

Testo
L' "assalto", come lo chiama in gergo Gianpaolo Pinna, maggiore della Guardia di Finanza di Firenze, parte all' alba di martedì 24 gennaio. "Obiettivo a sinistra", ripete il comandante via radio pilotando, dall' interno di una Mercedes, i movimenti dell' elicottero, un 412 AB: i fari dell' apparecchio illuminano a 360 gradi le palazzine popolari alla periferia di Pietrasanta, nella campagna versiliana. Arrivano le pattuglie. Agenti in borghese, armati di fucile a pompa, gli Spas 12, con colpi chiamati "demolition" per il loro effetto devastante, sfondano la prima porta.
Comincia l' operazione White bird, uccello bianco. Un codice altisonante, da operazione di guerra, in realtà il nome di una pasticca piccola quanto un normale analgesico, una qualità tra le migliori di Ecstasy, che arriva direttamente dall' Olanda. La Guardia di Finanza cerca i "nuovi" signori della droga, trafficanti internazionali di stupefacenti sull' asse Firenze-Amsterdam andata e ritorno. Un affare da 10 mila e più pasticche a viaggio, destinate a rifornire le discoteche della Versilia al sabato sera, un investimento di un centinaio di milioni e un rendimento al dettaglio di oltre un miliardo a settimana. Mafia? Camorra? No, i nuovi boss, tra i quali i tre che alla fine della mattinata del 24 gennaio saranno arrestati dalla Guardia di Finanza, non hanno rapporti né con le cosche né con la criminalità organizzata. E' gente comune, per lo più incensurata, che viaggia in macchina da Firenze ad Amsterdam dove compra le pasticche e le porta in Italia.
I loro nomi? Massimo Scarpelli, 31 anni, di Massa Carrara, detto Testone, un passione per i dobermann, le scommesse clandestine e le notti brave. Il secondo: Stefano Farina, 38 anni, di Montignoso, in provincia di Massa, nome di battaglia Pesciolino, come copertura un negozio di hi-fi di proprietà della moglie. La terza, Elisabetta Graziani, 35 anni, di Pietrasanta vicino a Lucca, bionda e sottile, mamma di una ragazzina di 12 anni che vive con i nonni, e un lavoro ufficiale presso una casa di ricovero per anziani a Tonfano. Sfugge alla cattura il quarto della gang, Gionata Frediani, compagno della Graziani, 24 anni, pregiudicato, sieropositivo, con un giro d' amicizie oltre confine, a Lugano, dove potrebbe essersi nascosto adesso.
Spacciatori per colpa degli usurai. Balordi, con un buon fiuto per gli affari, però. Il traffico viene scoperto un paio di mesi fa, quando i finanzieri del Gruppo operativo antidroga di Firenze avevano arrestato per detenzione di 10 mila e 800 pasticche di Ecstasy due insospettabili di La Spezia, Massimo Incerti e Claudio Schiffini, 27 anni il primo, 26 il secondo. Vite normali. E incensurate. Incerti era proprietario di un' azienda, la Nolotelefono, specializzata in noleggio di cellulari. Schiffini faceva il ragioniere. Erano finiti a trafficare per ripagare un prestito a usura: tre milioni che Incerti aveva accettato, per mandare avanti gli affari, da Elisabetta Graziani, amica della sua fidanzata. Alla scadenza del debito (Incerti era ancora senza soldi) è comparso il resto della banda a imporre le sue condizioni a suon di botte e intimidazioni. Prima l' uso gratuito dei telefonini dell' azienda, con addebito a carico del titolare. Poi, l' ordine di recarsi in Svizzera a prelevare la Golf di Gionata Frediani in arrivo dall' Olanda "imbottita" di pasticche e portarla in Italia.
In terza battuta, Incerti e Schiffini doveva occuparsi personalmente di conservare l' Ecstasy (10 mila pasticche sono state trovate dalla Guardia di Finanza proprio negli uffici di Nolotelefono). Alla fine doveva dare anche una mano a smaltire qualche centinaio di pillole al dettaglio. "La difficoltà maggiore è stata quella di localizzare i quattro della banda", spiega il maggiore Gianpaolo Pinna.
"Elisabetta Graziani e Gionata Frediani cambiavano domicilio ogni giorno, in un perenne vagabondaggio a casa di amici e parenti".
Unico elemento "stanziale", un pitbull, cane da combattimento, della donna. "Sapevamo che l' avevano lasciato in una casa di campagna vicino a Pietrasanta. I primi appostamenti sono cominciati lì, in attesa che qualcuno venisse a portare del cibo". In effetti Elisabetta non manca all' appuntamento. Si presenta a scadenze regolari con sacchettini per il cane. Tramite lei si arriva anche a Frediani.
Scatta l' operazione "White bird". Martedì 24 gennaio, dunque, l' "assalto" finale. La prima perquisizione alle case popolari di Pietrasanta va a vuoto. Elisabetta Graziani e l' amico Gionata non hanno dormito lì. Mentre una parte degli uomini del gruppo operativo antidroga arrestano Stefano Farina (Massimo Scarpelli è stato preso il giorno prima), per gli agenti in borghese comincia la caccia alla coppia. Bonnie e Clyde in formato Versilia non sono nemmeno a casa di lui. Deserto pure nella cascina dove normalmente sta il pitbull ("l' ho dato via due giorni fa, me la sentivo", dirà dopo Elisabetta). Nemmeno i genitori della donna hanno notizie. C' è un numero di cellulare, però. Uno degli agenti riesce a contattare la Graziani. Le dà un appuntamento con la scusa di mostrarle alcune foto segnaletiche. Lo stratagemma funziona. Elisabetta scende da una Peugeot bianca alle 10 e trenta del mattino davanti al municipio di Pietrasanta. Qualche ora dopo è in manette.
"Una storia esemplare", commenta il maggiore Gianpaolo Pinna, 37 anni, da 5 in servizio al Gruppo operativo antidroga di Firenze. "La Versilia è infatti diventata il maggior centro di smistamento di Ecstasy, oltre alla Romagna". Colpa delle discoteche che fanno tendenza, locali da 3 mila posti che propinano ritmi da 200 battute al minuto, la musica dell' Ecstasy. La Guardia di Finanza ha cominciato a occuparsi di Ecstasy nel 1991, ma è stato nell' ultimo anno che si è arrivati al sequestro di oltre 50 mila pasticche, la quantità più grossa mai trovata in Italia. Ma il mercato ha potenzialità infinite e canali incontrollabili. "Non esistono cosche, è vero, e questo rende più difficile individuare gli spacciatori", dice ancora il maggiore. "Siamo davanti a gruppi che nascono spontanei, che si creano e ricreano come fossero società per azioni". Il meccanismo è tanto semplice quanto fruttuoso: "Esiste un finanziatore che raccoglie il denaro da chiunque voglia investire qualcosa. Poi ci sono tre o quattro persone che fanno da corrieri in macchina fino ad Amsterdam, dove si trovano abbastanza facilmente i contatti per la compravendita". Le pasticche viaggiano nascoste nella carrozzeria. Passano il confine e arrivano in Italia pronte a essere distribuite con un guadagno dieci volte più alto.
Nell' affare c' è gente di ogni specie. Alla Guardia di Finanza è arrivata notizia persino di una maestrina di Viareggio.

BOX
IO, UNO SPACCIATORE "PERBENE" Commercia in Ecstasy dal 1991. Ha 30 anni e un lavoro da insospettabile. Ecco cosa rivela M. B. sotto garanzia d' anonimato.
"La mafia non è mai entrata nel traffico di Ecstasy, forse perché in Olanda non amano trattare con le cosche italiane. Io ho cominciato consumando pasticche in discoteca e lì ho conosciuto gente che aveva contatti ad Amsterdam. Mi sono messo a fare il mediatore. Il mio onorario: 10 milioni ogni 10 mila pasticche. Come funziona il commercio? Ci sono i "finanziatori" che investono più milioni a testa. C' è un capo delegato alla "canalizzazione finanziaria" e altri che si occupano del trasporto. Due persone partono in aereo, prenotano alberghi a cinque stelle, si procurano cocaina e donne per la notte, prendono i primi contatti per testare la roba. Altri due arrivano sul posto in macchina per poi ripartire con la merce per l' Italia. L' affare avviene nei coffee shop, oppure in uffici messi su per la compravendita. I costi? Sulle mille lire a pasticca per il grossista che le rivende a 6 mila. In Italia costano fino a 60 mila.
Ma Amsterdam è una piazza commerciale. L' Ecstasy si produce in Belgio e si sospetta la complicità delle industrie farmaceutiche...".




Testata
Epoca

Data pubbl.
29/01/95

Numero
4

Pagina
44

Titolo
CONFESSO: MAMMA L' ABBIAMO UCCISA COSI'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA' ESCLUSIVO L' AGGHIACCIANTE VICENDA DELLA CINQUANTASETTENNE VERONESE STRANGOLATA DALLA FIGLIA INSIEME AL FIDANZATO

Sommario
Il narcotico. Il cappio intorno al collo. La morte davanti alla telenovela. "Epoca" rivela il racconto dell' omicida di Verona che ha ammazzato la madre insieme all' amante per impossessarsi del suo appartamento. Dove, magari, prostituirsi. CHI E' LA MATRICIDA DI VERONA

Didascalia
"COME SI VEDE NEI FILM: LUI LA LEGO' COL FILO DEL TELEFONO"
E' LEI L' ASSASSINA
Nadia Frigerio, 33 anni, ex ballerina, divorziata, due figli
affidati all' ex marito. Ogni tanto si prostituiva.
La vittima
Il fidanzato-killer
Il ritrovamento del corpo
Ora riposa qui
Loro la conoscevano
Sopra: Anita Foks, titolare della lavanderia dove si serviva Nadia
Frigerio e Enzo Alfetta, gestore dell' hotel dove alloggiava. A
sinistra: la tomba di Eleonora Perfranceschi. In alto: la vittima,
Marco Rancani, l' omicida e il rinvenimento del cadavere.
Pietro Maso: nel 1991 ammazzò i suoi genitori.

Testo
Due possibilità: "Sgozzarla con un coltello oppure strangolarla nel sonno". Per ammazzare sua madre, Nadia Frigerio, 33 anni, veronese, sceglie il secondo sistema: "Sgozzarla no, perché odio la vista del sangue e se ne sarebbe sparso dappertutto", confessa ai giudici dopo l' arresto. "Strangolarla nel sonno era meglio perché avrei evitato di vederla soffrire". Unico gesto di pietà. Per il resto il matricidio che il 4 novembre si consuma tra le pareti domestiche di un appartamento di Montorio, alla periferia di Verona, sembra la sceneggiatura di un telefilm di quart' ordine. Nadia, assassina insieme al fidanzato, Marco Rancani, della madre, Eleonora Perfranceschi, una colf di 57 anni, confessa senza emozione. Senza sentimenti. Senza neanche un' ombra di colpa o di pentimento. Solo un gelido susseguirsi di fatti, una catena di particolari agghiacciani.
Come ha raccontato ai giudici (durante l' interrogatorio che Epoca è in grado di riportare nei suoi passaggi salienti), Nadia mirava alla casa, un appartemento in affitto a 550 mila lire al mese, diviso con la madre, dove la donna le proibiva però di portare a dormire il suo ultimo "corteggiatore", disoccupato, amante di un travestito, e per giunta "meridionale" (di Spoleto, in Umbria). Una battuta fatta da Nadia a Marco Rancani ("non vorrai mica che ammazzi lei per far posto a te"), fa nascere davvero l' idea del delitto. "E' stato Marco a darmi il Tavor", racconta Nadia durante l' interrogatorio.
Lui che fa largo uso del tranquillante, le consiglia di sciogliere quattro pasticche nel caffè. Il rituale di morte si svolge in cucina, con la madre in sala che segue in tivù l' ennesima puntata della telenovela Perla nera: "Le preparai la tazzina con il caffè, lo zucchero e un po' di latte... E' crollata alla fine della puntata".
Il complice, Marco, arriva subito dopo, imbottito di eccitanti "per tenersi su". Con il filo del telefono, lega polsi e caviglie della donna: "Per prevenire l' eventuale reazione nervosa durante lo strangolamento, come si vede nei film tutti i giorni", spiega impassibile Nadia al pubblico ministero, Mario Giulio Schinaia. La ragazza ha solo un attimo di ripensamento: "Lasciamo perdere che è meglio, perché ci prendono". Ma Marco incalza: "Non arriveranno mai a noi due". Il seguito è un cavo attorno al collo: "Avremmo dovuto tirare io da una parte lui dall' altra. Io gli dissi che non ce la facevo". Nadia accusa il fidanzato. Secondo la sua testimonianza lei sarebbe andata nella stanza accanto, incapace di uccidere davvero. Lui invece questo coraggio lo avrebbbe trovato.
Poi la messinscena: il cadavere scaricato dietro il cimitero di Cancelli, una piana desolata, coperta di preservativi e siringhe, dove Eleonora Perfranceschi è stata ritrovata l' 11 novembre con una scatola di profilattici in borsa. Un tentativo di depistaggio per lasciar credere a un delitto a sfondo sessuale, con Nadia che rilasciava dichiarazioni alle tivù locali piangendo in diretta.
Una ridicola messinscena. Ma quello che doveva essere un delitto perfetto si è rivelato una messinscena da dilettanti. Mentre Rancani si tradiva al telefono parlando con amici, e la sorella di Nadia, Giordana, 31 anni, le notava al collo gioielli che erano stati della madre, cominciavano i primi sospetti dei carabinieri: Nadia aveva dichiarato che Eleonora Perfranceschi era uscita di casa il giorno della morte per pagare l' affitto. I carabinieri scoprono invece che l' affitto era stato pagato da lei giorni dopo, così come ritrovano alcuni gioielli depositati al Monte dei Pegni. A nome di Nadia Frigerio.
Ora i due sono in carcere. Ma rimane l' assurdità di questo loro delitto. Quella di Nadia Frigerio è davvero una mente sconvolta dalla follia, come cercheranno di dimostrare gli avvocati difensori Guariente Guarienti e Enrico Bastianello? O la killer dagli occhi azzurri, trasparenti, con le pupille stranamente dilatate, è solo una donna instupidita dalla miseria e dall' ignoranza? Se la sua vita, prima del delitto, era fatta di notti brave in discoteca, amicizie con omosessuali, transessuali, travestiti, lavori occasionali e occasionale prostituzione, del suo passato si sa poco o quasi nulla. Nata a Milano, ha vissuto in famiglia fino a 18 anni quando ancora la madre e il padre, Elverio, stavano assieme. Dopo la separazione dei genitori, anche i figli si sono sparpagliati: la sorella Giordana, che oggi ha 31 anni, si è sposata con un ferroviere di Desenzano, il fratello Oscar, 27 anni, fa l' operaio, convive con una donna e ha un bambino. Nadia resta sola. Presto rimane incinta. Di un camionista, Lorenzo Salaorni, 46 anni (oggi operaio nell' azienda di mangimi Veronesi), che la sposa. Nascono un maschio, poi una bambina che hanno oggi rispettivamente 12 e 10 anni.
Salaorni accetta di parlare di lei: "L' ho conosciuta", racconta, "mentre faceva la cameriera in un bar. Sembrava una brava ragazza.
Siamo stati insieme tre anni. Poi una mattina mi sono svegliato e lei non c' era più". Non dovevano comunque essere rose e fiori. Lei ha raccontato agli avvocati che il marito la picchiava, lui la definisce "inaffidabile", lasciando intendere ben altro... I vicini di quartiere ricordano ancora di quando Nadia chiudeva i bambini in casa per andarsene in giro, e quelli strillavano tanto da dover chiamare i pompieri, o di quando li addormentava con il cognac. Il matrimonio si conclude con un divorzio nel 1988 e una sentenza particolarmente dura per la donna: affidamento dei figli al padre.
Per inaffidabilità della madre? Per incapacità di intendere o di volere? Nadia racconta solo di essere stata consenziente a quella soluzione.
Altro episodio degno di nota: un incidente in motorino, nel 1993.
Nadia finsice in coma all' ospedale, con trauma cranico. Esce dal coma dopo una settimana, ma giura di non essere mai guarita, tormentata notte e giorno da emicranie e capogiri. Riprende però le abitudini di sempre, la solita esistenza alla deriva. Di giorno, al quartiere di Porta Vescovo, dove trova prima alloggio e poi lavoro alla pensione Le gourmet: "Ha dormito da noi, dal 4 febbraio al 25 marzo", racconta il proprietario, Enzo Alfetta. "Pagava anticipatamente le sue 35 mila lire al giorno. No, non ci ha mai creato problemi. Dopo, so che era tornata dalla madre". Della sua vita privata Alfetta dice di non saper nulla, di averla solo vista qualche volta a pranzo da lui con l' ex marito e i figli. "Quando è venuta a chiederci lavoro, mia moglie ha accettato di farle stirare la roba una o due volte la settimana. Oppure di chiamarla per le pulizie straordinarie. Ma, conoscendo le voci che circolavano su di lei, facevamo di tutto per tenerla lontana dai clienti".
Quali voci? La proprietaria della lavanderia accanto all' albergo, Anita Foks, parla di "amicizie con gente molto conosciuta...".
Commercianti della zona, "di quelli poi che vanno a vantarsi con gli amici. Quando si metteva in ghingheri, minigonna e tacchi alti, la Nadia non era male", dice la signora Foks. Nadia le ha lasciato un abito da sera di raso e tulle da stirare, un impermeabile, una camicia con le borchie. "Anche a me aveva chiesto lavoro, ma non mi fidavo".
Una vita segreta. C' era una doppia vita dunque: da una parte lavori miserabili a poche migliaia di lire l' ora. D' altra gli abiti da sera, gli amanti che elargivano "regali". I motivi di contrasto con la madre erano anche questi: le notti al Lem, una discoteca di San Martino, tra prostitute, travestiti, e omosessuali (la sua migliore amica è un transessuale, Marco, il fidanzato assassino, conviveva con Sonia, un travestito iroso e manesco).
La madre Eleonora, invece, era abituata a sgobbare tutto il giorno come donna di servizio e la sera andava al massimo in balera con il Circolo degli anziani. Quando Nadia era tornanta da lei, a fine marzo, i battibecchi giornalieri erano ripresi. Ma dalla casa di Montorio, una costruzione bassa di cemento, Nadia non voleva andarsene. Un quartiere desolato. Vicino solo una serie di monolocali abitati da extracomunitari di passaggio e tossicodipendenti. Di fronte la caserma "Duca" prodiga di potenziali "clienti". Che Nadia volesse trasformare l' appartamento della madre in un pied-à-terre dove accogliere i militari? Con i giudici la donna ha smentito: "Non avrei potuto con Marco in casa, non volevo fargli correre rischi penali. Fossi stata da sola, magari l' avrei fatto". Oggi sono entrambi in galera. Ma Nadia forse non se ne rende neanche conto. Quando l' hanno portata dentro, si è subito messa a fraternizzare con le altre detenute e alla fine della giornata rideva e scherzava come l' avessero mandata in vacanza.

BOX
PRIMA DI LEI, PIETRO MASO Nadia Frigerio è stata paragonata a Pietro Maso, il ragazzo che, sempre a Verona, nel 1991, ammazzò i genitori per impossessarsi della loro eredità. Ma in realtà, "l' unico punto di contatto tra l' omicidio commesso da Nadia Frigerio e quello di Pietro Maso è la brutalità", dice il pubblico ministero Schinaia, il magistrato che ha seguito entrambi i delitti. "Per il resto, siamo di fronte da una parte a un dramma della miseria, dall' altra a un dramma della giovinezza". Per l' avvocato di Nadia, Guariente Guarienti, a suo tempo difensore di Maso, "i due casi sono sì totalmente diversi, ma presentano delle analogie. Prima tra tutte: la stessa totale assenza di partecipazione emotiva o nervosa al delitto". Come Maso, anche Nadia non ha battuto ciglio.




Testata
Epoca

Data pubbl.
08/01/95

Numero
1

Pagina
90

Titolo
SARA' PROPRIO LUI IL "RE" DI MONTECARLO. MA NON INVIDIATELO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
GRANDI DOMANDE DEL 1995

Occhiello
Il figlio di Ranieri diventerà il nuovo leader del Principato più famoso del mondo?

Sommario
Il padre soffre di cuore. E la successione sembra ormai prossima. Alla vigilia del cambio della guardia, vi raccontiamo storia, amori e segreti di Alberto. Compresi tutti i grossi guai che dovrà affrontare.

Didascalia
Alberto di Monaco, 36 anni, con alle spalle una veduta di
Montecarlo. A destra, il principe ereditario in alta uniforme
assieme a Ranieri, 71 anni, operato un mese fa al cuore.
UN FLIRT COMBINATO Alberto di Monaco con Brooke Shields nel 1993. Fu
il capo della sicurezza personale di palazzo Grimaldi a organizzare
il primo incontro tra il futuro signore del Principato e l' attrice,
con corredo di fotografi e di giornalisti. Nella foto a fianco, il
principe ereditario con Helen Willis, una studentessa diciannovenne
di Tallahassee, in Florida.
TRA SPORT E LOVE STORY L' erede Grimaldi con Mary Whyte,
campionessa di nuoto americana (due medaglie d' oro ai Giochi di
Los Angeles). Alberto la incontrò nel 1992 alle Olimpiadi
invernali di Albertville dove fece coppia fissa con lei. A destra,
con la top model Claudia Schiffer, sempre nel 1992: un idillio che
durò poco tempo.
NON PENSA A SPOSARSI La fiamma più recente di Alberto: un' altra
modella, Heather Mann, tedesca. Sono comparsi insieme ad agosto, al
tradizionale gran ballo della Croce Rossa. Nonostante i suoi molti
amori, il principe non sembra avere per ora propositi matrimoniali.
E LE SORELLE TRIBOLANO PER AMORE
Sono ancora incertissime le nozze tra Carolina di Monaco e l' attore
francese Vincent Lyndon (a sinistra), suo nuovo compagno dopo la
morte del marito Stefano Casiraghi. E' il principe Ranieri a opporsi
per motivi religiosi: Lyndon, ebreo, non intende convertirsi al
cattolicesimo. Nonostante i dissensi, Carolina è stata molto vicina
al padre in occasione dell' intervento al cuore.
Annunciate in primavera, sono state rinviate le nozze di Stephanie
con l' ex guardia del corpo Daniel Ducruet (a destra), da cui la
piccola Grimaldi ha avuto due figli. Nell' attesa, lei s' è ritirata
dalla scena mondana. Per questo amore ha rotto col padre, ma i
rapporti sembrano essersi ricuciti durante la malattia di Ranieri.

Testo
I giochi sono aperti. E' bastata, venerdì 25 novembre, l' operazione al cuore del settantunenne principe Ranieri perché a Montecarlo la roulette della successione cominciasse il suo giro. Sarà il 1995 l' anno buono per l' ascesa al potere di Alberto, 36 anni, secondogenito di Ranieri? Nel Principato sono in molti a dar per certa l' abdicazione. Anche se il settimanale Paris-Match non esclude un colpo di scena: che l' anziano principe scelga il nipotino Andrea, figlio di Carolina e Stefano Casiraghi, come "delfino" (riquadro a pagina 93).
Sussurri e voci, come sempre a Montecarlo. Ranieri smentisce su tutta la linea. Ma i segnali di un' imminente "promozione" di Alberto si accavallano. A cominciare da una sorta di investitura politica: durante la malattia del padre, è stato Alberto ad assistere al giuramento del nuovo primo ministro monegasco, Paul Djoud. E come se non bastasse, anche dall' ufficio stampa monegasco si conferma che il trono tocca comunque per legge ad Alberto, principe ereditario e marchese di Beaux.
Lo scapolo d' oro del jet set da rotocalco, l' "accompagnatore" di top model del calibro di Claudia Schiffer, il pluriappassionato campione di tennis, bob, squash, calcio, una quindicina e più di sport diversi, potrebbe insomma a breve termine passare ad altre più gravose occupazioni.
Di certo, prendere il posto di Ranieri non sarà uno scherzo. Non c' è in ballo solo il governo della Montecarlo mondana, il palcoscenico dorato degli scandali amorosi della famiglia Grimaldi.
C' è soprattutto da ereditare l' amministrazione di un vero e proprio centro di affari internazionali, il paradiso fiscale che per decenni ha offerto protezione a società fantasma, prestanomi, speculatori immobiliari e che sta attraversando una fase politica ed economica delicatissima.
Il Principato, 50 mila residenti (di cui solo 5 mila cittadini monegaschi) su un territorio più piccolo di quello di Hyde Park a Londra, 3.470 imprese, di cui 110 industriali, 48 tra banche e società finanziarie, un giro d' affari passato dai mille miliardi di lire del 1975 ai 10 mila del 1993, rischia infatti di dover ridimensionare le sue aspirazioni di Hong Kong del Mediterraneo. Il mercato immobiliare si è bloccato, gli investimenti sono diminuiti, persino il turismo non tira come prima. Un esempio? La Société des Bains de mer, la mega-azienda di Ranieri che gestisce casinò, alberghi e ristoranti, negli ultimi due anni ha dimezzato gli utili, dai 49 miliardi di lire del 1991 ai 24 del 1993.
Crisi economica e non solo. Il principe Alberto dovrà fare i conti anche con un problema di "pulizia". A incrinare l' immagine del Principato sono le infiltrazioni della mafia nel Casinò. Un affare che crea molto imbarazzo già al padre, costretto ad aprire un' inchiesta, e che rischia di sommarsi a uno scandalo precedente: quello della Banque industrielle de Monaco, che nel 1990 aveva squarciato un primo velo sui misteri monegaschi.
Montecarlo è così sotto tiro. Pressioni dal governo francese, pressioni europee per la lotta alla criminalità... Ranieri ("per lasciare al figlio un Principato più pulito", dicono i benevoli) è costretto ad adeguarsi: una legge del 1993 introduce norme contro il riciclaggio.
"Mani pulite" in versione Costa Azzurra? "Macché, solo un' operazione di facciata", dicono i più scettici. Montecarlo resta l' eden dell' "extraterritorialità". Tanto che Enrico Braggiotti, ex numero uno della Comit, inseguito per mesi in Italia da un ordine di custodia cautelare per una tangente Enimont da 80 miliardi, ha continuato a ricoprire cariche nel Principato (è nel consiglio di amministrazione della Société des Bains de mer) e a godere dell' amicizia di Ranieri.
Soprannome: Superman. E' questo, dunque, il regno che il giovane Alberto potrebbe trovarsi a governare nel 1995. Come si muoverà lui che, a detta di molti, è fragile, facilmente influenzabile e insicuro, in questo "panier de crabes", in questo nido di vipere? La biografia ufficiale riporta un curriculum modello: università negli Stati Uniti, all' Amherst College, in Massachusetts. Studi in scienze politiche, economia, psicologia, storia dell' arte, letteratura inglese, antropologia, geologia, filosofia, sociologia... Ammirazione per la politica repubblicana di Ronald Reagan. "Stage" di gestione finanziaria alla Morgan Guaranty Trust di New York e poi nella sede parigina della stessa banca d' affari.
E infine una lista di sport, dove a detta di tutti ha dato il meglio di sé, fino a meritarsi il soprannome di "Superman". Le gare di bob, come gli impegni al Comitato internazionale olimpico, sussurrano i maligni, "rappresentano l' essenza della sua vita"...
E il privato? Meno ribelle di Stephanie, più irrequieto forse di Caroline, come le sorelle Alberto non ha disdegnato quella mondanità che ha fatto del Principato uno sfondo da romanzo rosa. Estroverso, generoso, "democratico", ama frequentare i locali notturni di Monaco passando senza imbarazzo dal sofisticato Jimmy' z al rumoroso e interclassista Stars ' n Bars, dove per la notte di Halloween, il 31 ottobre, s' è presentato con una maschera ad artiglio, come Freddy Krueger nel film Nightmare. Al contrario di Ranieri, che si è sempre circondato di pochi e fidati amici, Alberto ama i battaglioni non particolarmente selezionati, snobbando gli eredi delle grandi famiglie monegasche, per esempio Jean-Pierre Marsan, ex compagno d' infanzia e figlio di Loulou, uno dei grandi vecchi del posto. Del resto la sua filosofia di vita è: "Conoscere quanta più gente possibile, in tutti gli ambienti, perché ogni nuovo incontro ti dà sempre qualcosa". Come gli amori.
Colazione a Palazzo. Se Ranieri s' è legato a una sola donna, la defunta principessa Grace, Alberto preferisce avventure a raffica: da Brooke Shields a Helen Willis, fino alla Schiffer, che i rotocalchi davano addirittura come promessa sposa e che fonti più private liquidano come "fiamma" del momento, per altro non consenziente. Progetti matrimoniali? "Ma va!", sorride chi lo conosce. "Alberto ama ogni giorno una donna diversa". I maligni insinuano che ami anche gli uomini. Lui stesso ha parlato con tono offeso di queste insinuazioni e si è difeso a colpi di querele. Così come ha fatto per le voci che nel 1991 lo volevano implicato con Stephanie in un affare di droga.
Ma sarà capace di non far rimpiangere Ranieri? Montecarlo si divide.
Secondo gli amici fidati "Alberto si sta impegnando molto". Dalle stanze del Palais Princier, dove ha residenza ufficiale (in realtà vive in un pied-à-terre in centro) e dove ogni mattina, anche dopo le notti di bagordi, va a far colazione con il padre, "segue riunioni politiche, impegni di governo, grandi progetti". Si prepara insomma a una successione che avverrà in maniera "graduale". Con incarichi via via più importanti: da quello puramente rappresentativo di presidente della Croce Rossa di Monaco alla nomina, nel maggio 1993, di capo della delegazione monegasca all' Onu.
Per altri, invece, Alberto non potrà essere all' altezza del padre, l' uomo che ha "inventato" Montecarlo, l' ha lanciata come piazza finanziaria, la gestisce con l' orgoglio di un capitano d' industria. E lo stesso Ranieri è il primo a temere che il figlio non possieda la tempra necessaria per barcamenarsi negli intricati giochi di potere e affari del suo dominio. Qualcuno l' ha sentito mormorare: "Ho paura che me lo divorino".

BOX
SE INVECE GOVERNASSE LUI? C' è chi scommette a sorpresa sul figlio di Carolina.
La legge dinastica lo esclude, ma le voci continuano a circolare: il vecchio Ranieri potrebbe preferire come erede, anziché il figlio Alberto, il nipote Andrea, 10 anni, primogenito di Carolina e del defunto Stefano Casiraghi (a destra). Il ragazzino è disciplinato, obbediente, possiede la stessa intelligenza arguta della madre... Un "delfino" ideale. Ma perché al posto di Alberto? Per sfiducia nelle capacità del principe ereditario? In realtà potrebbe essere per il fatto che Alberto non vuol decidersi a prendere moglie. Ranieri teme che in questo caso il Principato, se passa di mano al figlio, potrebbe restare senza discendenza dinastica. E ciò, secondo un trattato del 1918, significherebbe annessione alla Francia. C' è chi dice anche che Ranieri, se cedesse quest' anno il potere ad Alberto, dovrebbe autorelegarsi nel ruolo di "consigliere". Prospettiva troppo angusta per un grande manovratore di politica e finanza come lui.




Testata
Epoca

Data pubbl.
11/12/94

Numero
49

Pagina
141

Titolo
EDUCAZIONE SESSUALE "VE LA FARO' STUDIARE COSI'"

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA ECCO IL RIVOLUZIONARIO PROGETTO DEL MINISTRO

Sommario
Gli studenti lo contestano in piazza? E D' Onofrio si butta sul sesso: che dovrebbe essere spiegato in ogni scuola. Parlando di tutto, a cominciare dai preservativi. Ma molti esperti non sono d' accordo. Chi ha ragione? Giudicate voi. 'Ma i professori certi argomenti come li affronteranno?'

Didascalia
FINORA S' E' FATTO Poco Il ministro della Pubblica istruzione
D' Onofrio. Sotto, due immagini dello spot tivù di un' azienda
produttrice di profilattici.
PARLARNE SERIAMENTE Lo scrittore cattolico Camon: mette in guardia
dalle ipocrisie.

Testo
La più esplicita è stata una studentessa olandese. Di fronte ai rappresentanti europei dei ministeri della Sanità e della Pubblica istruzione, riuniti a Roma dal 3 al 5 novembre, ha tirato fuori una banana e le ha messo un preservativo: "Noi a scuola facciamo questo.
Insegniamo ai nostri compagni come si usa il profilattico". Il seguito: una valanga di polemiche (preservativo sì? preservativo no?) sull' insegnamento dell' educazione alla salute e alla prevenzione dell' Aids nelle scuole. Alla fine, però, un risultato c' è stato: un documento ufficiale, la Carta di Roma, che non solo dice sì all' informazione scolastica sui profilattici, ma anche raccomanda ai governi di preparare gli insegnanti a far educazione sessuale coinvolgendo studenti e genitori.
L' Italia si adegua. Un ok alla Carta di Roma arriva infatti dal ministro della Pubblica istruzione, Francesco D' Onofrio. Contestato nelle piazze dagli studenti per la sua riforma della scuola, D' Onofrio sembra volersi rifare su un altro fronte. E rilancia il documento di Roma approvandone le linee-guida, sia quelle relative all' educazione sessuale sia quelle per la prevenzione dell' Aids: insegnanti adeguatamente formati, studenti chiamati a collaborare con gli educatori per proporre e farsi portavoce loro stessi di programmi informativi, coinvolgimento dei genitori. Un tam tam che la scuola deve iniziare ancor prima che i giovani abbiano rapporti sessuali.
"Forse è la volta buona", osserva lo scrittore cattolico Ferdinando Camon. "I ministri dc sono sempre stati bravi a parlare di educazione sessuale senza mai farla". La svolta verrà con l' ex dc (oggi militante del Ccd) D' Onofrio? Il ministro si infervora: "I programmi svolti finora nelle scuole italiane", dice, "sono lontani dalla diffusione ideale. E poi si devono coprire tutte le fasce d' età, con particolare attenzione a quelle tra gli 11 e i 14 anni".
Per questo il ministro pensa a figure professionali nuove, specializzate, e a programmi dotati di finanziamenti propri (nel 1994 sono già stati distribuiti 22 miliardi alle singole scuole da parte dei Provveditorati).
Quali saranno queste nuove figure professionali, come e quando si formeranno, non è ben chiaro. Dovrebbe essere spiegato in una prossima circolare. Nel frattempo, le scuole continuano a orientarsi sulle indicazioni date dall' ex ministro Rosa Russo Jervolino.
Indicazioni contenute in una proposta di legge, approvata dalla commissione Salute della Camera nel gennaio 1992 (ma poi finita in un cassetto), che parlava di sesso a scuola come oggetto di studio "interdisciplinare", al pari dell' ecologia, dell' educazione stradale, della "mondialità", della cultura europea, e chi più ne ha più ne metta.
Informazione scadente. Nello spirito di un' altra legge, la Jervolino-Vassalli contro la droga, ci sono anche una serie di progetti ("Arcobaleno" per la scuola materna, "Ragazzi 2000" per elementari e medie, "Progetto Giovani" per le superiori) che garantiscono finanziamenti alle scuole interessate ad affrontare i temi della sessualità e della salute. Ma quasi sempre con il ricorso a operatori esterni. Per esempio quelli della Lila, la Lega per la lotta all' Aids: "Entriamo spesso nelle scuole", spiega Rossana Citterio, responsabile formazione della Lila, "per fare sia educazione sessuale sia prevenzione contro l' Aids. Ma ci accorgiamo che il livello di informazione è davvero scadente: gli unici a spiegare qualcosa ai ragazzi sono, al massimo, gli insegnanti di scienze".
Eppure proprio sulla prevenzione dell' Aids un intervento corretto sembrerebbe urgente, visto anche che comincia ad abbassarsi l' età in cui si contrae l' infezione: "Secondo i dati ufficiali, in Italia, su 24.511 casi di malattia conclamata, abbiamo 7.407 giovani tra i 25 e i 29 anni. Vale a dire persone che hanno contratto l' infezione dieci anni prima, in piena età scolare", aggiunge la Citterio. Parlar di preservativo diventa dunque un obbligo? "Certo.
E bisogna farlo in maniera concreta. Noi mostriamo il profilattico, spieghiamo quali caratteristiche debba avere... E poi come si srotola, come si mette". Polemiche poche, dice lei: "L' unica obiezione degli studenti è che costa troppo".
Ha molti dubbi sulle capacità dei professori anche un' altra esperta, Roberta Giommi, che dirige, insieme a Marcello Perrotta, l' Istituto internazionale di sessuologia di Firenze (entrambi sono autori per la Mondadori di manuali di educazione sessuale per bambini e ragazzi). La Giommi si occupa della formazione degli operatori Usl che devono intervenire nelle scuole, e osserva: "La sessuologia è una scienza. Chi la insegna deve aver fatto un lavoro psicanalitico su di sé, deve essere in grado di gestire gruppi.
Senza ipocrisie: le informazioni vanno date tutte, per poi lasciare che i ragazzi facciano le proprie scelte".
Attenzione al moralismo, dunque. Anche se il problema morale ritorna e divide gli animi. La Chiesa, che tramite la Conferenza episcopale sollecita da tempo l' introduzione nelle scuole dell' educazione sessuale, si è subito allertata quando si è parlato di prevenzione anti-Aids e di profilattici. Non solo. L' assenso di D' Onofrio suscita proteste pure fra i cattolici laici, come Giorgio Riffelli, direttore del Cis, il Centro italiano di sessuologia: "E' un bel passo indietro. Assurdo pensare a ore di lezioni in cui si parla di educazione sessuale e preservativi. I professori non possono trasformarsi in consulenti di sessuologia. Quel che dovrebbero fare è affrontare eventualmente il tema sesso attraverso la loro materia, offrire strumenti di lavoro".
Perfino all' interno del ministero non tutti sono daccordo con D' Onofrio. Luciano Corradini, vicepresidente del Consiglio nazionale della pubblica istruzione e ordinario di Pedagogia all' Università 3 di Roma, ripropone una filosofia simile a quella della Jervolino: "Una scuola che educa non è quella che insegna la sessualità, ma anche la democrazia, la pace, lo sviluppo, la società, la solidarietà...". Per farla breve: "I principi ribaditi dall' Onu, dall' Unesco, dal Consiglio d' Europa".
E' al criterio della "trasversalità" che si appella Corradini: ciascun insegnante, oltre a occuparsi della sua materia, deve farsi portavoce di un progetto educativo a larghissima gittata, dove il sesso non va trattato in sé e per sé: "E' la sfera pisco-affettiva quella che deve entrare nel curriculum scolastico". Di preservativo neanche a parlarne: "Perché dovrebbe essere la scuola a insegnarne l' uso? Che lo si faccia altrove".
Il progetto del ministro D' Onofrio, insomma, farà discutere. Ma Camon riporta il tutto a termini concretissimi: "Dove hanno la testa i ragazzi quando un professore spiega storia, filosofia, matematica, e via dicendo? Il 25 per cento a quello che ascoltano, l' altro 75 per cento a "quella cosa lì". Allora perché non cominciare a parlarne seriamente?".




Testata
Epoca

Data pubbl.
27/11/94

Numero
47

Pagina
18

Titolo
DROGATI PROCESSO ALLE COMUNITA'

Autore
DI MARCO CORRIAS, MARIA GRAZIA CUTULI E MICHELE MISURACA

Sezione
STORIE

Occhiello
IL CASO Dopo la sentenza Muccioli

Sommario
La vicenda San Patrignano ha acceso i riflettori su un mondo sconosciuto: 700 strutture di recupero che ospitano 16 mila ex tossicomani e che, soprattutto, ricevono 120 miliardi di finanziamenti statali ogni anno. Ma come vengono spesi questi soldi? Con quali risultati? E chi vigila sulla correttezza dei programmi terapeutici? Il ministro Costa ora vuole vederci chiaro. "Epoca" lo ha preceduto e ha messo sotto esame i principali centri antidroga italiani.

Didascalia
NEL MIRINO DELLA MAFIA
Foto di gruppo per
i ragazzi della comunità Saman di Lenzi (Trapani). Il centro,
fondato nel 1980 da Francesco Cardella e Mauro Rostagno (poi ucciso
dalla mafia), ha 25 strutture, 653 ospiti, un bilancio di 7 miliardi
ed è gratuito. Possiede tra l' altro il cantiere navale "Toxic
boats".

Testo
Ma quante sono le comunità terapeutiche in Italia? Quanti ragazzi assistono? E con quali sistemi? Al di là dei centri finanziati dallo Stato, nessuno lo sa. L' epilogo giudiziario del caso Muccioli, condannato a otto mesi per favoreggiamento (vedi riquadro nella pagina a fianco), non ha però risolto il nodo vero della questione: ovvero la gestione del problema droga a partire da San Patrignano. E continuando con le decine di comunità di ogni ordine e tipo di organizzazione che operano in Italia. In effetti, negli ultimi anni, questo tipo di strutture private si sono moltiplicate, sopperendo da un lato a una clamorosa carenza dello Stato, ma creando da un altro lato un problema finora irrisolto e che il caso San Patrignano ha contribuito a far scoppiare: la distribuzione e l' utilizzo senza controllo dei fondi pubblici, talora molto ingenti, messi a loro disposizione. Non è solo questione di soldi. Dietro i cancelli delle comunità c' è un mondo di regole, sistemi di recupero, di controllo sociale e individuale che ogni centro gestisce come vuole al di sopra di ogni verifica pubblica. Non a caso, anche se tardivamente, il ministro della Sanità Raffaele Costa ha appena disposto una serie di controlli a tappeto su tutte le comunità convenzionate con le Usl (700 in tutto, finanziate dallo Stato con circa 120 miliardi di lire l' anno, che ospitano 16 mila ex tossicodipendenti).
In attesa di conoscere l' esito di questa indagine ministeriale Epoca è andata a visitare otto comunità tra le più rappresentative, tutte diverse tra loro nei metodi e nelle strutture. Ma, soprattutto, tutte diverse da San Patrignano. Di ognuna ha esaminato i sei punti cardine che reggono qualsiasi comunità: 1) il sistema di recupero, 2) le regole interne, 3) il numero di ragazzi ospitati, 4) gli operatori che li seguono, 5) le attività lavorative svolte all' interno, 6) i contributi pubblici e privati. Ecco i risultati.
1) Il recupero. Il primo a studiare un vero e proprio metodo di recupero è stato don Mario Picchi del Ceis. Il suo Progetto Uomo prevede programmi elastici. Dopo don Picchi, le comunità si sono moltiplicate. E con esse i metodi, alcuni d' impronta religiosa, altri laicissimi e pragmatici.
Don Oreste Benzi, della comunità Papa Giovanni XXIII, per esempio, teorizza la ricerca dell' Assoluto, o meglio la scoperta di Dio, come mezzo per il tossicodipendente di rivalutare se stesso. Don Mazzi, invece, fondatore delle comunità Exodus, preferisce un approccio più concreto: "La mia scuola è quella di don Bosco: sport, canto, teatro... Ma anche lavoro". E la porta verso l' esterno "è sempre socchiusa". Anzi. Il recupero può addirittura avvenire "on the road" (sulla strada), come nelle "carovane itineranti", gruppi terapeutici che don Mazzi organizza a piedi o in bici attraverso l' Italia e l' Europa.
La stessa frenetica attività degli ospiti di don Mazzi si trova in qualche misura anche a Le Patriarche. "Alla base della nostra terapia c' è il movimento fisico: grandi passeggiate che producono stanchezza e fanno dimenticare il bisogno di eroina", dice Massimo Bagnaschi, uno dei responsabili nazionali. Dalla sede di Le Patriarche a Garbagnate Milanese sono banditi psicologi e terapeuti.
E gli ospiti che arrivano in crisi d' astinenza vengono curati semplicemente con infusi di erbe. "Non ci interessa il passato dei nostri ragazzi, ma solo il loro presente", dicono in comunità. Ed è lo stesso identico concetto che sta alla base della terapia di Saman che ha tra i suoi metodi di recupero la meditazione e altre tecniche orientali. Qui si pratica la "dance" terapia (chiusi in un locale spoglio i ragazzi con gli occhi chiusi si muovono ai ritmi che sentono). Ma il momento più importante è alle cinque del mattino, quando a stomaco vuoto i gruppi si trovano nel locale per una serie di movimenti guidati in assoluto silenzio. "Ma nessuna terapia", concordano gli operatori di tutte le comunità, "può avere successo se non ha alla base regole precise da rispettare".
2) Le regole. Sugli obblighi e sulle punizioni è crollato il mito di Muccioli. Ma anche nelle altre comunità le regole ci sono e vanno seguite. Se in una fase terminale del lavoro terapeutico possono essere "semplici regole di convivenza sociale", dice Cecco Bellodi, responsabile della comunità Il Gabbiano di Nesso, "nella fase iniziale la disciplina deve essere ferrea: non più di tre sigarette al giorno, orari stabiliti per la televisione, niente radio in camera". Disciplina che diventa più o meno dura a secondo delle comunità. La sveglia, per esempio.
Da don Gelmini, il "campanaro" di turno si alza mezz' ora prima degli altri per suonare la campana alle 6 e mezzo. Si va a letto inderogabilmente alle 10 e mezzo. Alle 11 ogni luce viene spenta.
Ancor più duro il risveglio a Saman: alle 5 tutti in piedi per i primi esercizi di gruppo e solo alle 7 arriva la colazione. Di notte, per la comunità si aggirano i "superangeli", vigilantes che hanno il compito di controllare la struttura, ma non solo.
Intervengono e segnalano qualsiasi situazione anomala. Vietati inderogabilmente, pena l' espulsione, la violenza (nel caso di don Gelmini anche quella verbale), ovviamente le droghe, e il sesso "sregolato" tra sieronegativi e sieropositivi. Nelle comunità di don Gelmini, così come nelle otto case che fanno capo al Gabbiano, il problema del sesso poi non si pone affatto. Uomini e donne vivono in strutture separate.
Rigidamente regolati i rapporti con l' esterno. A partire dalla posta. Da don Benzi come a Le Patriarche, ogni lettera viene pubblicamente letta e commentata davanti al gruppo. In quasi tutte le comunità sono rare le telefonate e soprattutto le visite dei familiari. Da don Gelmini sono permesse due domeniche al mese. A Saman, a seconda del ragazzo, una volta al mese od ogni 15 giorni. A Le Patriarche, ogni tre mesi. Impossibile elencare tutti i divieti e i regolamenti delle comunità. Una cosa però è certa: al contrario di San Patrignano, nessuna notizia di violenza o tortura proviene dalle altre strutture.
3) Le dimensioni. Sulla città-stato di San Patrignano il controllo è totale, grazie a un ordinamento verticistico che Muccioli tiene saldamente in pugno. Un' anomalia tra le 700 comunità italiane, che dividono i loro ospiti in strutture di piccole dimensioni. Questo non vuole dire che abbiano meno assistiti di San Patrignano. I centri Incontro di don Gelmini, per esempio, ospitano 4 mila tossicodipendenti, ma distribuiti in 155 strutture, con una media di 25 ragazzi per ciascuna. Quelle di don Mazzi ne raccolgono un migliaio, divisi in 26 centri, sparsi da Bormio, in Valtellina, a Iglesias, vicino a Cagliari.
4) Gli operatori. "Vogliono negare la nostra esperienza per affidarsi a professionisti che di tossicodipendenza non sanno nulla". Gli operatori di comunità sono in rivolta: temono che dietro l' affermazione di Costa si celi l' intenzione da parte dello Stato di appropriarsi delle comunità. Da anni sono loro, volontari, obiettori di coscienza, ma soprattutto ex tossicodipendenti a gestire la vita quotidiana nei centri di recupero. Don Gelmini, per esempio, affida le sue strutture, vedi quella di San Giovanni in Ghiaiolo, vicino a Urbino (10 ospiti in tutto), ai ragazzi che sono all' ultimo anno di terapia. Nessun professionista. Autogestione completa.
A Le Patriarche vige una regola assoluta: ogni nuovo centro viene gestito da ex eroinomani. E la stessa comunità Saman di Lenzi, nei pressi di Trapani, si regge su Mauro Guarinieri, oggi psicologo, ieri tossico. In quelle di don Mazzi, invece, esistono educatori (3 alla cascina di parco Lambro) che provengono dal mondo dello scautismo o dall' obiezione civile. Frequente il ricorso a psicologi, medici, infermieri.
5) Il lavoro. Dai laboratori di pellicceria e di ceramica della cittadella-totale di Muccioli alle serre di don Benzi, dalle serigrafie di don Mazzi alle falegnamerie di Le Patriarche, fino agli orti della comunità Saman. Il lavoro fa parte di quasi tutti i programmi terapeutici. A San Patrignano, gli ospiti sono costretti a lavorare 8 ore al giorno. Gratis. E la produzione ha uno sbocco di mercato (fatturato 20 miliardi all' anno). Nelle altre comunità, invece, quello che viene prodotto serve al consumo interno. Nelle comunità Incontro i ragazzi coltivano orti, allevano polli e conigli per se stessi, garantendosi così sempre un pasto in tavola.
Più o meno simile il concetto di lavoro nelle 25 strutture della comunità Saman. A Lenzi, nella sede storica, gli ospiti dedicano tutta la giornata ai "servizi": riordinano le stanze, si occupano di lavanderie e cucina. Insomma, ordinaria gestione della vita quotidiana. "Possediamo in tutto 7 ettari di terreno, ma spesso siamo costretti a comprare le verdure e persino le uova al mercato", dice il responsabile Mauro Guarinieri. E Francesco Cardella, che con Mauro Rostagno (ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988) ha fondato Saman, aggiunge: "Un tentativo di allevamento industriale di polli in Calabria è stato un disastro".
L' unico posto dove proprio non vogliono sentir parlare di lavoro è invece il Crest, con sede a Canonica di Cuveglio, vicino a Varese.
"Il precetto "ora et labora" vale per i sani, non per i tossicodipendenti", dice uno dei due soci fondatori, Roberto Bertolli, psichiatra. "La nostra terapia esclude categoricamente qualsiasi forma di produzione. Il paziente deve concentrarsi solo su se stesso". La retta è piuttosto salata: sei milioni al mese.
6) I contributi. Ma quello del Crest è uno dei pochi casi in cui si paga. Nelle altre comunità, la famiglia non è obbligata a versare rette. A meno che, come accade nei centri Incontro di don Gelmini o a Le Patriarche, nel corso dei colloqui preliminari i responsabili non stabiliscano che la famiglia è in grado di versare un contributo. Quanto? Dipende dal reddito.
Ma, allora, di cosa vivono le comunità? Intanto dell' assistenza pubblica. Le Regioni possono finanziare progetti specifici: programmi per minori, laboratori, corsi di artigianato o ampliamenti delle strutture. Le Usl a loro volta danno un contributo giornaliero per ogni ospite, che varia dalle 23 mila lire della più povera Usl siciliana alle 60 mila del Piemonte. Coro di proteste da parte degli operatori: "Le mie comunità costano 7, 8 miliardi l' anno", dice per esempio don Mazzi del gruppo Exodus, "ma solo il 50 per cento di questa cifra viene coperto dallo Stato".
Don Benzi, fondatore dei centri Papa Giovanni XXIII, rincara la dose: "Se dovessimo campare di questo staremmo freschi. Mai una volta che le rette delle Usl arrivino in tempo". Poco, in ritardo, ma è sempre qualcosa quello che dà lo Stato: "Il giorno che quest' aiuto dovesse mancare del tutto sopravviverebbero solo i preti. Che orrore! I poveri tossici sarebbero costretti a vivere in luoghi infernali", ribatte Francesco Cardella di Saman, teorico del lusso e della bellezza come strumenti di terapia. Ma lui si salva anche con le donazioni private: 600 milioni l' anno rimpolpano un bilancio che è di 7 milardi.
E non è l' unico. Se Muccioli ha avuto come numi tutelari i Moratti (12 miliardi l' anno secondo quanto avrebbe rivelato lo stesso Gianmarco), quasi tutte le comunità godono di aiuti privati.
DON BENZI LA MIA RICETTA? E' FATTA DI GIOIA Nome: PAPA GIOVANNI XXIII Fondazione: nel 1980 a Igea (Forlì) a opera di don Oreste Benzi (nella foto).
Sede centrale: Rimini.
Strutture: 27 centri, molti in Emilia Romagna e nelle Marche.
Numero ospiti: 400 Filosofia di recupero: terapia dell' Assoluto, della gioia, creatività, responsabilità.
Tempi di terapia: due anni e mezzo circa.
Operatori: in media sei per struttura.
Rette: tutto gratis per le famiglie. Le Usl pagano secondo la convenzione.
Finanziamenti: pubblici, tramite le Usl, e donazioni private.
Bilancio: 5 miliardi l' anno.
Altre attività: a scopo terapeutico, piccoli lavori di falegnameria, floricoltura, artigianato. La cooperativa "Rimini servizi" occupa ospiti che hanno finito la terapia, e opera in diversi settori (coltivazione di fiori, lavori idraulici, ecc.).
DON PICCHI CON L' AIUTO DELLE FAMIGLIE Nome: CEIS Fondazione: alla fine degli anni Sessanta a Roma, a opera di don Mario Picchi (nella foto).
Sede centrale: Roma, via Attilio Ambrosini 129.
Strutture: tre centri tra Roma, Castelgandolfo e Capannelle, alla periferia della capitale.
Numero ospiti: 800 assistiti, i residenti variano e sono ospitati solo a Capannelle e Castelgandolfo.
Filosofia di recupero: "Progetto uomo" col coinvolgimento delle famiglie e psicoterapie.
Tempi di terapia: cinque mesi al massimo.
Operatori: 500 di cui la metà volontari.
Rette: tutto gratis per le famiglie. Le Usl pagano secondo la convenzione.
Finanziamenti: 3 miliardi e 900 milioni da enti pubblici, 3 miliardi e 600 da privati.
Bilancio: 9 miliardi e mezzo.
Altre attività: nessuna.
DON GELMINI QUI IL SEGRETO E' IL "FAI DA TE" Nome: INCONTRO Fondazione: nel ' 79 ad Amelia (Terni) a opera di don Pierino Gelmini (nella foto).
Sede centrale: Mulino Silla di Amelia.
Strutture: 155 centri in Italia e 40 all' estero.
Numero ospiti: 4 mila.
Filosofia di recupero: responsabilizzare il tossicodipendente affidandogli la gestione diretta della comunità.
Tempi di terapia: tre anni.
Operatori: nessuno.
Rette: 600 mila lire al mese (ma le versa solo chi, secondo don Gelmini, può permetterselo). Le Usl pagano in base alla convenzione.
Finanziamenti: pubblici, tramite le Usl, ma soprattutto donazioni private.
Bilancio: non precisato.
Altre attività: nessun prodotto viene venduto. Ogni comunità produce per il proprio mantenimento.
DON MAZZI LAVORO, SPORT E ANCHE SPETTACOLO Nome: EXODUS Fondazione: nel 1984 a Milano, a opera di don Antonio Mazzi (nella foto).
Sede centrale: Cascina di parco Lambro a Milano.
Strutture: 26 centri in tutta Italia.
Numero ospiti: un migliaio.
Filosofia di recupero: la promozione umana attraverso la riscoperta delle proprie potenzialità. I mezzi: il lavoro, lo sport, l' arte, lo spettacolo.
Tempi di terapia: due anni.
Operatori: 60.
Rette: tutto gratis per le famiglie. E' la Usl che paga la retta giornaliera.
Finanziamenti: pubblici, da parte delle Usl, dei Comuni e delle Regioni. Donazioni private.
Bilancio: 8 miliardi.
Altre attività: piccoli laboratori di pellicceria, falegnameria, serigrafia; serre, programmi informatici.
IL GABBIANO IMPARARE UN MESTIERE CONTRO LA SOLITUDINE Fondazione: nel 1983 a opera di fratel Attilio Tavola.
Sede centrale: Piona, sul lago di Como.
Strutture: 8 "case" in Lombardia (nella foto, una camera della sede di Nesso).
Numero ospiti: 110.
Filosofia di recupero: dal monastero alla fabbrica, dall' isolamento iniziale all' apprendimento di attività lavorative, attraverso alcune tecniche psicoterapeutiche.
Tempi di terapia: due anni.
Operatori: un responsabile per struttura, 40 educatori, un centinaio di volontari, più sette psicologi esterni.
Rette: tutto gratis per le famiglie. E' la Usl che paga la retta giornaliera.
Finanziamenti: pubblici e donazioni private.
Bilancio: 4 miliardi.
Altre attività: una coop agricola.
LE PATRIARCHE ANCHE UNA NAVE SERVE PER GUARIRE Fondazione: nel 1972 a opera di Lucien J. Engelmajer. Presente in Italia dal 1985.
Sede centrale: Tolosa (Francia).
Strutture: 250 nel mondo, 30 in Italia.
Numero ospiti: 500 in Italia, 6 mila nel mondo di cui 1.500 italiani.
Filosofia di recupero: vita comunitaria e disintossicazione a base di tisane, bagni, massaggi, passeggiate.
Tempi di terapia: dai due ai tre anni.
Operatori: per ogni struttura una decina. Tutti ex tossicodipendenti.
Rette: le famiglie pagano solo se possono.
Finanziamenti: pubblici da Usl, Comuni, Regioni. Molte le donazioni private.
Bilancio: non precisato.
Altre attività: artigianato (nella foto una falegnameria) e produzioni agricole. La comunità possiede anche una nave da carico usata più volte per scopi umanitari.
CREST QUESTO E' DIVERSO DA TUTTI GLI ALTRI Si paga una retta di sei milioni al mese.
Fondazione: nel 1981 a opera di due psichiatri, Roberto Bertolli e Furio Ravera.
Sede centrale: uffici a Milano, comunità a Canonica di Cuveglio, vicino a Luino (Varese).
Strutture: clinica Le betulle ad Appiano Gentile (Como), oltre alla comunità di Canonica.
Numero ospiti: 50.
Filosofia di recupero: secondo i principi della psicologia cognitivo-comportamentale: conoscenza e controllo delle proprie emozioni. Esclusa ogni attività lavorativa.
Tempi di terapia: due anni.
Operatori: 20.
Rette: 200 mila lire al giorno, 6 milioni al mese. Non esiste alcuna convenzione con le Usl.
Finanziamenti: esclusivamente privati.
Bilancio: 2 miliardi l' anno.
Altre attività: Centro medico per i disturbi della personalità e tossicomania, di cui è presidente Marella Agnelli.

BOX
MA ADESSO, CARO VINCENZO, DEVI IMPARARE A ESSERE TOLLERANTE Assolto dall' accusa di omicidio colposo per la morte di Roberto Maranzano; condannato, per favoreggiamento dei responsabili di quel delitto, a 8 mesi. Ma con forti attenuanti: e niente carcere. Sta facendo discutere la sentenza che ha chiuso il processo a Vincenzo Muccioli. E, mentre la minaccia di nuove inchieste incombe su San Patrignano, in discussione viene messa la stessa filosofia seguita dal fondatore della più famosa comunità italiana. Sui suoi metodi, Epoca ha chiesto un parere ai responsabili di alcune fra le altre principali comunità.
Don Antonio Mazzi, "Exodus": "San Patrignano va ristrutturata, anche se sbaraccare tutto mi pare eccessivo. Molta gente, quella che sta lì da 8, 10 anni, andrebbe portata fuori".
Don Pierino Gelmini, "Incontro": "Pensare di chiudere San Patrignano è una sciocchezza. Qualcosa di positivo s' è fatto anche lì. E invece si tende a processare un sistema piuttosto che un fatto preciso. E' sbagliato".
Don Oreste Benzi, "Papa Giovanni XXIII": "Il limite di San Patrignano è proprio Muccioli. Non può gestire da solo una comunità così grande".
Roberto Bertolli, "Crest": "Se io mi azzardo a legare un ragazzo finisco sotto processo. Perché devono esistere posti, come San Patrignano, dove le leggi dello Stato non valgono o dove comunque lo Stato non controlla?".
Cecco Bellosi, "Il gabbiano": "Muccioli dimentica che non ha davanti solo soggetti da redimere, ma anche persone".
Massimo Bagnaschi, "Le Patriarche": "Siamo vicini a chiunque ottenga risultati. Come Muccioli siamo contro il metadone. Ma non siamo amici né di Taradash, né di Gasparri e quindi neanche di Muccioli".
Francesco Cardella, "Saman": "All' inizio ha rappresentato un' esperienza importante. Ora bisognerebbe fargli capire che occorre essere tolleranti".




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/11/94

Numero
45

Pagina
142

Titolo
I DUE KILLER DI NICHOLAS? LI ABBIAMO PRESI COSI'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA "EPOCA" SVELA I RETROSCENA DELL' ARRESTO

Sommario
"Macché soffiata, i colpevoli sono caduti in trappola grazie a tre telefonate sbagliate". Ecco tutta la verità sull' operazione "riscatto". "Abbiamo svolto un' indagine "tecnica": controlli e intercettazioni"

Didascalia
UN' ACCUSA TERRIBILE Da sinistra: Francesco Mesiano, 21 anni, e
Michele Iannello, 26. Secondo gli inquirenti hanno ucciso Nicholas
Green. Iannello è considerato un "soldato" della ' ndrangheta,
mentre Mesiano sarebbe soltanto un ladro d' auto. I due progettavano
l' assalto a un orefice con un' auto simile a quella dei turisti
americani.
RESTANO I FIORI
Il punto dell' autostrada tra Vibo Valentia-Mileto dove Nicholas
Green è stato ucciso il 29 settembre.
TORNATI IN AMERICA
I genitori di Nicholas nella loro casa di Bodega Bay in California.
Prima di rientrare in patria sono stati ricevuti ufficialmente dal
presidente Scalfaro e dal sindaco di Roma Francesco Rutelli.

Testo
No, non era un balordo qualsiasi Michele Iannello, 26 anni, presunto assassino di Nicholas Green, il bambino americano ammazzato il 29 settembre sull' autostrada calabra tra Vibo Valentia e Mileto.
Affiliato della ' ndrangheta, Iannello passava per un "soldato" della cosca dei Mancuso di Limbadi, potentissima nella piana di Gioia Tauro, plurispecializzata in traffico di droga, estorsioni, riciclaggio italiano ed estero. E come "soldato" nel 1991 avrebbe pure partecipato a un agguato mortale contro una cosca avversaria, quella dei fratelli Chindamo.
La notte del 29 settembre però, Michele Iannello si era tirato dietro uno "sciacqualattuga" come si direbbe dalle sue parti, uno che non conta niente, Francesco Mesiano, 21 anni, panettiere e manovale saltuario del crimine. Eppure il piano era crudele: una finta rapina a un orafo consenziente (il 50 per cento a lui, il resto ai due compari) che in realtà doveva concludersi con l' omicidio del commerciante per intascare tutto il bottino. Un piano che per tragico errore si è trasformato nel caso più scioccante dell' anno, con un bambino di 7 anni ammazzato sotto gli occhi dei genitori (la cui Y10 era stata scambiata per quella del portavalori) e il grande gesto di padre e madre che, dopo la morte del figlio, hanno deciso di donarne gli organi in Italia.
Ma in questa vicenda le cosche non c' entrano. "Le rapine sono reati nelle quali le famiglie, dedite a ben altri traffici, non vogliono entrare", spiega il colonnello Pasquale Ippolito, capo del reparto operativo dei carabinieri di Cosenza, artefice insieme alla polizia dell' arresto dei due criminali. "Gli affiliati possono agire in proprio, senza dover rendere conto a nessuno. E' un "contentino" per evitare che diano fastidio".
Il fastidio però, con tutto il clamore che l' omicidio ha suscitato in Italia (con la Calabria paragonata alla trucidissima Miami) e negli Stati Uniti (da dove sono partite bordate contro la scarsa efficienza delle nostre forze dell' ordine), c' è stato eccome.
Tanto da autorizzare il sospetto che le cosche potessero preparare un intervento punitivo contro i due "killer". Si parla di "incaprettamento" o più semplicemente di una soffiata fatta ad arte ai carabinieri... "Falso, falsissimo. Non solo non ci sono state minacce", dice il colonnello Ippolito, "ma nemmeno spiate per metterci sulle orme dei due. Abbiamo svolto un' indagine "tecnica", passato al setaccio i personaggi sospetti, utilizzato le informazioni che arrivavano dalle nostre stazioni e le intercettazioni".
Tre in particolare, gli "ascolti" che avrebbero messo carabinieri e polizia sulla strada giusta. La prima, avvenuta l' 8 ottobre. Un amico parla con Michele Iannello e chiede: "Valìa a pina fari stu omicidio?" (Valeva la pena fare quest' omicidio?). Iannello, nella risposta, conferma che è vero: insieme a Francesco Mesiano ha ammazzato un bambino. Nella seconda salta fuori la storia del gioielliere consenziente a farsi derubare, e l' idea di Iannello di ammazzarlo e prendersi tutto il bottino. La terza, infine, è di Francesco Mesiano che confessa tutto a una persona fidata.
Possibile che dopo un fatto gravissimo i "killer" discutano con tanta leggerezza al telefono del loro crimine? "Parlare incautamente, anzi vantarsi, è nella mentalità di questa gente", dice il colonnello, "è un modo per dimostrare la propria indipendenza dalle cosche".
Errore imperdonabile per Iannello che fino a quel momento, da "soldato" della ' ndrangheta, era riuscito a passare indenne dall' accusa di un altro omicidio. Quello raccontato da un pentito, Annunziato Raso, affiliato ad altri boss della zona di Gioia Tauro, i Piromallo-Molè. Raso, svelando i retroscena di 42 esecuzioni mafiose, aveva parlato anche di un agguato contro i fratelli Chindamo, ordinata, programmata ed eseguita nel 1991 dagli stessi Piromallo-Molè in collaborazione con i Mancuso. Succedeva a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, dove un commando armato di kalashnikov ammazzò Vincenzo Chindamo, ferì il fratello Antonio, mentre Giosuè, l' ultimo dei tre, ne uscì indenne.
Secondo il pentito, Iannello faceva parte del commando. Arrestato nel 1993, quest' ultimo venne però subito scarcerato su istanza del tribunale della Libertà di Reggio Calabria per mancanza di prove. A febbraio del 1994 scattò un nuovo ordine di custodia cautelare.
Anche stavolta il ricorso al tribunale della Libertà gli risparmiò la carcerazione. A maggio, Iannello, sfacciato, arrogante e più che mai sicuro di sé, era nuovamente libero.
Del suo complice, Francesco Mesiano, "lo sciacqualattuga", si sa invece che gravitava sì nello stesso giro dei Mancuso, ma che più di un furto d' auto non aveva mai commesso. Reato comune, in particolare su quel tratto di autostrada fatale al povero Nicholas, che ha nella cosiddetta "salita di Pizzo" le sue forche caudine: una ventina di furti di Tir solo nell' ultimo anno. "Sono chilometri difficili da controllare", dice il colonnello Ippolito, "senza caselli, senza luci, con decine di punti d' accesso persino dalla campagna. Ma per carità, non si scriva che è il Bronx". No, è l' Italia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
16/10/94

Numero
41

Pagina
45

Titolo
I CLUB DEL DIAVOLO IN ITALIA? ORGE E MESSE NERE MA CI VUOLE LA TESSERA

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
IL MASSACRO IN SVIZZERA - I RISCHI IN ITALIA

Sommario
Dai "Bambini di Satana" fino alla "Confraternita di Efrem", mappa e riti (anche di iscrizione) delle sette sataniche nel nostro Paese.

Didascalia
LO STUDIOSO A sinistra: Massimo Introvigne, uno dei maggiori
studiosi italiani di religioni alternative. Ha appena pubblicato con
Mondadori "Storia del Satanismo". "Gli adepti nel nostro Paese sono
5-6 mila soltanto".
DUE MILIONI IN ITALIA
Sopra: Marco Dimitri, bolognese, capo dei Bambini di Satana. A
destra: Lorenzo Alessandri, che molti hanno definito "Papa Nero" di
Torino. In Italia i satanisti, secondo le stime dei cattolici, sono
2 milioni.

Testo
BOX
Tra i culti "alternativi", di cui fa parte quello del Tempio del Sole, un peso sempre più forte stanno acquistando le sette propriamente sataniche. Da non confondere con i seguaci svizzeri di Luc Jouret (che aspettavano l' Apocalisse e temevano l' Anticristo), i satanisti si "limitano" ad adorare il Demonio. I loro riti, tuttavia, al pari di quelli del Tempio del Sole, possono essere molto cruenti.
Quanti sono e che cosa fanno esattamente i satanisti italiani? Alla prima domanda (vedi anche l' articolo principale) è difficile rispondere: i conti cambiano secondo la fonte. I cattolici dei Gris (gruppi di ricerca sulle sette nati nelle maggiori diocesi italiane) calcolano per esempio due milioni di devoti e 800 sette che inneggiano a Satana. Quattro anni fa, sempre secondo i Gris, le sette italiane erano 300. Da parte laica, i toni sono meno allarmistici. Massimo Introvigne, studioso di religioni alternative in Italia, che ha appena pubblicato con Mondadori Indagini sul satanismo dal Seicento ai nostri giorni, parla di 5 o 6 mila seguaci di Satana al massimo.
Alla seconda domanda, cioè che cosa fanno e in che cosa si distinguono tra loro le Chiese dei satanisti, è invece più facile dare risposta. "Bisogna distinguere tra i satanisti "ufficiali" organizzati in vere e proprie sette, dai "parasatanisti", cioè maghi, stregoni, occultisti che fanno magia nera per i loro clienti, e dai "satanisti" selvaggi, aggregazioni spontanee e incontrollabili", dice Introvigne che nel suo volume finisce per accreditare soltanto i primi. Gli "ortodossi", insomma: coloro che fanno capo a Chiese in qualche modo istituzionali, con santoni riconosciuti, bollettini divulgativi, quote e moduli d' iscrizione.
Chiese "pubbliche", come "I bambini di Satana" di Bologna e la "Confraternita di Efrem Del Gatto" a Roma, entrambe propense a venire allo scoperto e far proselitismo. O anche organizzazioni segrete, come le due Chiese di Satana di Torino, sulle quali molto si favoleggia, e l' Oto (Ordo Templi Orientis) di Roberto Negrini, derivazione italiana di un' antica organizzazione iniziatica basata su rituali di magia sessuale.
I bambini di Satana. Sono guidati da un' ex guardia giurata di Bologna, Marco Dimitri, 31 anni, autobattezzatosi la "Bestia 666" (numero satanico-apocalittico). Frequentatore da ragazzino di Fratellanza Cosmica, gruppo adesso defunto che vantava all' epoca scambi e contatti con gli extraterrestri sotto la guida di Roberto Negrini (lo stesso dell' Oto), Dimitri si è convertito a Satana nel 1982. Da allora organizza riti dabolici tra Rimini, Riccione e Forlì. Previa iscrizione e versamento di 100 mila lire per la tessera di socio, la setta promette ai suoi adepti partecipazioni a messe nere con rituali sessuali ultra-variati: dagli accoppiamenti "uomo-donna", a "uomo-uomo", "donna-donna", "uomo-donna-uomo", "donna-uomo-donna" e via crescendo, con optional sado-masochisti "necessari a sprigionare", dice Dimitri-la Bestia, "certe energie".
La Chiesa di Efrem. Più casti, a Roma, i seguaci di Efrem del Gatto, nome d' arte di Sergio Gatti, 49 anni. Qui il sesso non è particolarmente in auge. Vengono preferite le flagellazioni liberatorie, i riti con il sangue e i tagli sul corpo. Efrem dice di avere 150 mila adepti, e più di 8 mila battezzati secondo il rito della Casa, che non è propriamente satanista, ma luciferiana.
Differenza? "Certo. Lucifero, imperatore di tutti i demoni, è superiore a Satana".
Torino: Chiesa numero 1. A illuminare i misteri di Torino, dove si parlava tra il 1968 e il 1972 di 50 mila satanisti (ma pare fosse una burla di un gruppo di goliardi), viene in aiuto il volume di Introvigne, che richiama alla memoria le origini sessantottine delle due Chiese sataniche piemontesi. La prima sarebbe nata in ambienti della buona borghesia torinese, affascinata da LaVey, il "prete nero" di San Francisco, che fu amico, tra l' altro, del regista Roman Polanski. Dalla sua scuola gli adepti italiani avrebbero ereditato la messa nera rituale con accoppiamento sessuale dopo l' elevazione dell' ostia. La Chiesa ha una cinquantina di seguaci.
Torino: Chiesa numero 2. La seconda Chiesa, in fiera concorrenza con la prima, ha rinnegato LaVey preferendo contatti con alcuni gruppi parigini e si propone come obiettivo il "vedere qualcosa". Quello che si è visto finora è però solo qualche transfuga che "ha raccontato storie sgradevoli agli esorcisti torinesi - qualche volta anche alla polizia - a base di rapporti sessuali con cadaveri e di problemi in cui sono incorse neofite che non erano preparate al sapore "forte" dei rituali", scrive Introvigne. Quali rituali? Su una cosa concordano tutti i satanisti: in nome del demonio tutto è permesso.




Testata
Epoca

Data pubbl.
25/09/94

Numero
38

Pagina
116

Titolo
HO SCOPERTO IO LA SUPERTRUFFA DELLE USL (MA DA ALLORA VIVO BLINDATA)

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
MALASANITA': PARLA CONCETTA CIMINO, LA "DAMA DI FERRO" CHE HA FATTO ARRESTARE PRIMARI E MANAGER FARMACEUTICI

Sommario
Spulciando tra le spese dei laboratori d' analisi, un' ispettrice della Regione siciliana ha scoperto il meccanismo, semplice ma efficace, con cui medici e aziende hanno rubato 1.200 miliardi di lire. Adesso è una donna in pericolo.

Didascalia
SOTTO SCORTA
Concetta Cimino, 47 anni, palermitana, divorziata, madre di due
ragazze, funzionaria all' assessorato regionale siciliano della
Sanità. Da quando ha scoperto la truffa miliardaria delle analisi
del sangue, vive guardata a vista da agenti di polizia.
Giancarlo Caselli
Il capo della Procura di Palermo l' ha chiamata a dare la sua
collaborazione
Raffaele Costa
Il ministro della Sanità l' ha consultata sui problemi delle
Usl siciliane

Testo
Fino a ieri, Concetta Cimino, 47 anni, palermitana, era un funzionario qualunque dell' assessorato regionale della Sanità, in Sicilia. Una burocrate, addetta a firmare carte e a poco altro, nonostante una specializzazione da analista di economia sanitaria presa al Formez di Napoli.
Oggi, Concetta Cimino, è una donna in pericolo. Vive sotto scorta, collabora con il giudice Giancarlo Caselli, procuratore capo a Palermo, e persino il ministro della Sanità Raffaele Costa l' ha scelta come consulente. Motivo? E' stata proprio lei a ricostruire, tassello per tassello, l' ultima mega truffa alla sanità pubblica.
Quella sulle analisi del sangue, mille e 200 miliardi in Sicilia, 15 mila in tutta Italia. Incassati negli ultimi dieci anni da primari d' ospedale e manager di colossi farmaceutici come la Bayer, la Beckman, la Boerhinger Mannheim, la Dasit. Concetta Cimino ha insomma scoperto che in cambio del "comodato d' uso", la cessione gratis di macchinari ai laboratori delle Usl, le case farmaceutiche vendevano solventi necessari alle analisi di laboratorio, a un prezzo maggiorato dalle 10 alle 300 volte rispetto a quello corrente. Primari e amministratori Usl venivano poi "ringraziati" con viaggi premio da un capo all' altro del continente. E non solo: "La trama di tangenti e corruzioni sembra molto più ampia e complessa", spiega Concetta Cimino. "Ma a ricostruirla ci stanno pensando i magistrati. Non è certo affar mio".
Affar suo è un lavoro che lei insiste a definire "tecnico amministrativo". Un controllo sulle spese che, però, ammette, è andato oltre le sue previsioni. "E' stato come dover gestire una catena di sant' Antonio. O peggio, come sporgersi su un baratro".
Troppo per un quieto funzionario della Regione, vissuta fino a ieri tra pratiche di ordinaria burocrazia? "No, per carità. Non mi sono mai sentita tanto realizzata nella vita. Mi sembra di aver fatto veramente il mio dovere".
C' è da crederle. Piccola di statura, occhi nerissimi da siciliana verace, un neo impertinente sul labbro destro, Concetta Cimino non sembra donna da lasciarsi facilmente intimorire. Oltre al lavoro, ha due figlie con le quali vive in un appartamento nella zona centrale del Politeama, una cagnetta trovata per strada e un matrimonio fallito alle spalle. Figlia di un capostazione, testarda, volitiva, per sua stessa definizione, la signora Cimino ha preso la laurea in giurisprudenza dopo il divorzio, con due figlie già a carico.
Qualche anno fa se n' è andata a Napoli per specializzarsi come analista di economia sanitaria, lasciando le ragazzine a Palermo.
Amicizie dice di non averne. Fa vita abitualmente ritirata, tanto che non le pesa nemmeno andare in giro con la scorta.
Domande scabrose. Da quando lavora in assessorato, però ha sempre avuto un suo pallino: l' analisi delle spese, la programmazione economica nel settore Sanità. Il suo ritornello preferito era infatti: "Perché si continuano a erogare contributi a pioggia? Perché nessuno controlla come, dove e quando vengono utilizzati i soldi della Regione?". Interrogativi quanto meno impopolari nella Palermo degli anni scorsi, quella dominata dall' intreccio mafia-affari-politica, destinati però a diventare attuali quando il vento di Mani pulite è cominciato a spirare anche al sud.
E' a gennaio del 1993 che il neo-assessore alla Sanità, il democristiano Mario Firrarello, dà via libera alla dottoressa Cimino per un' analisi "sullo stato di utilizzo delle spese in conto capitale". Il famoso controllo "tecnico amministrativo" al quale la zelante dirigente comincia a dedicare tutto il suo tempo. Le affibiano un staff d' ufficio. Ma lei si fida solo di se stessa. Va in giro a fare ispezioni, richiede bilanci, fatture, decreti di finanziamento, tabulati... Legge, rilegge migliaia e migliaia di scartoffie. Traduce al computer. Ed ecco le prime scoperte: "L' edilizia sanitaria. De Lorenzo aveva previsto 5 mila miliardi da destinare agli ospedali siciliani. Esamino uno stanziamento di 2 mila e 200 miliardi e trovo che ne sono stati impiegati solo 400".
Il resto solo sulla carta: una serie di progetti, come quelli affidati allo studio Prometeo, finanziati per decine di miliardi, ovviamente mai realizzati.
Secondo shock: la visita al Centro professionale di Caltanissetta: "Ottima iniziativa, pensare alla formazione del personale medico e paramedico. Peccato che le priorità in Sicilia siano altre. Nel vicino ospedale mancano persino gli ascensori. Insomma, come vedere una bella donna in abito da sera e ciabatte ai piedi". Ed è a Caltanissetta che la dottoressa si imbatte nei primi casi di "comodato d' uso". Scopre, per esempio, che negli anni in cui è presidente della Regione il democristiano Rino Nicolosi e assessore alla Sanità Bernardo Alaimo, il collaudo delle attrezzature date "in comodato" viene affidato a un gruppo di magistrati di Caltanissetta "preoccupati solo di garantire equilibri...".
Girando per la Sicilia, Concetta Cimino ricostruisce una rete di 62 Usl, tutte dotate di attrezzature per analisi al sangue, prese con il "comodato d' uso". "Per carità. Niente di diabolico. La legge lo permette. A patto però che poi si faccia una gara d' acquisto per i reagenti da utilizzare. Qui invece le industrie farmaceutiche riescono a imporre i loro reagenti a prezzi esorbitanti. Il trucco? Gli amminstratori li registrano sotto la voce "spese correnti", saltando quella "conto capitale" che prevede la gara pubblica". Si scopre anche che la Regione elargisce denaro per l' acquisto di macchinari, ma lo fa a vantaggio di Usl piccole, dove le analisi al sangue sono poche ed è quindi scarso l' uso di reagenti. Dove cioè le case farmaceutiche non avrebbero molto da guadagnare. "Insomma", dice la dottoressa. "Mi sento il contrario di Re Mida. Quello trasformava in oro tutto ciò che toccava. Io dove metto le mani trovo schifezze".
Il frutto di questi primi mesi di lavoro si traduce in 18 esposti alla magistratura. E in un considerevole numero di dispetti e ripicche contro la funzionaria regionale. Da parte di chi? Concetta Cimino racconta un aneddoto: "Qualche mese dopo che avevo cominciato i controlli, mi son dovuta operare al ginocchio. L' intervento è costato 22 milioni. Per legge, l' Usl di Palermo avrebbe dovuto rimborsarmi il 60 per cento della spesa. Quanti soldi ho visto? 850 mila lire in tutto". Avvertimento punitivo per aver ficcato il naso in certi affari. Ma forse anche effetto di un cambio di guardia avvenuto in assessorato.
Al posto di Firrarello arriva infatti Antonio Gallipò e con lui si blocca tutto il lavoro dello staff di Concetta Cimino.
Fortunatamente per poco tempo. L' assessore successivo, Antonino Borrometi, un avvocato di Ragusa che in questi giorni ha appena chiesto la sospensione di 40 primari intendendo anche costituirsi parte civile nel processo contro le case farmaceutiche, ridà il via alle indagini della "Dama di ferro" della Sanità. Che ricomincia a lavorare ritmi frenetici: "Dalle 6 del mattino a notte fonda.
Sabato, domenica... Anche il giorno di ferragosto. E sempre con l' ansia addosso".
Il gioco infatti diventa via via più pesante. Anche perché il procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, la chiama a Palazzo di Giustizia come consulente. E le impone la scorta.°"All' inizio, correre a sirene spiegate sulla macchina della Guardia di Finanza mi metteva addosso un' agitazione pazzesca. Solo adesso comincio ad abituarmi".
Per scaricare l' ansia la dottoressa dipinge: "Ecco qui, queste anime in pena sono i miei colleghi d' ufficio. Poi ogni tanto fingo di essere Dante e di collocare un bel po' di gente nei gironi giusti. Certi assessori, per esempio, tra gli ignavi...non ci stanno proprio bene?". Ma Concetta Cimino rischia davvero la vita? Lei alza le spalle: "Caselli probabilmente sa, ma preferisce non dirmi nulla.
Io posso solo immaginare...".
Che brutta fine hanno fatto gli altri supertestimoni Cerminara Vive isolata, lontana dalla Calabria, sorvegliata 24 ore su 24, dal gennaio del 1992, quando Rosetta Cerminara, 21 anni, decise di denunciare i killer della ' ndrangheta che uccisero il maresciallo Salvatore Aversa e la moglie. Uno dei due assassini, Renato Molinaro, era il suo fidanzato.
Bocedi Nell' ottobre del 1991 aveva fatto arrestare un' intera banda di taglieggiatori. Oggi Paolo Bocedi è un uomo finito. Ha dovuto vendere il suo negozio, a Saronno, e non ha nemmeno i soldi per pagare la bolletta della luce: lo Stato gli ha sospeso l' indennità prevista per i collaboratori di giustizia.
Velleca Aveva una piccola azienda conserviera a Sant' Anastasia, vicino a Napoli. Tre anni fa Maria Rosaria Velleca si ribellò ai suoi estorsori. Risultato: nessun grossista comprò più la merce da lei e i suoi dipendenti si licenziarono. A parte la scorta, dallo Stato non ha avuto niente.
Nava Non ha pace dal 21 settembre 1990. Pietro Ivano Nava (che non è mai stato fotografato per motivi di sicurezza), il supertestimone che ha inchiodato i killer del giudice Livatino, vive lontano dalla famiglia e con uno stipendio che gli passa lo Stato. E ha perso un ottimo lavoro.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/09/94

Numero
37

Pagina
124

Titolo
DOVE COMANDANO I CRIMINALI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI ROCCO DE BENEDICTIS ha collaborato Alberto Selvaggi

Sezione
STORIE

Occhiello
IL CASO BARI: QUANDO LO STATO E' SOTTO TIRO Città invivibili

Sommario
Sette aggressioni ai poliziotti in due mesi. Quartieri controllati dai clan. E un magistrato che accusa: "Gli agenti troppo spesso chiudono un occhio". Viaggio nella capitale della malavita pugliese.

Didascalia
NELLA ROCCAFORTE DELLA MALA L' operazione di polizia del 6 settembre
al San Paolo di Bari: la risposta della Questura all' ultima
aggressione alle volanti.
ISPEZIONE MINISTERIALE Achille Serra (al centro), vicecapo della
polizia, con Antonio Arricchiello, questore di Bari.
PERIFERIA DEGRADATA Blocco stradale dei carabinieri. Molte famiglie
del San Paolo sono coinvolte nei traffici illegali.

Testo
E' un' alba di guerra quella che il 6 settembre si leva livida sulla spianata del quartiere San Paolo di Bari. Dietro le finestre dei palazzi popolari, sotto l' assedio di 130 poliziotti in divisa, migliaia di occhi inquieti spiano la strada, attenti alle mosse degli agenti. Il rombo di un elicottero risuona ossessivo sul fortino della malavita barese, la roccaforte criminale dove venerdì 2 settembre si è consumata l' ennesima aggressione della popolazione a una volante. L' ultima delle sette segnate da giugno sul brogliaccio della Questura. Scattate ogni volta che gli agenti inseguivano un sospetto. Le auto della polizia bloccano le vie di fuga: la stradella del Tesoro e viale Europa, check-point preferito degli scippatori. Ma i risultati non sono granché. Molte irruzio ni al San Paolo vanno a vuoto.
A casa di "Giamburrasca", noto ricettatore, i poliziotti trovano tutti i familiari tranne lui. Scene di disperazione della madre ("Mio figlio che fa di male? Vende e compra"). In un' officina della zona industriale, indicata come deposito di auto rubate e Tir saccheggiati, solo una mezza dozzina di vecchissime targhe. Nelle cantine della Traversa 75 topi e ragni, anche se da una finestra sono appena piovuti due caricatori e un sacchetto con 45 proiettili calibro 7,65.
Pax mafiosa. L' operazione di polizia al San Paolo si rivela blanda: 5 arresti, 3 per furto, 2 per evasioni, ma tutte esecuzioni di ordinanze di carcerazione, di gente cioè già destinata alla galera.
Un' operazione di facciata, puramente "dimostrativa", voluta dal questore di Bari Antonio Arricchiello, dopo che l' aggressione del 2 settembre è finita sui giornali di tutta Italia. E giusto il giorno prima che il vicecapo della polizia, l' ex questore di Milano, Achille Serra, arrivi a Bari in visita ufficiale per controllare di persona come stanno le cose.
Ha un bel dire il questore, contro chi invoca l' intervento dell' esercito, che "in città non esistono zone di extraterritorialità", che "non ci sono santuari criminali". Sette scontri in due mesi non è poca roba. La dinamica è sempre la stessa: gli agenti inseguono il malvivente, ma subito scattano parenti, amici, conoscenti. Con tecnica "alla somala": donne e bambini che fanno da scudi umani. Volano sulla testa dei poliziotti pentole, piatti, bicchieri, sedie, tavolini... "In certe zone", racconta Anna Maria Millo, 30 anni, unica agente donna tra i Falchi della squadra antirapina, vittima lei stessa di un' aggressione al San Paolo, "appena ci fermiamo qualche minuto, ci troviamo addosso centinaia di persone: botte da orbi. L' unica è scappare".
Ma l' impennata di violenza, il dilagare dell' impunità a Bari, regno di una mafia atipica che qualcuno bolla come "quarta mafia", ha una spiegazione? Se gli omicidi sono in calo, 43 nel 1992, 19 nel 1993, 7 fino ad agosto 1994, segno di relativa pace tra la "famiglie", spaccio di droga, rapine d' auto, saccheggi ai Tir, scippi, contrabbando, traffico d' armi, continuano a proliferare.
Il maxi processo che si è concluso la primavera scorsa con un totale di 39 condannati, mandando in galera capiclan, come Andrea Montani e Michele Diomede, boss del San Paolo, o Antonio Capriati, capoclan della Città Vecchia, avrebbe decapitato le cosche tradizionali, cambiando l' organigramma delle "famiglie" e instaurando un clima di "anarchia" delinquenziale. "Mancano i leader carismatici", spiega il vicecapo della mobile, Ruggero Borzachiello. "Alcuni affari sono stati ereditati dai figli dei boss, mentre è aumentata la microcriminalità: contro i minori per legge si può far poco o niente". A una struttura verticistica, insomma, si sarebbe sostituita una delinquenza trasversale, fatta di legami parentali, amicizie di quartiere, solidarietà diffusa.
Tutto chiaro, insomma? Non esattamente. Da Palazzo di Giustizia, dove la Procura della repubblica si è rifiutata di spedire al Gip la richiesta di prolungamento dell' arresto dei tre aggressori fermati dalla polizia proprio durante i tafferugli del 2 settembre, arriva anche un' altra spiegazione. Secondo Angelo Bassi, sostituto procuratore: "Gli agenti intervengono a singhiozzo. Per lungo periodo chiudono un occhio, poi arrestano. Risultato: una criminalità che si sente "legalizzata"".
Al San Paolo, dove tra l' altro abitano parecchi poliziotti, anche la gente si lamenta. Un venditore di sigarette di contrabbando intervistato dal Tgtre, ha sostenuto che la polizia fa il buono e il cattivo tempo. Mentre la criminalità diventa sempre più aggressiva.
Per il sostituto procuratore Bassi, i clan a Bari sono più forti che mai. "Mafia finanziaria", dice il magistrato. E poi "bande vaganti, addestrate militarmente". Nel Bronx pugliese le armi non mancano. A Bari vecchia, ma anche al San Paolo, a Enziteto, a Japigia, a San Girolamo, nei luoghi "storici" del degrado e della disperazione, i clan possiedono arsenali da guerra, Kalashnikov, Bazooka, Skorpion, Uzi... Al San Paolo, dove le condizioni di vita assomigliano sempre di più a quelle di un lager (una sola cabina telefonica per tutto il quartiere, autobus presi abitualmente a sassate dai ragazzini, casbah di palazzi senza luce e senza fogne), al vecchio business della droga si aggiunge quello del saccheggio ai Tir. Ogni carico vale oltre 200 milioni. Famiglie come i Giammaria, i Vavalle, i Delle Foglie contano ormai su un' organizzazione articolatissima. I carichi preferiti: carni e vestiti. Per rivenderli non c' è problema. Molte famiglie del quartiere sono coinvolte nell' affare.
"Il sistema è il frazionamento della merce", spiega Massimo Aimola, comandante della locale compagnia dei carabinieri. Sì, al San Paolo, dove da due anni si aspetta l' apertura di una "cittadella della polizia", esiste una caserma soprannominata Fort Apache, già bersaglio di attentati, autobombe comprese. Ma per il capitano, figlio di generale, Spitfire parcheggiata davanti alla caserma, l' origine del problema è di carattere sociale. Un aneddoto: "Durante una perquisizione a casa di una donna, madre di 6 figli, abbiamo scoperto l' intero arsenale dei Manzari. Lo teneva lì in cambio del denaro necessario a pagare la bolletta della luce".
Sigarette e scippi. Da San Paolo al porticciolo di San Girolamo.
Molti clan hanno ramificato le loro attività, investendo anche sul contrabbando. Qui vittima delle aggressioni della popolazione è la guardia di Finanza. Spiega un ufficiale: "I costi dell' attività sono aumentati, da quando i contrabbandieri si sono trasferiti dall' Albania al Montenegro. La legge ha inasprito le sue sanzioni, cosicché chi lavora con le sigarette pur di non perdere un motoscafo è disposto a tutto". A San Girolamo si vive di questo. Oppure di scippi. Uno proprio davanti alla macchina del finanziere.




Testata
Epoca

Data pubbl.
11/09/94

Numero
36

Pagina
38

Titolo
IO, PRETTY WOMAN ALL' ITALIANA VI RACCONTO LA MIA VITA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI RICCARDO GERMOGLI / SESTINI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL CASO STORIA DI PAULA: PROSTITUTA STRAPPATA AL MARCIAPIEDE DALL' AMORE DI GIOVANNI

Sommario
Minorenne. Albanese. Arrivata in Italia sognando la libertà e sùbito finita in strada. Poi la svolta: l' incontro con un bravo ragazzo e un nuovo mondo che si apre. Proprio come Julia Roberts nel film di Hollywood. Ma qui il lieto fine sembra lontano. Il perché lo spiega lei a "Epoca".

Didascalia
Il racket li minaccia, non possiamo farvi vedere il loro volto
COMPLEANNO IN INCOGNITO Mercoledì 31 agosto ' 94: Paula compie 18
anni. Festeggia con Giovanni, il suo "salvatore", in un appartamento
segreto di Genova dove si sono nascosti per sfuggire al racket degli
albanesi.
ADESSO CERCANO LAVORO Giovanni e Paula: vogliono sposarsi al più
presto.

Testo
A vederla in viso, il paragone rimbalzato su tutti i giornali non sembra nemmeno azzardato. Paula, la giovanissima prostituta albanese strappata al marciapiede da Giovanni, 21 anni, ragazzo genovese cresciuto tra gli agi alterni di una famiglia piccolo-borghese, assomiglia davvero alla Julia Roberts di Pretty Woman. A parte la vicenda da film di cui è protagonista che ha colpito tutta Italia, il suo aspetto è molto simile a quello dell' attrice: una massa di capelli scuri e ricci sulle spalle, occhi castani da cerbiatta, bocca perfetta, pelle chiarissima, collo da cigno. Smorfie e risate da bambina.
Anche Giovanni, che dice di voler vivere con lei e un domani chissà sposarla, è un bel ragazzo bruno, con i capelli impomatati dal gel, un ciuffo sulla fronte, lo sguardo sensuale e gli abiti fin troppo impeccabili per la giovane età. Non è un rampollo della Genova-bene, come i giornali avevano scritto all' inizio. Abita in un palazzo anonimo della periferia, a scuola non ha concluso granché, ma è figlio unico, coccolato dai parenti, appassionato di motori. Va in giro con una spider rosso fiamma comprata di seconda mano lavorando come metronotte, una carretta rimessa a posto con le sue mani, pezzo per pezzo fino a trasformarla nel suo gioiello.
Giovanni ha visto Paula per la prima volta una notte d' agosto mentre batteva su un vialone. Le ha rivolto la parola qualche giorno dopo, incuriosito dal suo viso di bambina. Notte dopo notte, seduti in macchina, si sono raccontati le loro vite fino a decidere, all' alba del 21 agosto, di andar via insieme.
Dormono per terra. Convincerli a venire allo scoperto non è stato facile, perché per ora Giovanni e Paula (i nomi sono ovviamente convenzionali) vivono in clandestinità a casa di amici.
L' appartamento è piccolo. Loro dormono per terra. Dividono la recente intimità con una mezza dozzina di persone. Non sanno ancora bene come affrontare il futuro visto che sono entrambi senza soldi e senza lavoro. Ma, almeno per il momento, si sono messi al riparo da ritorsioni e vendette.
Mentre in Italia l' opinione pubblica si spacca sulla prostituzione dopo i provvedimenti dei sindaci di Milano e Venezia contro i "clienti" delle lucciole (vedi riquadro in basso), la loro storia d' amore in bilico tra coraggio e incoscienza è una sfida alle ferree leggi del racket. Se il protettore di Paula, l' ex "fidanzato" che l' aveva convinta a fuggire dall' Albania, Misha Armando Mbaloma, 22 anni, è finito in galera con l' accusa di induzione e sfruttamento della prostituzione, altri albanesi del giro potrebbero infatti non aver abbassato il tiro contro i due ragazzi.
Giovanni aveva scambiato qualche battuta al telefono con i giornalisti, ma di farsi vedere con Paula non ne voleva sapere.
Inutilmente i cronisti hanno pattugliato il quartiere dove vivono i genitori. In casa, nei giorni scorsi, c' è stata solo la madre, una casalinga di 38 anni dalla voce pacata, lo sguardo timido e spaventato. Fa lei da mediatrice con i ragazzi, che accettano l' intervista con Epoca il 31 agosto, lo stesso giorno del diciottesimo compleanno di Paula.
Nata nel 1976. Arrivano tenendosi per mano, stesso sorriso sulla faccia, stesso candore nel racconto di un incontro che vivono come un' incredibile avventura, ma che sanno bene potrebbe cambiare per sempre la loro vita. Paula gioca con i capelli mentre racconta.
"Sono nata a Berat, un paese a sud di Tirana, il 31 agosto 1976", recita. E si capisce subito che preferisce essere precisa su questi dettagli anziché sugli aspetti più scottanti della storia. "Tre figli. Io sono la più piccola. Con mia sorella dicevamo sempre che volevamo venire in Italia a fare le modelle". Ride.
Due anni di ginnasio in paese, ma "studiare non mi piaceva, a parte la geografia". Invece era brava a pallavolo: "Ero capitano della squadra. Volevo diventare campionessa". E i genitori che l' hanno lasciata venir in Italia con il fidanzato? "Sì, lo sapevano tutti al mio paese che le ragazze albanesi in Italia fanno quel lavoro lì. Ma i miei si fidavano di Misha". La povertà fa chiudere un occhio? "Mio padre era commissario di polizia, mia madre insegnante. Prima stavamo bene. Poi non tanto".
"Prima", sono gli anni del regime comunista di Enver Hoxha: "Tutti avevano due stanze e una cucina, noi invece tre stanze e una cucina". Poi è la fine del regime, arriva il governo di transizione di Ramiz Alia e nel 1992 la nuova democrazia di destra di Sali Berisha: "Mio padre ha perso il lavoro, mia madre l' hanno trasferita in una scuola lontano da casa". Nel 1992, Paula incontra Misha Armando Mbaloma, compagno di scuola della sorella. Un giovanotto che non godeva di buona fama in paese, "era uno che faceva casino", ma da quando era partito dall' Italia con la prima ondata di profughi pensavano tutti che fosse cambiato. "Era diventato più maturo. E poi molto intelligente". Come una faina. Si fidanza con Paula e le mette in testa il tarlo dell' espatrio: "Mi diceva che in Italia aveva una casa e un lavoro in una serra. Non sapevo niente della denuncia a piede libero per aver picchiato una ragazza. Tante volte gli ho chiesto: ma tu, Misha, mi farai fare quel lavoro lì? E lui: ma sei pazza, ho anch' io una sorella. Così mi ha convinto. Abbiamo detto ai miei che saremmo partiti. Ma non dovevano sapere quando. Meglio non salutarsi, se no, diceva Misha, porta male".
Il D-Day scatta alla vigilia dello scorso Natale. Misha va a prendere Paula in macchina per fare un giro. All' improvviso: "Oggi si parte". Paula ha adosso un giubbotto e un paio di jeans, ma Misha promette che le comprerà tutto in Italia. "Partiamo di notte in motoscafo. Una ventina di persone. Sbarchiamo a Otranto. No, nessuno ci controlla. Lì prendiamo un taxi fino a Bari". Il comitato d' accoglienza è formato da tre albanesi con una macchina targata Treviso. E Treviso sarà appunto la prima tappa del calvario di Paula. "Lì, in casa di uno dei tre, hanno cominciato a parlarmi di ragazze che "lavoravano". Una di loro l' avevo conosciuta e mi aveva avvertito: Misha farà lavorare anche te. Non ci credevo". Il momento è invece arrivato presto: "Lavorerari tu", ha detto Misha, "che sei in grado di guadagnare molto più di me". Treviso, Modena, poi Milano. Cinquecento, 600, 700 mila, un milione a notte. Fino a dieci clienti: 200 mila alla volta, più l' albergo. Uno shock? Paula fa una smorfia: "Beh, all' inizio sì. Ora sono otto mesi che lo faccio".
A Milano però erano rimasti senza soldi. "Così lavoravo anche di giorno. In piazzale Loreto dove ci sono le negre. Quando finivo prendevo il metrò, poi il taxi fino a Binasco, dove trovavo Misha che dormiva". Mai un attimo di riposo, mai un regalo, un abito che non fosse "da lavoro". "L' unico desiderio che mi rimaneva era tornare a casa il giorno del mio compleanno. Misha mi aveva detto di sì. Ma un mese fa mi ha avvertito: scordatelo, non ci sono i soldi".
Se n' erano andati tutti nell' acquisto di un fuoristrada Nissan con i tubi cromati.
Di raccontar la storia ai genitori neanche a parlarne. "Li ho sentiti spesso per telefono, ma c' era sempre accanto "lui" che minacciava di ammazzare me e mio padre se avessi detto qualcosa".
Come assaggio, una coltellata alla gamba, un giorno in autostrada mentre lei protestava e piagnucolava che non voleva più fare quella vita. Mesi di paura, al punto da consegnare tutto nelle mani di Misha. Milioni su milioni. A Genova è arrivata a guadagnare anche più di un milione a notte. Fino a quando non è arrivato Giovanni.
I loro destini si sfiorano per caso, ai primi bagliori di un' alba insonne. Giovanni è reduce da una discoteca, a bordo della sua spider rossa, Paula in minigonna. Giovanni le chiede: "Che fai?" E lei: "Lavoro". "Vuoi che parliamo un po' ?", dice il ragazzo. Paula si siede sul cofano della spider. Ma chi è Giovanni? Perché se ne va in giro a chiacchierare con le prostitute? Il ragazzo ripete la sua versione: "Mi aveva colpito lei. L' avevo già notata . Non potevo credere che facesse quel mestiere". Giovanni... La madre lo definisce un paladino di tutte le cause disperate ("Da bambino portava in casa i cani randagi. Da adolescente aveva sempre qualche amico nei guai da aiutare"). Lui si descrive un ragazzo come tanti, cresciuto tra le difficoltà economiche di una famiglia che ha il mutuo della casa ancora da pagare e il lavoro del padre, agente di commercio, che a volte rende e a volte no. Per hobby, i motori. Come sogno, fare il collaudatore di macchine. Dopo tre anni di informatica, Giovanni si era iscritto alla scuola di Maranello, vicino a Modena, che una volta apparteneva alla Ferrari. Ma anche qui dura poco, due anni appena: "Mi ero innamorato di una ragazza che stava a Genova. E poi la scuola era cara. Per riasparmiare dovevo dormire in canonica". La ragazza che gli ha "rovinato" la carriera l' ha poi lasciato. Ma Giovanni non si è perso d' animo: "Per un anno sono stato in crisi. Poi ho trovato lavoro con contratto a termine come metronotte". Ha fatto il disc-jokey, e anche l' elettricista. Ma la sua passione sono rimasti i motori, come quello della spider, importata per due milioni dalla California.
La famiglia si mobilita. Era in macchina anche quando ha incontrato Paula. Quella prima notte e le altre che verranno dopo. "Mi ha raccontato la sua vita e ho deciso di portarla via". Ma le altre prostitute albanesi la controllano a vista. Una di loro fa la spia.
"L' ultima volta che sono andato da Paula, il 21 agosto, ho capito che non avevamo più tempo". La dinamica della fuga è complessa.
Paula aveva con sé una borsa che apparteneva a un' amica e non poteva andarsene senza restituirla. Ma l' amica è la stessa che stava per fare la spia. Così Giovanni chiama un suo amico. Lasciano la borsa a lui e scappano. L' amico viene subito bloccato dai protettori, minacciato e condotto a forza sotto casa di Giovanni. I due fuggitivi se ne accorgono prima di rientrare e con un giro di telefonate avvertono la madre, il padre e la nonna del ragazzo di quello che sta succedendo. Amici e parenti si mobilitano tutti.
Trovano alla coppia un posto per dormire, mentre sotto casa di Giovanni arriva una Volante della polizia. Sono le ragazze della squadra antistupro del commissariato di Foce Sturla. Gli albanesi finiscono la notte sotto interrogatorio, mentre scatta il fermo per Misha Armando Mbalona. Senza fissa dimora, senza documenti, con in tasca in compenso un carnet d' assegni staccati per svariati milioni (si sospetta un traffico d' auto), il fidanzato di Paula ha già a suo carico una precedente denuncia a Treviso, per sfruttamento della prostituzione.
Nascoste sulle navi. Racket? "E' ancor presto per dirlo", spiega il vicequestore Angela Burlando. "L' impressione è che ogni albanese controlli la sua ragazza, dotandola di passaporto con falsa nazionalità bosniaca". A Genova, dove gli extracomunitari (15 mila quelli registrati in questura senza contare i clandestini) già l' anno scorso avevano scatenato la rivolta dei carrugi, gli albanesi sono gli ultimi arrivati. Dormono sulle barche ormeggiate al porto. Nessuno sa con precisione quanti siano. Ma la storia di Paula rivela l' esistenza di alcune decine di ragazze, quasi tutte minorenni, reclutate come prostitute. Tra le ipotesi, il sospetto che dietro il loro ingresso in Italia dalla Puglia ci sia una copertura della Sacra Corona Unita, la mafia locale. L' affare prostituzione sarebbe poi gestito da autentiche gang, come farebbe pensare l' uccisione a Milano di Shyqyri Kranisqui, un albanese di 32 anni, collegato al mondo delle lucciole.
Ma Paula e Giovanni insieme si sentono forti: "Paura? No, non abbiamo paura", dice la ragazza. Si nasconderanno ancora, non per molto. "Ho da cercare un lavoro", aggiunge Giovanni, "adesso tengo famiglia". Paula ride. Al dito luccica l' anello di fidanzamento.




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/08/94

Numero
32

Pagina
52

Titolo
GENOVA, ORE 23: SOS, CHIAMATE SQUADRA ANTISTUPRO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
ESTATE VIOLENTA AUMENTANO IN TUTT' ITALIA IN QUESTI GIORNI DI FERIE I CASI DI AGGRESSIONE SESSUALE. ECCO CHI LI COMBATTE

Sommario
Sulle spiagge e nei vicoli del centro. Nei parchi e lungo le scogliere. Nel traffico cittadino e perfino al largo, sui gommoni. Approfittando dell' agosto i maniaci si sono "messi in caccia". Contro di loro, ogni giorno, combattono gruppi specializzati di poliziotte e poliziotti. Come? Noi abbiamo seguito uno di questi reparti speciali in Liguria. Per raccontarvelo. SULLE TRACCE DEI MANIACI SESSUALI CON LA SQUADRA ANTISTUPRO DELLA QUESTURA DI GENOVA

Didascalia
QUI SI RISCHIA MOLTO
Due agenti della squadra antistupro di Genova durante un controllo
nel sottopassaggio di Quinto al Mare, tra i luoghi più a rischio in
città.
LI COMANDA LEI Il vicequestore Angela Burlando, 56 anni, capo della
squadra antistupro di Genova, insieme ad alcuni degli agenti che
lavorano con lei. In tutto i componenti della squadra sono una
decina: in maggioranza giovani donne.

Testo
D' estate è anche peggio. Da tener sott' occhio, contro gli stupratori, c' è pure la spiaggia. Quella che da Genova, tra le curve e i tornanti dell' Aurelia, va verso Santa Margherita.
Scogliere, anfratti, siepi, cespugli fioriti, ideali per agguati e molestie. Pertanto la dottoressa Angela Burlando, 56 anni, vicequestore aggiunto al commissariato di Foce Sturla a Genova, a mezzogiorno sale sulla sua Cinquecento bianca e va in spiaggia, giù verso Nervi. "Vorrei beccare il maniaco che ho visto ieri. E tu, Cristina", rivolta alla giovane poliziotta in divisa, "mettiti il bikini e accompagnami".
Come cavallette. Il maniaco, avvistato il giorno prima, fa parte di quell' ondata di guardoni, voyeur ed esibizionisti che d' inverno spiano le coppiette in macchina, e d' estate si abbattono sulle spiagge come cavallette nel Sahel: "Com' è? Sulla quarantina, massiccio e tarchiato. Pochi capelli, costume rosso ascellare. Stava sulla riva, guardingo. Tipico... quelli come lui sembrano persino riservati. Poi eccolo in acqua a strusciarsi con le ragazzine.
Subito dopo è scomparso, da solo, dietro un cespuglio". Pericoloso? "No, questo genere di persone non arriva mai alla violenza vera e propria. Ma danno fastidio, eccome".
Sarà istinto di sopravvivenza o intuito premonitore, fatto sta che stavolta il maniaco non si fa vedere. La dottoressa Burlando, con il suo piglio maschile, i capelli corti a spazzola tinti di biondo e la pelle abbronzata, lo aspetta invano sul suo scoglio-postazione. In compenso nel pomeriggio, al commissariato, il funzionario si trova sul tavolo l' ennesima denuncia per violenza sessuale.
E' la ventunesima raccolta negli ultimi sei mesi negli uffici di Foce Sturla, da quando Angela Burlando, vicequestore aggiunto, 10 anni di lavoro in polizia femminile più 17 alla Criminalpol, è stata nominata dal questore di Genova capo della prima "squadra antistupro" della Riviera ligure. La squadra, formata da sei giovani donne e tre uomini incaricati di schedare maniaci e bruti da strada, ma soprattutto di condurre le indagini sulle violenze vere e proprie, ha arrestato in questi mesi 6 persone, tutte responsabili di stupro su minorenni.
Il "Chi è" della squadra. Sotto il matriarcato della "Dottoressa", che è tra l' altro sindacalista di prima linea del Siulp e buona amica delle femministe dell' Udi, c' è un commissario: Alessandra Bucci, 28 anni, brunetta, piccoletta, vivace, che le fa da braccio destro. Un sovrintendente: Donatella Pistone, 31 anni, alta, magra e bionda, che aiuta a smistare le pratiche. Due agenti, Cristina, 26 anni, castana, e Monica, bionda, minuta, gambe lunghe dentro un paio di Levi' s, la pistola nascosta nel marsupio, che a turno si prestano a fare da esche. "O l' una o l' altra, le mando in moto con un poliziotto, ovviamente in borghese", racconta il vicequestore Burlando, "a perlustrare le zone battute dagli stupratori. Loro si fingono una coppietta in cerca d' intimità". Un sistema che funziona sempre: "Me l' hanno insegnato 30 anni fa in polizia femminile. A quei tempi però, da sola, senza il collega maschio. Calze a rete, borsetta, e un fischietto al collo per lanciare l' allarme quando il potenziale stupratore minacciava di diventar pericoloso". Del resto la "squadra antistupro", legittimata da una circolare ministeriale del 1991, eredita proprio i compiti della vecchia polizia femminile.
"Per occuparsi di reati di questo tipo ci vuole la sensibilità adatta", dice la dottoressa Burlando. Molta delicatezza ma anche una buona dose di spregiudicatezza.
Ci sono i bruti da spiaggia, con variante offshore, "l' esibizionista in gommone che si tira giù il costume non appena si avvicinano le bagnanti". C' è il maniaco della Festa dell' Unità: agisce solo in presenza di "compagne", con l' impermeabile apri-e-chiudi sulle sue nudità.
Ma ci sono anche tanti altri, molto più pericolosi. In un sottopassaggio di Quinto, per esempio, un tunnel stretto e lungo dove qualcuno ha scritto sul muro "Welcome to Bronx", una ragazzina di 14 anni si è vista un coltello piantato alla gola da un uomo con il passamontagna. "E' successo in pochi secondi. L' uomo le camminava davanti. Lei lo ha sorpassato e quello l' ha presa alle spalle". La ragazza è riuscita a scappare, ma si è lacerata una mano con la lama del coltello. Nello stesso sottopassaggio, un altro, già soprannominato il "bruto di Quinto", ha costretto una bambina all' uscita di scuola a un rapporto orale.
"Ormai", racconta Giulio De Marinis, uno dei due sovrintendenti che lavorano con la Burlando, "conosciamo non solo le tipologie più comuni di maniaci, guardoni, potenziali violentatori, ma anche gli orari, invernali ed estivi, in cui operano, e le zone". Sul finire dell' inverno e l' inizio della primavera l' attacco scatta all' uscita della scuola, tra le 12 e mezzo e l' una, e nel tardo pomeriggio, tra le sei e mezzo e le sette, quando le strade si svuotano perché la gente rientra a casa dall' ufficio. D' estate, quando il caldo sembra scatenare tornado ormonali, ogni momento è buono, ma specialmente la tarda serata.
Evitare i vicoli. I posti sono quelli più vicini al mare: oltre al famigerato sottopassaggio, la stazione di Nervi, proprio dietro casa del neo ministro della Giustizia Alfredo Biondi. Luogo sinistro, questa stazioncina, praticamente abbandonata, benché i treni continuino a passare. A parte un' ora al mattino, dalle 8 alle 9, in cui c' è un ferroviere che stacca i biglietti, durante il resto della giornata è dimora di tipi loschi e di ratti. C' è poi Villa Grimaldi a Nervi. Splendido parco, ma anche labirinto di luoghi oscuri, dove il maniaco di turno non manca mai. Infine, ad alto rischio per le coppiette, i vicoli ciechi del quartiere residenziale di Albaro.
"E' la struttura urbana di Genova che facilita gli agguati", dice la dottoressa Burlando. "I sottopassaggi che portano al mare, i tanti fiumi in periferia, ma anche i vicoli del centro storico". Un immenso off limits, specialmente per gli stranieri, che non sanno bene fin dove possono avventurarsi e fin dove no. L' estate, foriera di pericoli, ha colpito anche in questo senso. Due casi. Una svizzera che sarebbe stata aggredita da uno sconosciuto dal quale aveva accettato un passaggio in macchina. E una coppietta di ragazzi tedeschi che avevano trovato da dormire in un magazzino. Sono stati braccati da uno slavo ubriaco che, sotto la minaccia di un punteruolo, ha spinto la ragazza a legare il fidanzato per poi tentare di abusare di lei. Il ragazzo però è riuscito a scappare, rompendo la vetrata che li separava dall' uscita. Si è spaccato una mano, in compenso ha messo in salvo sé e la fidanzata.
Ma i veri successi della "squadra antistupro", in questi mesi, non sono le indagini da strada. E' l' arresto di 6 persone responsabili di violenze sessuali su minorenni. Reati consumati soprattutto nell' ambito familiare, padri che violentavano le figlie, amori rubati da sedicenti "amici" di famiglia, un ex fidanzato addirittura, che voleva vendicarsi di un abbandono. Uno dei 6 arrestati è già stato condannato a due anni di carcere: un vecchio che ha violentato una bambina di 9 anni. "Lei uno scricciolo, vivace, furbissima. La madre le aveva vietato di allontanarsi da casa. Abitano alla periferia di Genova, vicino a un fiume... Ma lei come Cappuccetto Rosso aveva scovato una baracca dove il vecchio allevava conigli e galline. Era entrata in confidenza con l' uomo che con la scusa di giocare al dottore ha cominciato a violentarla regolarmente".
Paura dello scandalo. Un altro caso: due ragazzine handicappate, di 13 e 14 anni, violentate dal padre che per giunta le vendeva ad amici e conoscenti in cambio di un pacco di spaghetti. "Purtroppo", racconta il vicequestore, "le difficoltà maggiori qui le abbiamo incontrate proprio con le bambine, che non si rendevano nemmeno conto di quello che il padre faceva loro". Altrettanto agghiacciante la catena di stupri ai quali era sottoposto un gruppo di maschietti minorenni, da parte di un amico di famiglia. Con l' omertà dei genitori, i quali, una volta scoperto cosa l' amico faceva ai loro figli, piuttosto che far scoppiare uno scandalo hanno preferito non denunciare. "Un problema per noi. Secondo la legge, infatti, possiamo procedere solo se si sporge querela. Nel caso di violenza su minori devono essere i genitori a farlo, nella violenza sui maggiorenni, coloro che l' hanno subita". Un punto sul quale la legge è rimasta a lungo impantanata in Parlamento: "Per poter agire efficacemente contro gli stupri abbiamo chiesto come Siulp e continuiamo a farlo", dice la dottoressa Burlando, "di poter muovere d' ufficio l' azione penale".
"Lo prenderemo". Eppure oggi, in confronto al passato, si denuncia più frequentemente. "Rispetto all' epoca in cui lavoravo in polizia femminile, c' è sicuramente da parte delle donne un coraggio maggiore". Angela Burlando, sposata con un tecnico dell' Ansaldo, mamma adottiva di due gemelli rumeni, un maschio e una femmina di 14 anni, sostiene che il pericolo più comune è proprio per i bambini: "Che le madri stiano all' erta. Il trauma di una violenza è una macchia incancellabile". L' estate, d' altra parte, moltiplica i tranelli: "Il nostro maniaco, quello da spiaggia, che ho avvistato ieri... Ha cominciato a toccarsi davanti alle ragazzine, proprio dietro alle spalle delle loro mamme. Ah, a proposito...", alla giovane agente, tornata in divisa: "Ricordati il costume, Cristina.
Che domani, me lo sento, lo prendiamo".

BOX
COME SCORAGGIARE GLI AGGRESSORI? CHE COSA FARE SE SI E' VITTIME DI VIOLENZA? DECALOGO DI AUTODIFESA PER LE DONNE Le volontarie del Telefono rosa hanno scritto un manuale antistupro.
Ecco i 10 consigli fondamentali.
1 IN CASA - Fai sistemare uno spioncino sulla porta d' ingresso per controllare chi suona. - Prima di aprire, anche se sei sola, grida: "Vado io, Mario". O ancor meglio: "Continua a tagliare tu". - Individua chi sono i tuoi vicini e a quali di essi puoi eventualmente chiedere aiuto. - Se abiti a un piano basso chiudi bene finestre, inferriate e serrande. Ricorda che la catenella o il paletto di ferro all' interno funzionano bene contro il "piede di porco". - Non scrivere il tuo nome e cognome sulla targhetta. Meglio le iniziali. - Se abiti a un piano basso poggia sul davanzale oggetti che cadendo possono far rumore. - Non tenere in casa oggetti che possono essere usati come armi. Chi entra potrebbe approfittarne.
2 IN GARACE - Se l' illuminazione è scarsa munisciti di una torcia potente. - Se hai dubbi, chiedi sempre a qualcuno di accompagnarti.
3 IN ASCENSORE - Non salire mai sola con uno o più sconosciuti. - Se qualcuno ti spinge dentro con la forza suona il campanello d' allarme.
4 AL TELEFONO - Non rispondere a chi ti chiede: "Chi parla?" con il tuo nome e cognome. Ma chiedi a tua volta: "Con chi vuol parlare?" - Lascia in segreteria messaggi al plurale, anche se vivi da sola.
5 PER STRADA - Cammina contromano, cioè rivolta verso le macchine che arrivano. - Se sei seguita, entra in un negozio, in un ristorante, o chiedi aiuto ai passanti. - Tieni a mente le strade che frequenti e ricorda quali negozi chiudono tardi, i palazzi con portiere, i cinema, le chiese, i commissariati. - Se ti senti in pericolo non gridare "Aiuto", ma "Al fuoco!". Questo fa accorrere anche i passanti che non vorrebbero essere coinvolti nelle tue faccende private.
6 IN AUTOSTOP - Se accetti un passaggio da un uomo che ti sembra rassicurante (e sono proprio gli uomini di questa categoria che si rivelano più pericolosi), controlla, facendo in modo che lui se ne accorga, il numero di targa.
7 IN MACCHINA - Controlla sempre, prima di salire, il sedile posteriore della tua auto. - Tieni sempre le sicure giù. - Non parcheggiare se sei seguita. Prosegui fino al bar più vicino o al commissariato di polizia.
8 IN AUTOBUS, TRENO, TAXI - In caso di molestie in autobus, grida: "Mi lasci in pace" e poi rivolgiti al guidatore perché faccia scendere il molestatore. In treno, non entrare in scompartimenti con tendine abbassate o luci smorzate. - Non accettare di salire su taxi abusivi o di farti accompagnare da sconosciuti in pensione o hotel.
9 SE SEI STATA VIOLENTATA - Parla con persone di fiducia. - Rivolgiti a un Centro di orientamento dei diritti della donna, come il Telefono rosa. - Vai in un Pronto soccorso medico o in un consultorio per farti visitare: il certificato è importante anche ai fini dell' azione penale. - Conserva i vestiti che portavi al momento dell' aggressione, senza lavarli. Servono anch' essi come prova, se sporgi denuncia. - Prima della visita medica, non lavarti.
Potresti cancellare tracce importanti per identificare il colpevole.
10 DENUNCIA SEMPRE IL REATO - E' un modo di proteggere te e le altre donne. - La denuncia, formulata come querela, deve essere presentata entro 3 mesi dal fatto. Al processo potrai presentare elementi di prova, anche senza l' assistenza di un legale. Se sei minorenne, chi esercita la patria potestà ha tre mesi di tempo per la querela a partire dal momento in cui è venuto a conoscenza del fatto.




Testata
Epoca

Data pubbl.
31/07/94

Numero
30

Pagina
18

Titolo
SE UNA NOTTE D' ESTATE UN VIAGGIATORE ...

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI RICCARDO GERMOGLI

Sezione
STORIE

Occhiello
CANDID-CAMERA IN STAZIONE

Sommario
Che cosa può capitare, luglio 1994, a una ragazza che perde l' ultimo treno della sera e non ha i soldi per pagarsi l' albergo? La cronista di "Epoca" ha fatto questa prova in tre grandi città italiane, Roma, Milano e Genova. Tra pericolose offerte di ospitalità e minacce di scippi, tra rischi di violenza e gentilezze inaspettate, viaggio avventuroso di una turista "qualsiasi" nell' ultimo rifugio dei derelitti metropolitani. Un marocchino continua a seguirmi da un capo all' altro della piazza. Mi blocca in un angolo. "Dove vai?". "Sono fatti miei". "Ti ho chiesto dove vai". "Lasciami stare, o chiamo la polizia". "Ho capito, sei già con un cliente"

Didascalia
Roma
La stazione Termini chiude a mezzanotte e riapre alle 5 del mattino.
Può restare in sala d' attesa solo chi ha un biglietto ferroviario.
Molti barboni se lo procurano.
Milano
Alle quattro del mattino un esercito di prostitute nigeriane invade
la stazione. Arrivano puntuali per la partenza del primo treno per
Torino.
Genova
In sala d' aspetto è vietato l' ingresso ai barboni. Ma tra tutte
le stazioni che abbiamo visitato, quella di Genova è la più generosa
con loro.
Roma
La cronista di "Epoca" contratta una corsa con i tassisti abusivi
alla stazione Termini. Per Fiumicino, 50 mila lire.
C' è chi procura camere d' albergo a basso prezzo.
L' uomo nella foto offre un "Due stelle" in via Nazionale
a 45 mila lire anziché, dice, alle 120 mila lire di listino.
L' approccio è pesante: l' uomo tenta di convincere la giornalista a
seguirlo in una pensione. "Pago io. Ci sono anche degli amici".
Milano
I giardini di piazza Luigi di Savoia, accanto alla stazione:
dormitorio dei marocchini.
Due ragazzine tossicodipendenti si prostituiscono davanti al bar
Supercentrale. Le tariffe partono da trentamila lire.
Chiusa all' una la stazione Centrale, i barboni stendono i loro
cartoni sotto i grifoni della facciata. Alle quattro, quando la
stazione riapre, tornano al coperto.
Genova
I senzatetto sono tollerati all' interno della stazione. Ma non sono
ammessi nelle sale d' aspetto.
La biglietteria è il punto più pericoloso per
furti e borseggi. Quella di Principe è al quarto posto tra le
stazioni italiane più rischiose.
I giardini davanti alla stazione Principe sono dominio di
tossicodipendenti e nordafricani.

Testo
"Ehi tu. Ho sentito che cerchi un albergo. Non ti preoccupare per i soldi". L' uomo che tenta di comprarmi alla Stazione Termini di Roma, tra la folla di turisti in fuga verso le vacanze e i poliziotti che pattugliano la galleria "gommata", ha la stazza da camionista e la faccia da magnaccia. Una montagna di carne, catena d' oro al collo e accento napoletano. Dice: "Vieni a dormire dove sto io. E' qua dietro. La pensione costa ventimila lire. Ma pago io.
Vieni, che ci sono anche i miei amici". La proposta è esplicita, insistente. Giro le spalle, ma il napoletano mi afferra per un braccio: "Non fare la stupida. Ti conviene dormire con me e i miei amici, che stare qui a passare la notte".
E invece proprio qui passerò la notte, alla stazione Termini di Roma, simulando, come alla stazione centrale di Milano e alla Principe di Genova, una situazione tipo: una giovane donna perde l' ultimo treno, non ha soldi per pagare un albergo, decide di aspettare la prima corsa del mattino. Cosa può succederle? Può venire derubata, truffata, magari violentata. Finisce in una "terra di nessuno", dove i confini tra "normali" e "diversi" sfumano all' improvviso, confusa tra un' umanità di reietti, barboni, ladri, tossicodipendenti, prostitute, extracomunitari senza documenti e senza nome. Uno zaino in spalla, un paio di jeans e di scarpe da tennis bastano per guadagnarsi lo status di vagabonda, sbandata, poco di buono. Nessuno si accorge del fotografo, con macchina nascosta, che mi segue da vicino, né tanto meno delle due guardie del corpo, ingaggiate in un istituto di vigilanza privata, pronte a scattare se il pericolo da ipotetico dovesse farsi reale.
Nel bunker Termini. Il napoletano insiste. Ma non va oltre la stretta al braccio. Qualche anno fa forse, quando la stazione Termini era un accampamento incontrollato e incontrollabile di disperati di ogni sorta, un approccio così poteva anche degenerare in un atto di violenza. Ma adesso ci sono decine di poliziotti, carabinieri, guardie di finanza e soldati che tengono binari e gallerie sotto controllo come obiettivi militari.
Il repulisti ha dato i suoi frutti. I crimini, dice la polizia sono vistosamente diminuiti. Ma dietro la facciata linda e sicura, il popolo di accattoni, ladri, truffatori e ruffiani ha imparato a riciclare i suoi espedienti di sopravvivenza. E a inventarne di nuovi. Tra le undici e mezzanotte, prima che i cancelli si chiudano trasformando la stazione Termini in un bunker semi-inaccessibile, è come stare in un suk. C' è un ragazzo del Ghana, con un cappello di pelle in testa, che tenta per esempio di piazzare una collanina d' oro a due americani. Dopo gli stranieri, ci prova con me.
"Trecentocinquantamila lire". "E chi ce le ha?", faccio io.
"Centocinquanta". "Ma sei matto?". Scende a 50 mila. Poi a 30. "Ho capito. Tu vuoi collana gratis e io venire con te". "E perché mai?", gli chiedo stupita. "Perché io bello, giovane e carino". Taglio corto tirando fuori 20 mila lire. Una frazione di secondo, mi ritrovo la collanina in mano, oro finto, naturalmente, e lui è già sparito, perduto nell' ombra dei giardini di Piazza dei Cinquecento.
"Sei una disgraziata come me". Altre contrattazioni, all' uscita dei binari. L' ultimo treno da Milano è accolto da una folla di tassisti abusivi che precedono strategicamente i tassisti regolari con macchina gialla. Chiedo quanto costa andare all' aeroporto di Fiumicino. "Con tariffa normale", mi dice uno, "sono 70 mila. Ma per te faccio 50 mila". "Mi dispiace, signore, ma è troppo". Il tassista guarda i miei jeans un po' logori, la maglietta slavata. E commenta: "Io ti do del tu. Tu mi dai del lei. Ma bella mia, siamo tutti e due sulla stessa barca. Tu sei una disgraziata come me.
Dammi 45 mila lire e ti porto via da questo merdaio".
A portarmi via ci provano in tanti. A parte il napoletano, interviene anche un procacciatore d' alberghi. Camicia aperta sul petto, capelli allisciati dal grasso. Tira fuori, professionale, i dépliant: "Ecco qui. Hotel Michighan, in via Nazionale. Due stelle.
Costerebbe 120 mila lire. Ma se telefono io al proprietario, ti fa 45 mila". Declino l' offerta e sparisce anche lui, inghiottito dalla notte.
Sulle panchine sono rimasti i barboni a mangiare i panini distribuiti dai ragazzi della Caritas. La sala d' aspetto ospita una decina di persone. Ma la polizia li passa a setaccio. Chi non ha biglietto, me compresa, è costretto a uscire. I barboni protestano, combattendo a suon d' invettive la quotidiana battaglia con gli uomini in divisa.
L' anziano sorvegliante, si chiama Vincenzo e fa servizio alla stazione da 30 anni, allarga le braccia: "Mi dispiace per te, povera figlia. Ma qui sai era diventata una guerra. Mi sputavano addosso. Mi minacciavano. Ma tu dove vai adesso?". I cancelli sono già chiusi. Il poliziotto mi ha dato cinque minuti per lasciare la stazione. E' Vincenzo ad aprirmi la porta.
L' umanità alla deriva, un tempo inquilina fissa di Roma Termini, si è riversata tra i vicoli e i giardinetti di Piazza dei Cinquecento.
I barboni dormono addossati alle vetrate. I tossici prendono il caffè al bar Noria, sotto i portici, all' angolo. Qui, qualcuno ha già pagato il mio gelato alla cassa, ma non riesco a capire chi. Gli extracomunitari, quelli trascinati dalla marea dell' emigrazione, si nascondono come topi in mezzo agli alberi. Uno del Bangladesh tenta un approccio, ma si ritira in buon ordine. Arriva un pakistano, "chef in un ristorante del Pantheon", si presenta. Vuole offrirmi un caffè. Ha una casa dalle parti della stazione. E' anche lui disposto a ospitarmi per la notte. Il terzo è un marocchino, che continua a seguirmi da un capo all' altro della piazza. Mi blocca in un angolo.
"Dove vai?". "Sono fatti miei". "Ti ho chiesto dove vai". "Lasciami stare". "Quanto vuoi insomma?". "Chiamo la polizia", lo minaccio mentre si avvicina il fotografo di Epoca. "La polizia, la polizia...", fa quello indispettito. "Sei con un cliente, ho capito". Alla fermata del 50 notturno c' è un rasta, con Bob Marley disegnato sulla maglietta, che ha perso l' autobus. "Prendo un taxi", annuncia, "ma tu stai attenta, questo brutto posto. E non tutti sono bravi come me". Non tutti. La malavita locale comincia a infastidirsi. Uno con un giubbotto di jeans si avvicina al fotografo: "Cosa vuoi? Perché continui a guardare? Frocio maledetto". La notte sfuma verso l' alba e l' ultima volante della polizia passa a sirene spiegate. I cancelli della stazione si sono riaperti.
Due tedesche a Milano. A Milano capitiamo due giorni dopo la grande retata, 200 tra poliziotti e carabinieri, 30 blindati, una vera azione di guerra che ha portato in questura 120 stranieri e 50 italiani, su 500 persone perquisite e controllate. Nell' aria si respira ancora la grande disfatta degli sbandati che di giorno bivaccano sugli scaloni imponenti della Centrale e di notte riempiono Piazza Duca d' Aosta. I controlli sono ancora più rigidi che a Roma. Alle 11 e mezzo gli inservienti cacciano la gente dal piazzale interno, quello con la fontanella, per far le pulizie. A mezzanotte si chiude parzialmente l' accesso ai binari. Chi rimane dentro è passato al setaccio dai ferrovieri di turno. All' una, tutti comunque fuori. Una comitiva di ragazzini giapponesi stende i sacchi a pelo sul marciapiede, mentre i barboni dormono già all' ombra dei grandi grifoni della bianca e spettrale facciata.
Ultimo a chiudere, il Supercentrale, bar al neon, self service multi-etnico. Lì sta per scoppiare una rissa per una banale storia di caffè tra un marocchino e alcuni tossicodipendenti. Due ragazzine in minigonna e autoreggenti approfittano delle ultime luci del bar per adescare clienti a 30 mila a prestazione. Io sono tenuta d' occhio da un tipo smilzo, che viene da Siracusa. Dice di essere in stazione perché aspetta i parenti. "Eh sì, arriveranno. Alle cinque e mezza del mattino. Nel frattempo, sali in macchina che facciamo un giro". La via crucis degli approcci continua anche fuori. Nell' ordine: un cileno, un tunisino, un milanese che viaggia su una Regata Station Wagon. Il cileno ho il sospetto che abbia adocchiato il mio portafogli, qualche momento prima mentre pagavo un caffè al bar. Due ragazze tedesche vagano un po' disperate: loro sì, sono state derubate di tutto. La dinamica non è molto chiara.
Pare sia successo davanti alla biglietteria. Qualcuno si è avvicinato e le ha distratte.
In piazza, dormono i nordafricani, accanto ai pullman che al mattino li porteranno a Casablanca. Le due tedesche rimaste senza bagagli sono seguite da un marocchino. Si ostinano ad andare in giro, in cerca di una sigaretta. Dietro la vetrata serrata della stazione centrale, un ragazzotto si sgranchisce le gambe. E borbotta: "Madonna mia. E' la prima volta che mi capita di dormire a terra all' aria aperta. Madonna mia, che schifo, in mezzo ai barboni". E' un sottufficiale di Marina che ha perso il treno. Viene dalla Sicilia e deve raggiungere La Spezia. Quando si gira a controllare il suo bagaglio, il sacco a pelo non c' è più.
Gliel' ha preso un tossicodipendente che adesso ci dorme sopra.
L' ultima tentazione della notte, appena la stazione, alle quattro, apre i battenti, è il treno per Torino Porta Nuova. Sono decine, centinaia di nigeriane infiocchettate sbucate chissà da dove che transitano da Milano verso il Piemonte. Nell' atrio, davanti alle biglietterie, risuona il rumore ritmico dei loro tacchi a spillo.
Sono loro le vere viaggiatrici della notte. Da un capo all' altro dell' Italia.
Genova, la generosa. Le ritroviamo alla stazione Principe di Genova, regine dei binari. Il primo dei treni con i quali sbarcano in Riviera, alle due e mezzo è stato battezzato in loro onore "Africa".
Ma a Genova i mali di Roma o di Milano non fanno paura. La stazione non chiude. I barboni rimangono dentro, indisturbati, tutta la notte. "E perché dovremmo cacciarli via?", dice un ferroviere.
"Poveretti. Cosa fanno di male?". C' è solo un poliziotto che alle 12 li butta fuori dalla sala d' aspetto, affrescata di verde e ricoperta di stucchi. Loro escono in silenzio. Poi, quando il controllore va via, rientrano a dormire. Un gruppo di ubriachi mi segue schiamazzando giù per la galleria che porta ai binari sotterranei. All' entrata tira aria di scippo. Sono in due, i compari, e mi tengono sott' occhio da più di un minuto su e giù per le scale mobili. Quando stanno per avvicinarsi piomba la guardia giurata ingaggiata da Epoca. L' ultima insidia della notte è scongiurata.
le foto sono dell' agenzia Sestini



Testata
Epoca

Data pubbl.
17/07/94

Numero
28

Pagina
20

Titolo
GIOVANI PER SEMPRE, ORA SI PUO'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
FERMARE GLI ANNI E' DAVVERO POSSIBILE? LE NUOVE SCOPERTE DEGLI SCIENZIATI ANTIETA'

Sommario
Rughe, riflessi lenti, memoria appannata, reni in difficoltà... Sono tutti sintomi di una stessa "malattia": la vecchiaia. Le cause? I "radicali liberi". Veri e propri microscopici proiettili che colpiscono le cellule, giorno dopo giorno, senza pietà. Eppure basta poco per combatterli. Specie a tavola. Come? Ce lo spiega Benvenuto Cestaro, uno dei maghi italiani dell' eterna giovinezza. "UNA ALIMENTAZIONE CORRETTA ALLUNGA LA VITA PIU' DI QUALSIASI FARMACO" ANCHE IL SOLE PUO' ESSERE UN PERICOLO LA VECCHIAIA COMINCIA A TRENT' ANNI

Didascalia
AIUTA A RESTAR GIOVANI
Il professor Benvenuto Cestaro, 47 anni, ordinario di Biochimica e
direttore della scuola di Scienza della nutrizione dell' Università
di Milano. Nella "simulazione" a fianco: Alba Parietti.
"Che cosa ci fa diventare così"
"Come possiamo restare così"

Testo
Prolungare la giovinezza, mantenere quanto più a lungo possibile l' integrità dei nostri organi e delle nostre capacità cerebrali, allontanare lo spettro dell' invecchiamento: la più antica chimera dell' umanità, l' ossessione di Dorian Gray, la scommessa di Faust, sta per diventare realtà. La ricerca medica e scientifica si è mobilitata contro il tempo. Contro le malattie che avvicinano la vecchiaia. Contro il logorio del vivere che corrode giorno dopo giorno i nostri tessuti e accelera la corsa verso la morte.
Proponendo finalmente dei rimedi. Non più patti diabolici, elisir di lunga vita, o additivi chimici. Semplicemente rimedi naturali. Come il ritorno all' antica dieta mediterranea.
Sembra banale. Eppure è proprio il mondo scientifico a ribadire che "un' alimentazione corretta allunga la vita più di qualsiasi farmaco". Ad affermarlo è uno dei ricercatori che in questo momento pilotano in Italia le ricerche sull' invecchiamento: Benvenuto Cestaro, 47 anni, ordinario di Biochimica e direttore della scuola di Scienze della nutrizione dell' università di Milano.
Spiega il professore: "Per anni mi sono occupato dei processi biochimici responsabili del deterioramento delle cellule cerebrali.
Solo sette anni fa per caso, mi sono messo a studiare scienza dell' alimentazione. Ed è stato allora che ho trovato il nesso tra invecchiamento organico, abitudini di vita, ma soprattutto il cibo di cui ciascuno di noi si nutre".
In gioco, il benessere individuale e collettivo: vivere più a lungo sì, ma farlo in perfetta salute, mantenendo giovani l' aspetto fisico e le capacità mentali. "Certo, la scienza oggi è in grado di rallentare l' invecchiamento", dice Cestaro, "tanto più che si tratta di un processo biologico che varia da individuo a individuo".
In altre parole: un processo inevitabile, che non è però necessariamente collegato a scadenze dettate dall' età. "Piuttosto a un calo delle difese antiossidanti che ha a disposizione il nostro organismo".
Il problema principale è infatti quello della "perossidazione", vero e proprio deterioramento delle cellule, causato dai "radicali liberi". Che cosa sono? Il termine (abusato dall' industria cosmetica, che ha immesso sul mercato migliaia di prodotti "anti-età", a garanzia di eterna giovinezza), indica quelle molecole "che hanno perso un elettrone nell' orbitale esterno". Come un' automobile che ha perso una ruota e finisce fuori strada, queste molecole cominciano a muoversi all' impazzata. Tentano di riconquistare un assetto stabile, "andando a caccia di elettroni per colmare il posto vuoto che si è formato nel loro orbitale".
Una caccia frenetica che le porta a saccheggiare altre molecole, le quali, a loro volta, private di un elettrone, attaccano altre molecole ancora. E così all' infinito. Una guerriglia biologica che mette in moto un effetto a catena: il danno può estendersi agli apparati funzionali delle cellule e da lì agli organi, intaccandoli, deteriorandoli, accelerando il loro processo d' invecchiamento. La pelle si avvizzisce, compaiono le rughe, i riflessi rallentano, la memoria si degrada, i reni cominciano a funzionare a singhiozzo, la digestione diventa faticosa...
Ma da dove arrivano i radicali liberi? La loro presenza nell' organismo è inevitabile. "Già con la respirazione se ne ha una prima produzione", spiega Cestaro. "Tutti i nostri tessuti utilizzano ossigeno. Quando però c' è una cellula che ne ha particolare bisogno, può succedere che nella foga la catena respiratoria si inceppi. E' come la rotella di un ingranaggio che salta... Alcune molecole perdono elettroni".
In condizioni normali l' organismo risponde attivando difese naturali che automaticamente bloccano i radicali liberi: "Conosciamo almeno 200 o 300 molecole con proprietà antiossidanti. Certi enzimi, per esempio, la vitamina A, la vitamina E, il carotene, molte proteine... tutti anticorpi naturali contro l' invecchiamento". In condizioni ottimali. Ma dovremmo immaginare di vivere sotto una campana di vetro.
L' alimentazione. In realtà gli assalti esterni sono tanti da non dar tregua all' organismo, spesso più forti delle difese naturali.
Un bombardamento di "ordigni" ossidanti, forieri di malattie e portatori di vecchiaia. A cominciare dal cibo che mangiamo: lo zucchero (quello bianco, il saccarosio usato nei dolci confezionati) si lega alle proteine, annullando il potere antiossidante. I grassi, specialmente quelli fritti: trattati ad alte temperature sprigionano radicali liberi. Terzo, l' alcol, se bevuto in grandi quantità: la molecola di etanolo viene facilmente smaltita da un primo enzima del fegato, l' alcoldeidrogenasi, quando arriva in piccole dosi.
Superando il livello di guardia interviene un secondo enzima, chiamato Meos, che metabolizza l' etanolo ma scatena anche una tempesta di radicali liberi. Smettere dunque di bere? "No, bere in piccole dosi, durante i pasti, lentamente, in modo da non intasare il fegato e non attivare l' enzima Meos".
Le sigarette. Senza appello, invece, il fumo: "Ogni sigaretta contiene 15 milioni di miliardi di radicali liberi. Buona parte di questi vengono assorbiti dall' organismo. Vanno a colpire direttamente i polmoni, e in seconda battuta vengono immessi in circolo dal sangue". Unico rimedio per i fumatori accaniti: tamponare i radicali liberi, con composti vitaminici. Ma Cestaro lo sconsiglia: "Diventa un circolo vizioso, una buona scusa per non smettere di fumare".
Lo stress. Attacchi alimentari, ma anche attacchi nervosi ed emotivi. Lo stress è in testa alle cause che accelerano l' invecchiamento. Uno studio condotto con il Centro diagnostico di Milano su 25 manager che si sono sottoposti a check-up conferma le teorie del professor Cestaro: "Abbiamo fatto test ematici, test psicologici. Da entrambi viene fuori un quadro allarmante: lo stress altera completamente l' equilibrio endocrino e ormonale". E' lo stesso principio della scienza in voga negli Stati Uniti, la psico-neuro-immuno-endocrinologia, che studia l' interscambio tra cervello, ormoni e sistema immunitario? "Sì, ma non solo. Gli effetti della depressione o dello stress sul controllo del cervello a livello di sistema immunitario non sono nuovi. Già Eraclito scriveva che le vedove di guerra si ammalavano molto spesso di tumore al seno".
Il sonno. Frequente la ricaduta sul sonno: non c' è niente di più destabilizzante dell' insonnia per il sistema immunitario. "Il cervello manda infatti i suoi ordini al sistema immunitario attraverso la melatonina, sostanza prodotta dalla ghiandola pineale.
La melatonina viene attivata però solo durante la fase del sonno profondo, il sonno Rem". Meno si dorme, quindi, più si rischia di essere esposti alle malattie: "I viaggi intercontinentali per esempio. L' abbiamo visto con gli uomini d' affari. Quasi sempre, dopo un passaggio di fuso orario e una nottata in aereo, si beccano l' influenza o il raffreddore".
L' inquinamento. Altra mitragliata di radicali liberi arriva con l' inquinamento atmosferico. Sono stavolta radicali inorganici, altamente tossici, quelli che circolano nelle nostre città soffocate da gas di scarico o dai fumi industriali. Ma nociva è anche la luce solare. "I raggi producono infatti un' infiammazione della pelle che mette in movimento radicali liberi". Ma qui, la natura provvede: la melanina, la sostanza che fa abbronzare, argina i danni. "In tutti i casi sconsigliatissimo è però l' uso della lampada".
Lo sport. La sorpresa maggiore arriva quando si parla di attività fisica. Le teorie sull' invecchiamento smontano il vecchio teorema secondo cui con lo sport ci si mantiene giovani e in forma. In piccole dosi niente da dire. Ma anche in questo caso l' eccesso è letale: "Nelle fasi iniziali di un esercizio fisico intenso intrapreso da un individuo normale, le sue difese antiossidanti funzionano alla perfezione", spiega Cestaro. "Dopo cominciano invece a prodursi radicali liberi". L' intervallo durante il quale lo sportivo è coperto dalle sue difese antiossidanti, misurato con test in vitro, è di circa 200 minuti. Può essere ancora più breve nei diabetici dove i processi ossidanti sotto sforzo si attivano più velocemente con una resistenza ridotta del 50 per cento. Si riduce nei malati di Aids, ma anche in individui abituati a bere e fumare.
"Abbiamo esaminato 350 persone", dice il professore, "scoprendo che i 200 minuti canonici dimuniscono inoltre con l' età. Lo spartiacque sono i 50 anni, i 60 e infine i 75". Per lo sport vale quanto detto per l' alcol: "Farlo sì, ma in maniera equilibrata, con tempi di recupero e senza affanno".
Mangiare poco e bene. Assalti climatici, bombardamenti atmosferici, cibi velenosi, choc emotivi: come arginare allora l' azione devastante dei radicali liberi? "Con una giusta dieta, tanto per cominciare. Un dieta bilanciata, dove si può mangiare di tutto, ma in piccole quantità". Anche gli zuccheri o i grassi? Se è meglio sostituire gli eccessi di zucchero bianco con aspartame o saccarina ("non è vero che la seconda è cancerogena, come si è detto in passato. Si trattava solo di una battaglia commerciale tra produttori", sostiene Cestaro), i grassi non vanno totalmente eliminati. Essi infatti forniscono una riserva di acidi polinsaturi di cui l' organismo ha bisogno, importanti per garantire fluidità alle membrane cellulari, e specialmente a quella cerebrale. Membrana tra l' altro che rischia di irrigidirsi dopo i 30 anni, quando diventa ancora più necessario un sussidio esterno. "Fidarsi però solo delle fritture fatte in casa. Meglio se con olio d' oliva.
L' olio di semi invece va bene crudo". Fondamentali per la dieta sono però carne e pesce. "Le loro proteine contengono amminoacidi essenziali in valori simili alle proteine umane. Il massimo sarebbe mangiare carne umana; non potendo, ottima una bistecca di manzo".
Altro alimento quasi perfetto per la sua composizione proteica, l' uovo, seguito da latte e latticini. Infine, frutta e verdura, ricche di sali minerali, oligoelementi e vitamine antiossidanti come la E, la C, la A. Importante che sia fresca. "Alcuni studi sulle mele hanno dimostrato che il potere antiossidante diminuisce con il passare dei giorni, dopo che il frutto è stato raccolto".
Consigliata l' accoppiata leguminose e cereali: "Proprio come vuole l' alimentazione più tradizionale, pasta e ceci, riso e fagioli, minestrone...". Curioso il risultato di uno studio che attribuisce il massimo delle proprietà antiossidanti, tra la frutta, ai mirtilli, e tra le verdure alle zucchine.
I vegetali hanno inoltre un altro pregio: "Ne bastano pochissime dosi, non un chilo di carote, ma una, per intenderci, per ottimizzare l' assorbimento vitaminico". Il segreto è mangiarne più volte al giorno: "Secondo gli statunitensi fino a sei volte.
Difficile certo. A meno che l' industria non sperimenti frutta e verdura in pillole o liofilizzata. Il futuro dell' alimentazione potrebbe andare in questa direzione".
Doppio binario. Una pillola al posto di una spremuta? Un liofilizzato invece di un minestrone? Ma non si parlava di dieta mediterranea? "La longevità cammina su due binari". Da una parte sistemi d' alimentazione tradizionale, ma dall' altra la scienza non esclude che gli alimenti possano venir trattati, arricchiti di sostanze antiossidanti o privati di componenti nocive. Una prima sperimentazione il professor Cestaro la sta facendo con alcuni prodotti "light" di un colosso alimentare, cibi privi di gran parte del loro contenuto di colesterolo. Non esclude neanche il ricorso alle biotecnologie per migliorare la qualità di frutta e verdura.
Quello che rimane fuori in questa battaglia contro l' invecchiamento è il ricorso ai farmaci: "Usarne il meno possibile. Piuttosto integratori alimentari: vitamine antiossidanti, come la A o la E che rafforzano le membrane cellulari. Oppure la vitamina C, alcune vitamine del gruppo B che aiutano la parte liquida della cellula. E ancora oligoelementi e sali minerali, che servono a stimolare l' attività di alcune proteine antiossidanti. Esempi? Lo zinco, il rame, il selenio, ma quest' ultimo a piccole dosi perché è tossico...". Attenzione, però, anche agli integratori: se dati in dosi sbagliate possono avere ripercussioni tossiche. La loro efficacia dipende inoltre da come vengono accoppiati e miscelati.
I test per saperne di più. Visto che l' invecchiamento è un processo biologico che varia da individuo a individuo, indipendentemente dall' età anagrafica, rimane solo da capire, quando l' organismo comincia a invecchiare, o meglio, quando arriva il momento di potenziare le difese antiossidanti. "Non esiste un' età precisa.
Quando ci si sente stressati, quando non si rende più sul lavoro, quando si è più esposti alle malattie". L' unica cosa certa è che a 30 anni le membrane cellulari cominciano a perdere elasticità...
Per una misurazione scientifica delle proprie risorse antiossidanti, in Italia, bisogna però aspettare. La ricerca universitaria non è ancora al servizio del grande pubblico. E se è vero che in commercio esistono kit per testare il grado d' invecchiamento, Cestaro ne sconsiglia l' uso. "Non hanno ancora nessuna attendibilità. Gli unici test validi sono in fase di sperimentazione e sono i test che usiamo all' università. Ma sono esami che richiedono 8 ore di lavoro in laboratorio e a costi molto elevati". Arriveranno in commercio? "Arriveranno" promette il professore. A tempi brevi: "Quando avremo attivato una rete completa di centri medici e diagnostici contro l' invecchiamento". Questione di mesi: la più antica chimera dell' umanità, il sogno di una prolungata giovinezza, sarà in vendita. Come un prodotto da supermarket.

BOX
COSA SONO I RADICALI LIBERI NEMICI INEVITABILI SENZA UNA RUOTA I radicali liberi sono molecole che hanno perso un elettrone nell' orbitale esterno. Come un' automobile che ha perso una ruota, sbandano, vanno fuori strada, corrono all' impazzata.
LADRI Devono riconquistare l' equilibrio. Come? Andando a caccia di altre molecole alle quali "rubano" l' elettrone che a loro manca.
REAZIONE A CATENA Le altre molecole, private di un elettrone, si mettono anche loro a caccia. Risultato: cominciano a corrodersi gli apparati funzionali delle cellule. E quindi gli organi.
ARRUGGINITI La produzione di radicali liberi è inevitabile. Avviene già con la respirazione: introducendo aria, alcune molecole d' ossigeno perdono i loro elettroni. E' la prima fase, con la quale comincia il processo di perossidazione dell' organismo.
GLI ANTIDOTI In condizioni normali l' organismo reagisce attivando le proprie difese immunitarie, cioè le molecole dotate di proprietà antiossidanti, delegate a fermare l' opera di devastazione dei radicali liberi.
GLI ALLEATI Quando l' attacco supera il livello di guardia o quando l' organismo è debilitato, può succedere che le difese naturali non bastino. A questo punto si può ricorrere a cibi o integratori che potenziano dall' esterno le difese antiossidanti.
CARNE E PESCE, I MIGLIORI I RIMEDI IN TAVOLA Un' alimentazione corretta allunga la vita più di qualsiasi farmaco, dicono i medici e gli scienziati. Ma quali sono i cibi consigliati contro la vecchiaia? Quelli tradizionali della dieta mediterranea: una giusta miscela di carboidrati, grassi e proteine. Al primo posto, carne e pesce. Forniscono proteine dotate di alto potere antiossidante, che contengono inoltre amminoacidi essenziali in valori simili alle proteine umane. Elemento perfetto, colesterolo a parte, è l' uovo, seguito dal latte e dai latticini. Importantissimo anche l' apporto di sali minerali, oligoalimenti e vitamine che viene da frutta e verdura. Una buona accoppiata è quella tra leguminose e cereali.
Sconsigliati invece i grassi fritti. Le alte temperature producono infatti radicali liberi, soprattutto se si frigge e rifrigge con lo stesso olio. Uno strappo alla regola è consentito, ma solo se la frittura la si fa in casa, non più di una volta a settimana, con olio d' oliva, ricco di proprietà antiossidanti. A crudo, va bene usare anche l' olio di semi. Da limitare anche l' uso dello zucchero bianco. Un paio di cucchiaini al giorno sono permessi, per il resto sostituirlo con aspartame o saccarina.
Poco, anzi pochissimo, l' alcol. Meglio vino o birra, anziché superalcolici.
MEGLIO EVITARE MEDICINE ATTENTI AL SELENIO Pochi. o meglio, niente farmaci. I rimedi contro l' invecchiamento prevedono piuttosto il ricorso a integratori alimentari, per potenziare le difese antiossidanti dell' organismo. Come le vitamine, divise in due categorie: le liposolubili, vitamine cioè che si sciolgono nei grassi, tra le quali la E, la A, il carotene, il colenzima Q, che servono a rafforzare le membrane cellulari; e le vitamine idrosolubili, tra cui la C, alcune del gruppo B, che si sciolgono invece in acqua e servono per proteggere le parti liquide delle cellule. Proprietà antiossidanti sono contenute anche negli oligoalimenti e nei sali minerali. Selenio, zinco, magnesio, rame, stimolano l' attività di alcune proteine contro i radicali liberi.
In commercio si trovano oggi centinaia di preparati antiossidanti.
Non tutti sono però affidabili. La loro efficacia va valutata innanzitutto dalla composizione: il più delle volte funzionano infatti solo in maniera sinergica. In secondo luogo, la loro somministrazione va valutata da individuo a individuo. Terzo, non bisogna dimenticare che molti antiossidanti sono tossici: il selenio, per esempio, ma anche la vitamina A, se somministrata in forti dosi.
I SEGNALI D' ALLARME SE CALA LA LIBIDO Come si fa a capire che il nostro organismo sta invecchiando, che si è innescato un processo di deterioramento senza ritorno? Se immaginiamo la vita correre sopra una china, dicono gli scienziati, assistiamo a una discesa prima lentissima, poi, accelerata. Lo spartiacque sono i trent' anni. A partire da questa età le membrane cellulari cominciano a irrigidirsi e a perdere elasticità. Un campanello d' allarme può essere la scarsa resistenza alla fatica e allo stress, la perdita di concentrazione, una resa più bassa sul lavoro. Ma anche il calo del desiderio sessuale e in generale una più bassa efficienza fisica e sportiva. Oltre ai segni "somatici" dell' invecchiamento: le prime rughe, l' incanutimento o la perdita del capelli... Inevitabile? Le leggi di natura dicono di sì. Basti pensare al sistema nervoso centrale: i 100 miliardi di neuroni che possiede al momento della nascita vanno in necrosi, fino a dimezzarsi al momento della morte. Le scoperte scientifiche possono aiutare in questo: a potenziare le difese dell' organismo, sconfiggendo i radicali liberi, a mantenere elastiche le membrane cellulari, soprattutto quando l' età biologica avanza.




Testata
Epoca

Data pubbl.
10/07/94

Numero
27

Pagina
18

Titolo
SIGNOR MINISTRO DAVVERO NON SI PUO' FARE NULLA?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
DROGA IN DISCOTECA DOPO LA DENUNCIA DI EPOCA

Sommario
Ecstasy, cocaina, Lsd: in molte discoteche di Riccione e dintorni circolano sotto gli occhi di tutti. Lo ha scoperto l' inchiesta-verità pubblicata da "Epoca" la scorsa settimana. Reazioni? I gestori dei locali dicono che non possono perquisire i clienti sospetti. Le forze dell' ordine della Riviera ammettono che il fenomeno è troppo diffuso per essere controllato. La magistratura locale sostiene che è meglio indagare sui trafficanti internazionali piuttosto che arrestare ragazzini. Tutti, comunque, hanno raccolto la nostra denuncia. Manca all' appello solo il ministero degli Interni, l' autorità che deve trovare soluzioni. E così la festa continua.

Didascalia
Sopra: il ministro degli Interni Roberto Maroni. Nell' altra pagina,
in alto: il servizio con cui la scorsa settimana "Epoca" ha
denunciato la "libertà di droga" in alcune discoteche romagnole.
VUOI SBALLARE CON ME "Vuoi ecstasy? Vuoi coca? Vuoi acidi?". Domande
come queste sono state il sottofondo di
un' inchiesta condotta da "Epoca" nelle megadiscoteche romagnole.
Per tre sere consecutive, la nostra cronista si è mimetizzata tra i
ragazzi
che si scatenano per ore e ore ai ritmi impossibili della musica
sintetica più in voga. E' finita in un vortice di polveri e
pasticche.
LA CRONISTA DI EPOCA HA COMPRATO DROGA DAVANTI A TUTTI
La sequenza della compravendita condotta dalla cronista di "Epoca"
la sera di sabato 18 giugno nel parcheggio di una discoteca di
Riccione. Il ragazzo aggancia la passante tra un morso e l' altro di
un panino, offre pasticche, poi le mostra. Dopo una rapida
trattativa sul prezzo, avviene la consegna e l' incasso del denaro.
La scena è avvenuta in tutta tranquillità in mezzo a decine di
clienti.
LA STAMPA DENUNCIA
Sopra: i titoli di alcuni quotidiani
che hanno ripreso e rilanciato l' inchiesta-verità pubblicata da
"Epoca".

Testo
Giovanni Buono, vicequestore aggiunto di Rimini, è un uomo imponente, dal viso squadrato, la parlata lenta, gli occhiali da vista coperti da lenti da sole. Si accomoda dietro la scrivania con un moto di stizza: "Beati voi di Epoca che avete beccato l' ecstasy al primo colpo. Fosse così facile anche per i miei poliziotti". Sul tavolo, il Resto del Carlino e il Corriere di Rimini, i due quotidiani locali che hanno rilanciato, con effetto detonante in Romagna, l' inchiesta pubblicata la scorsa settimana dal nostro giornale: una candid-camera sullo spaccio di droga nelle discoteche della Riviera.
Il vicequestore non cerca facili polemiche, cerca di spiegare la differenza tra il lavoro investigativo della polizia e quello di denuncia di un organo di stampa: "Le nostre indagini non possono essere dirette ai piccoli spacciatori da discoteca. Non è quello il nostro compito. Noi dobbiamo scoprire la catena dell' organizzazione. I "cavalli" che vendono l' ecstasy nei locali sono solo l' ultimissimo anello".
Pesci piccoli, insomma. Fatto sta che sono loro, anche loro, quelli che garantiscono il rifornimento a decine di migliaia di ragazzi che ogni fine settimana si riversano da tutta Italia tra Rimini e Riccione.
L' inchiesta di Epoca, un fine settimana in giro nelle megadiscoteche, ha dimostrato come è stato facile avvicinare giovani spacciatori e comprare ogni genere di droga. Una mezz' ora al Peter Pan o al Cocoricò e l' aggancio è garantito. C' è chi offre direttamente, chi vende su richiesta. Abbiamo comprato ecstasy, hashish, ci è stata offerta cocaina, Lsd e persino eroina, dentro e fuori i locali, nei parcheggi, e in pieno giorno in piazzale Togliatti a Riccione, sotto gli occhi di tutti. Senza mai incappare nel controllo di buttafuori o di agenti in borghese.
La parabola del Cellophan. Il vicequestore allarga le braccia: "Noi seguiamo le disposizioni del questore: pattugliare le spiagge, le discoteche. Ma non possiamo fare perquisizioni a tappeto. Locali comunque ne abbiamo chiusi, eccome. La scorsa estate almeno quattro: La Mecca, il Peter Pan, il Cellophan... E proprio con il Cellophan sapete cosa è successo?". L' aneddoto sembra una parabola: "C' era un gruppo di cittadini che da mesi protestava contro il disordine: aveva costituito un comitato civico, raccoglieva firme, accusava i clienti dei locali di rumori molesti, di spaccio e consumo di droga, se la prendeva con i saccopelisti che dopo il ballo dormivano in spiaggia... Bene, quegli stessi cittadini, soprattutto esercenti, hanno subito chiesto la riapertura del locale. Si erano accorti che non vendevano più gelati e bibite, e che gli affari calavano".
Episodio illuminante del cocktail che in Riviera collega trasgressione-divertimento-business.
Toccare le discoteche romagnole è dunque impossibile? Paolo Gengarelli, pubblico ministero al Tribunale di Rimini, si appella alla legge: "La magistratura può chiudere un locale solo se si accerta la responsabilità diretta dei gestori nel traffico di stupefacenti. Ma questo da noi non è mai successo". Eppure i gestori (che minacciano querele contro Epoca, rea di aver raccontato la verità) ammettono tranquillamente che nelle loro discoteche la droga circola. E non potrebbero nemmeno negarlo, visto quello che ci spiega lo stesso magistrato: "Sì, con l' ecstasy sono più volte rimaste coinvolte persone che lavorano nei locali, soprattutto i cosiddetti "pierre", i cercaclienti, ma anche in questo caso i gestori non hanno responsabilità diretta".
Le inchieste svolte dal 1991 a oggi (nomi in codice: Cocaina 1, Cocaina 2 e Romagna pulita) hanno messo a fuoco le differenze tra spaccio di ecstasy e spaccio di cocaina. Le pasticche seguono canali di rifornimento elementari: prima arrivavano da Prato (arrestato un fotografo incensurato con 8 mila pillole), di recente direttamente dall' Olanda, centro europeo di produzione di ecstasy. Non esisterebbe però un' autentica organizzazione criminale, ma compratori che cederebbero la roba a una serie di "cavalli" da discoteca.
Se ci prova il pensionato. Per la coca, al contrario, il commercio è più complesso e frazionato. Se ne è occupato il pubblico ministero Daniele Paci: "Le importazioni avvenivano soprattutto da Milano e da Napoli. C' era gente che trasportava una media di 2 o 3 chili di cocaina al mese, soprattutto nel periodo estivo. Abbiamo colpito le vecchie organizzazioni, ma la domanda, purtroppo, qui è sempre altissima proprio per la presenza delle discoteche". Così la malavita rimpiazza e rinnova i suoi organigrammi: "Cinque mesi fa abbiamo arrestato un pensionato incensurato che aveva importato dalla Colombia 5 chili di coca. Questo ci fa pensare che ormai nel mercato ci sia di tutto". Altro che quattro pasticche scambiate in discoteca.
Anche i carabinieri di Riccione ripetono la litania: "Sono le intercettazioni telefoniche, i pedinamenti, gli appostamenti che portano a qualcosa. Non gli arresti sulla pista da ballo". Tuttavia, anche nelle discoteche i "Serpico" della piadina non mancano. Ogni sabato una decina di uomini del nucleo operativo si mimetizza tra la folla a caccia di spacciatori. Portano gli abiti giusti, conoscono il gergo, si muovono come fossero fatti e strafatti. Si nascondono nelle jeep, ai parcheggi. Se è il caso si travestono. Lasciano a casa la Fiat Uno di ordinanza e usano la propria macchina. Sembrano tutto fuorché sbirri.
Ce n' è uno alto e biondo, con la barbetta e l' orecchino, il gilet sui jeans e la scarpe da tennis. Un altro bruno con i capelli lunghi, la faccia da furbo e un fascio di collane che spunta dalla T- shirt. Il terzo è vestito di pelle nera, ha gli occhi chiari e un sorriso smorzato da macho del sabato sera. Ragazzi come loro hanno arrestato, nel 1993, 307 persone per spaccio, denunciato altre 110 a piede libero, segnalato 133 per uso di stupefacenti, e poi sequestrato 15 chili di droghe varie e 2.725 dosi di Lsd...
Non si può sparare. Ma le discoteche sono un pozzo senza fondo: "E' come con i vu' cumprà", dice un ufficiale. "Mostrano la roba, la danno via e spariscono. E valli a prendere... Con quelle luci poi non si vede niente. Non possiamo certo metterci a sparare tra la folla". Gli spacciatori poi, dicono i carabinieri , non sono neanche spacciatori: "Ragazzini incensurati, minorenni che vendono l' ecstasy per pagarsi il fine settimana e divertirsi un po' . Che senso avrebbe riempire le prigioni di gente come loro?". Meglio sgominare le grandi bande di trafficanti internazionali. Intanto, che la festa continui.

BOX
LA REPLICA DEI GESTORI DELLE DISCOTECHE ROMAGNOLE MA LORO SI DIFENDONO COSI' SBAGLIATA LA LEGGE Lucas Carieri, 34 anni, è il direttore artistico del Peter Pan, megalocale da 3 mila posti. Precisa: "La legge non ci autorizza a proibire l' ingresso in un locale pubblico: al massimo possiamo fare un po' di selezione all' ingresso e dei controlli all' interno. Ma il codice non ci aiuta: se denunciamo qualcuno scoperto con la droga in discoteca, si rischia di finire con il LA DROGA C' E', SI SA Dice Loris Riccardi, 25 anni, direttore artistico del Cocoricò, locale citato nella nostra inchiesta: "E'ora di finirla con queste storie. Dov' è la notizia? E' vero, nelle discoteche gira la droga, come gira fuori. Abbiamo un servizio d' ordine di 32 persone per ostacolare lo spaccio e il consumo. Ma la droga è un male sociale: questi sono i giovani, questa è la società di oggi".




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/07/94

Numero
26

Pagina
8

Titolo
LA DROGA E' GIA' LIBERA NOI L' ABBIAMO COMPRATA (E NESSUNO CE LO HA IMPEDITO)

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ALLARME DISCOTECHE

Sommario
Basta entrare in uno dei megalocali della riviera romagnola: ritmo impossibile, frenetico il modo di ballare, occhi spiritati. E pillole, pillole, pillole... La cronista di "Epoca" si è mischiata ai ragazzi della notte ed è finita in un vortice di polveri e pasticche. Cronaca di un week-end sballato sotto gli occhi della polizia. "Te ne basta mezza. Pulita come sei". "Ne vorrei una intera". "Ho una starlight, ma costa 60 mila. E' buona, leccala". "Ho comprato a 35". "Quella è robaccia per il raffreddore. Se vuoi la mia devi stare con me stasera". "Fottiti".

Didascalia
"VUOI DELLA ROBA?": COSI' E' INIZIATA LA COMPRAVENDITA CONDOTTA
DALLA CRONISTA DI "EPOCA" FUORI DA UNA MEGADISCOTECA ROMAGNOLA.
NELLA SEQUENZA QUI SOPRA, DA SINISTRA A DESTRA: L' APPROCCIO DEL
RAGAZZO, LA RICERCA DELLE PASTICCHE, LA CONSEGNA E IL PAGAMENTO.
LA SCENA E' AVVENUTA IN TUTTA TRANQUILLITA' IN MEZZO ALLA GENTE IN
CODA ALL' INGRESSO.
ECSTASY A 60 MILA E UN PO' DI SESSO
"Ho una starlight, la migliore". Il ragazzo incontrato dalla
cronista di "Epoca" alla discoteca Peter Pan non perde tempo: due
parole e subito la pasticca di ecstasy salta fuori, di qualità
sopraffina sostiene. Offre anche della cocaina, ma rimanda l' affare
a fine serata. Si capisce che non è un "professionista": come la
maggior parte dei pasticcari del sabato sera arrotonda vendendo
qualcosa a chi gli piace. Chiede 60 mila lire per una pillola,
prezzo medio-alto, ma non è ancora contento: "E' l' ultima, questa.
La vendo a una ragazza che mi faccia divertire". Le trattative si
interrompono.
AFFARI NEL PARKING
"Scusa hai da accendere?". L' approccio con la cronista di "Epoca" è
il più classico, e subito dopo: "Vuoi pasticche?". I ragazzi al
parcheggio del locale vengono subito al sodo. "Guarda che è roba
buona. Non vedi? Siamo fatti come scimmie anche noi".
FRANCOBOLLI ACIDI Così si presenta oggi l' Lsd: quadratini di carta
imbevuti di sostanza allucinogena da leccare.
SBALLO A COLORI L' ecstasy è contenuto in pasticche di tutti i tipi:
dalle capsule tipo antibiotico a innocenti dischetti bianchi con
simboli orientali.

Testo
"Sei una che "cala"?". "Be' , che ne pensi?". "L' avevo capito, appena ti ho vista. Quante pasticche ti servono?". "Dipende.
Cos' hai?". ""Bombate". Buonissime". "Quanto fai?". "Quarantamila".
"Troppo. Trentacinque". "Non se ne parla. Ci rimetto". "Te ne compro quattro a centocinquanta". "Okkey... Oltre all' ecstasy ho la coca.
Ti interessa? Se ne prendi un grammo ti faccio fare una "pista" gratis".
Riviera adriatica. Si può. Si può consumare un week-end da sballo nelle discoteche della collina, lungo la strada che sale per l' entroterra di Riccione, dove la musica (Trance, Underground, Progressive, gli ultimi generi) risuona ossessiva con l' incubo delle sue 180 / 200 battute al minuto; impasticcarsi di ecstasy ("calare" in gergo); "tirare" di coca; smaltire il "down" che arriverà dopo, a mattinata inoltrata, con un paio di "canne"... Si può. Noi di Epoca abbiamo provato a comprar droga nei luogi cult dell' ecstasy e della cocaina, seguendo il percorso di decine di migliaia di ragazzi che ogni fine settimana, da tutta Italia, in macchina, in pullman, in treno si riversano in Romagna. Abbiamo provato a comprare stupefacenti e ci siamo riusciti. Senza neanche troppa difficoltà. E senza rischiare nulla con la polizia.
Occhi sbarrati. "Cocaina? No, stasera vorrei farmi solo di ecstasy".
Il primo acquisto avviene al Peter Pan, l' unico, tra i locali dove le "pasticche" sono di gran moda, che in bassa stagione apre anche il venerdì. Non ci vuole molto: una mezz' ora per rendersi conto della situazione. Nella massa di ragazzine in zatteroni, shorts e trasparenze, uomini in gonna, anfibi senza lacci, canottiere, tatuaggi e collanine, chi è in ecstasy si nota dallo sguardo: occhi sbarrati, pupille a capocchia di spillo, ottima resistenza al ballo e al martellamento della musica. Il tizio delle "bombate", 20-25 anni alla penombra del bar, capelli al gel, carnagione pallida e occhi chiari sgranati sui lineamenti esangui, balla davanti allo specchio. Poi si avvicina. E' di Napoli, ma vive a Rimini da un paio di anni. "Cosa faccio? Lavoro qui. Sono pierre".
Il locale è pattugliato da due buttafuori mastodontici, montagne ambulanti di carne e muscoli, crani pelati, walkie-talkie in mano.
Il napoletano fa strada verso i divanetti. "Tira fuori i soldi".
"Mostrami le pasticche". Le prende da una tasca, quattro pillolette bianche. Impossibile capire se si tratta di ecstasy o no. Sul mercato esistono pillole di tutti i tipi: capsule come antibiotici, colorate di rosso, di azzurro, di verde, di blu, con incisioni sopra, maculate... "Mi stai facendo il "pacco"?". Il napoletano sdegnato: "Tornamele indietro".
Tre pezzi da cinquantamila e l' affare è andato. Ripete l' invito per la coca: "Dai, vieni fuori con me. Ci facciamo una "pista"".
"Sono con un amico. Domani, ci sei?". "Mi trovi fino alle 11 e mezzo di sera alla galleria Viscardi, a Riccione. Poi al Cocoricò. Se vuoi ti metto in lista per il 99, la migliore "afterhour"". "E che cos' è?". "La disco che apre all' alba. Vieni?". Il Peter Pan adesso è quasi pieno. Il deejay incalza il ritmo. Duecento battute al minuto. Dicono che solo con l' ecstasy si può...
Arrivano i gettoni californiani. E' ancora presto per concludere la notte. Non sono nemmeno le tre. Ci hanno indicato il Prince e il Pascià, come locali top per la coca. Ma lì dove la clientela cresce d' età, e ballano tutta la notte modelle mulatte e entraineuse dall' 1 e 80 in su, se non si è dentro ai "giri" è più difficile comprare. E così sarà. Intanto però ai bordi della strada, via Abruzzi, quella che sale sulla collina, incrociamo altri due napoletani. Tentiamo: "Sapete dove possiamo trovare pasticche?". Il più alto, con la coda di cavallo: "Ce le abbiamo noi. Gettoni californiani. Le chiamano anche Spectrum. Ottime. Chiedete al Peter Pan. Ne vendiamo un casino". In tasca ne ha almeno un centinaio.
Anche queste pillole bianche, con una linea in mezzo.
"Assaggiatele". Il gusto è amaro. "E coca ne avete?". Ancora quello con la coda: "Mah, c' è uno al Peter che ce l' ha". L' amico scuote la testa: "Io al Peter non ci torno neanche morto. Polizia in borghese, dappertutto. Però ve la possiamo procurare per domani.
Buona. Anzi, ci facciamo una pista assieme". Ricontrattiamo le pillole: da 40 mila scendono a 35, ma solo perché c' è di mezzo la coca. "Domani, al bar Columbus, in piazzale Togliatti, a Riccione.
Alle 6 e mezzo".
Acquista con la figlia. Piazzale Togliatti si apre sulla spiaggia.
Dall' altra parte ci sono i bar, i ristoranti, i parcheggi a doppia, tripla, quadrupla fila, i vigili urbani che danno le multe, le coppiette che passeggiano. Alle sei e mezzo del pomeriggio la gente è ancora al mare. I due napoletani non si vedono. Sotto i tralicci del palco montato per Cecchetto e per il suo Disco per l' estate un cinquantenne grasso dalla pelle scura, coperto di tatuaggi, appoggia dell' hashish sul muretto. Il suo acquirente ha i capelli lunghi a boccoli e tiene per mano una bambina: "Alessandra, Alessandra non scappare". Diecimila lire accartocciate. La bambina tenta di spogliarsi: "Alessandra, Alessandra...". Compriamo hashish anche noi, dallo zingaro che a sentirlo parlare ha l' accento napoletano ma è slavo. Cinquantamila per un pezzo di "cioccolato".
In piazzale Togliatti, silente passeggiata al mare d' inverno, ghetto di bande e mercato di droga d' estate, talvolta girano anche i "trip": francobolli decorati con simboli orientali, cosparsi di Lsd. Lo zingaro scuote la testa: "No, per ora niente. Domani forse.
Li vado a prendere a Roma". Un altro ci offre eroina.
A mezzanotte ci sono tutti: gli slavi con famiglia, gli africani, gli spacciatori rivieraschi. Uno degli italiani fa segno da lontano: "Vuoi fumo?". Gli manca un dente, ma ha un sorriso cordiale. "No, fumo no. Vogliamo passare la notte fuori. Hai pasticche?". "Lascia perdere. Ci sono, le gialline, ma sono delle patacche... Le vendono quegli stronzi lì", indicando il muretto. "E poi la gente viene a protestare. Me le danno a 30 mila, ma fanno veramente schifo. Oggi mi è tornato indietro uno, imbestialito. E così mi rovinano la piazza. Io lavoro e ci tengo a trattar bene la gente. Non mi importa che siano amici o gente che passa qui per caso" E' di Como lui. E sembra seriamente mortificato. "C' è coca, se volete. Ce l' ha lo slavo. Ma solo pezzi da 5 grammi. Vende a 140 mila".
Ingresso lire 50 mila. L' occasione di comprare un "trip", invece, è stata persa per un attimo: "Il tipo se ne è andato a ballare proprio due minuti fa. Potete trovarlo al Peter Pan. E' un ragazzo di Roma, con un cilindro enorme in testa, tutto colorato".
Un cilindro multicolore alto, indica con le mani quello di Como, più o meno 30 centimetri, al Peter Pan può benissimo passare inosservato. E infatti il tipo di Roma non lo si becca. E' sabato e il locale, 3 mila posti sulla carta, fino a 4 mila o 5 mila quando la serata è "giusta" (solo 1 miliardo e 965 milioni d' incasso dichiarato a bilancio nel 1992, ma nessuno ci crede), all' una di notte è già una bolgia. L' entrata costa 50 mila lire, anziché 40 mila come il venerdì, a meno che non si abbia il cartoncino d' invito, firmato dal pierre di turno. Pezzo fondamentale, questo, che garantisce una riduzione di 5 mila lire e, in certi casi, serve anche da buono per il ritiro di una pasticca di ecstasy. Noi siamo senza cartoncino. Ma per l' ecstasy non c' è problema. Un ragazzo sui vent' anni, rossiccio di capelli, bianchiccio e grassoccio di faccia, vestito di nero, bermuda sopra i pantaloni, mi blocca la strada: "Vuoi da bere?". "No, grazie. L' alcol mi fa dormire". "Vuoi mangiare?". "Preferisco qualcosa che mi tenga sveglia". "Dipende da cosa mangi". "Cosa hai?". Fa gli occhi ammiccanti. "Te ne basta mezza. Pulita come sei". "Ne vorrei una intera". "Ho una starlight.
Buona che non te lo immagini. Ma la vendo a 60 mila. Non una lira di meno". "Ho comprato a 35 mila". Sghignazza:"A 35 vendono le Actifed, le pillole per il raffreddore, che in farmacia costano 500 lire l' una. Ti ripeto 60 mila. L' ho presa a Ibiza". "Preferisco la coca". "Ho anche quella, "in pietra", 200 mila lire al grammo".Tergiversa: "Però a fine serata. Sai, ho lavorato qui dentro otto mesi come pierre. Mi conoscono. Se mi vedono uscire mi bloccano subito. Sono nel mirino. C' è anche il proprietario, quello con gli occhiali che mi sta alle costole".
I buttafuori non lo perdono di vista. "Quello con gli occhiali" probabilmente aspetta una sua mossa. Lui si allontana, si mette a ballare in equilibrio su una gamba, incrocia le mani sul basso ventre, fa un gesto osceno. Dieci minuti dopo torna alla carica: "La coca te la do a fine serata, quando finisce tutto". Fruga in una tasca. Tira fuori la decantata pasticca: "Mi dispiace, è proprio come ti dicevo. Ne ho solo una". "La vendi o non la vendi?". "E' buona, leccala". Amara anche questa. "E' l' ultima. Se no, c' è un amico, che ne ha 28 da vendere a 50 mila lire l' una. Ma non sono così buone". La trattativa comincia a diventare estenuante. Gli do l' ultimatum: "Eccoti, qua ci sono 60 mila lire". Non bastano: "Cerco una ragazza che mi faccia divertire. Se la vuoi, stai con me stasera". "Fottiti".
Persa l' occasione, eccone un' altra. Al parcheggio. "Vuoi pasticche? Californiane". Sono in cinque. A prova della buona qualità della roba, mostrano se stessi: "Non vedi, siamo fatti come scimmie".
Quattro salti in perizoma. E' l' ora del Cocoricò. Chiamarla discoteca è un eufemismo. In confronto il Peter Pan è un monastero.
Del resto gli stessi proprietari hanno dichiarato sul Resto del Carlino: "Le discoteche non sono chiese né palestre... E' ora di finirla con i moralismi". Polemica rivolta all' art director del Cellophan, Pier Pierucci, che sta invece tentando di lanciare in riviera le notti "buone". La "dream music", musica da sogno, anziché l' inferno della Trance, dell' Underground, della Progressive, i generi che hanno rimpiazzato la vecchia Techno, già musica "diabolica", intensificando il ritmo delle battute...
Il Cocoricò ha arredi in stile arabo, stanzette harem, saletta privé per trentenni, una piramide di vetro sulla pista grande, dove i più giovani consumano i sussulti allucinogeni dell' ecstasy, incitati dai deejay migliori d' Italia. Impossibile resistere nei gironi dell' allucinazione collettiva senza additivi in corpo. Gente seminuda balla in perizoma, gente aggrappata ai muri, gente per terra. Occhi sbarrati, occhi chiusi. Visi bagnati. Tanfo di sudore.
Buttafuori che circolano con le rice-trasmittenti agitate a mo' di manganello, pronti a quietare le risse che non mancano mai.
L' ecstasy stavolta la chiediamo. A un ragazzino di Catania. "Anzi, veramente sono di Caltagirone, della provincia, ma tu che sei, una "pulotta"? E il tuo amico con la cravatta?", rivolto al fotografo di Epoca, "non mi fido tanto". Non si fida, ma vende ugualmente, a 40 mila lire.
Bye, bye polizia. Le quattro e mezzo del mattino. Fuori una volante della polizia aspetta la fine della notte. Eserciti di adolescenti barcollanti travolgono noncuranti i tre poliziotti, sfollano bambine in bilico su 20 centimetri di zeppa, ragazzini che prendono a calci muri e si prendono a calci tra loro. C' è uno con i capelli bagnati che urla: "Fatevi sotto, bastardi, fatevi sotto. Ho bisogno di sfogarmi" e nel frattempo sradica un alberello. La folla si disperde ai parcheggi, nelle orecchie ancora l' ultimo ritornello underground: "Oooò, oooò, oooò". La volante della polizia parte sgommando e scompare tra le placide colline della Romagna. Mentre la sagra continua.
Cappuccino e croissant al bar "Tre moschettieri" di Riccione. Alle 6 e mezzo, gli ostinate dell' ecstasy si incontrano all' "afterhour" di Gradara, il Club 99, la discoteca che apre quando le altre chiudono. Si balla fino a mezzogiorno. Ma noi, ecstasy comprato per lavoro e dimenticato in tasca, crolliamo molto prima.

BOX
DALLA A ALLA ZETA IL VOCABOLARIO DEL POPOLO SBALLATO DELLE DISCO COSI' PARLANO I RAGAZZI DELLA NOTTE "Hai una canna? Ho calato e ora sono in down". Ecco cosa significano frasi come questa.
Un week-end da consumatori di stupefacenti sulla riviera romagnola.
Il cronista ha dovuto imparare subito il gergo per mimetizzarsi e informarsi sui prezzi, sulla qualità, sul tipo di sostanze che circolano "liberamente" in discoteca. Ecco l' elenco di parole chiave, alcune scontate altre quasi da gang, ascoltate nelle notti brave di Riccione e dintorni.
AFTERHOUR Discoteche che aprono all' alba, tra le 6 e le 7 del mattino, un paio d' ore dopo la chiusura degli altri locali. Le più famose in riviera: lo Zip e il Club 99. La clientela: molto spesso quella con ecstasy a lunga tenuta, che ama impasticcarsi e ri-impasticcarsi per tutta la notte. Si balla fino a mezzogiorno.
AMSTERDAM Dalla capitale olandese arriva la maggior parte delle pasticche di ecstasy che si spaccia in Italia. Il prezzo all' origine è di 5-6 mila lire l' una, qui può arrivare anche a 100 mila lire (minimo 35 mila).
CALARE Prendere l' ecstasy. Spesso viene inghiottita accompagnata da un drink alcolico che ne amplifica l' effetto.
COCA Venduta di frequente in polvere, a volte in "pietra", ovvero a scaglie non tritate. Costa dalle 140 mila alle 200 mila lire al grammo.
DOWN E' il senso di spossatezza che compare quando l' eccitazione dell' ecstasy finisce.
ECSTASY Le pasticche (talvolta anche capsule simili agli antibiotici) possono essere di vari colori: bianche, rosse, verdi, blu, gialle, rosa, maculate, con disegni o simboli incisi (la falce e martello, la svastica, l' ancora). I nomi: Eva, Smemorina, starlight, Funghetto, Gettone... La più ricercata: la Smemorina. Ha la proprietà di far sentire i suoi effetti all' improvviso anche giorni dopo. Normalmente una pasticca dura otto ore. I consumatori abituali ne prendono anche tre o quattro la volta, o la alternano a una tirata di coca. L' ecstasy esiste anche liquida. Ma in Italia è rarissima.
FUMO Ovvero l' hashish. Le qualità più ricercate sono lo "00" e il Pakistano nero. Un paio di "canne", o spinelli, costano in piazza sulle 10 mila lire. Più raro trovare marijuana. Il pubblico delle discoteche spesso fuma solo per attutire l' effetto "down" dell' ecstasy.
PIERRE Iniziali di pubbliche relazioni. Il "pierre" in questo caso è la persona che ha il compito di portar gente in discoteca.
Distribuisce cartoncini d' invito: quanti più cartoncini vengono presentati in cassa dai clienti con la firma sul retro del pierre, tanto più l' addetto alle pubbliche relazioni guadagna. In certe discoteche può capitare che i pierre aiutino a procurare l' ecstasy.
TRIP Ovvero "acidi" o "Lsd". In riviera girano sotto forma di finti francobolli cosparsi di allucinogeno. I nomi più comuni: Om (con il segno della Trimurti indiana), Red five point star (con una stella), White Dove (con una colomba), e poi Strawberry, Buddha, Star Wave...
Costano dalle 15 alle 30 mila lire. Uno basta per quattro persone.




Testata
Epoca

Data pubbl.
28/06/94

Numero
25

Pagina
60

Titolo
VOLETE RESTARE GIOVANI? QUEST' UOMO VI PUO' AIUTARE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
UMBERTO SCAPAGNINI NOVELLO FAUST E, ADESSO, ANCHE EURODEPUTATO PER HOBBY

Sommario
Silvio Berlusconi, Emilio Fede, Mike Bongiorno... E i giocatori del Milan, neo campioni d' Italia. Tutti, per essere sempre in forma, si sono affidati alle sue cure. I risultati? Un successo. Il suo segreto? Ve lo sveliamo noi. "Sacchi mi aveva proposto di seguire la Nazionale, ma c' era poco tempo"

Didascalia
L' ETA' ANAGRAFICA NON CONTA
Umberto Scapagnini nel suo studio milanese. "All' anagrafe ho 53
anni, ma biologicamente, dieci di meno".
Sotto: Emilio Fede, 63 anni.
SI SONO AFFIDATI A LUI
Daniele Massaro, 33 anni. E' stato uno dei protagonisti dello
scudetto del Milan.
Franco Baresi, 34 anni, capitano del Milan e della Nazionale
azzurra.
Mike Bongiorno, 70 anni, uno dei personaggi più amati dal pubblico
tivù.

Testo
Le porte di Arcore si sono spalancate tre anni fa, quando Silvio Berlusconi l' ha accolto a cena per la prima volta. Da allora, per Umberto Scapagnini, 53 anni, endocrinologo napoletano, diventato famoso per le sue terapie anti-invecchiamento e per le frequenti apparizioni in tivù, quelle porte non si sono mai più richiuse.
Anzi. I rapporti tra il professore dispensatore di rinnovate giovinezze (carica accademica: direttore dell' istituto di farmacologia dell' università di Catania) e il presidente del Consiglio si sono intensificati. Fino a diventare rapporti anche politici.
Scapagnini, un passato di ricercatore in Belgio a fianco del Nobel Heymans e poi all' Università di San Francisco, assicura a Berlusconi misture anti-stress a base di antiossidanti e disintossicanti. Berlusconi a sua volta l' ha trasformato, alle ultime elezioni europee, in colonna portante di Forza Italia in Sicilia: "Secondo dopo il presidente: 73 mila preferenze", butta lì il professore, volato già via da Catania, dove vive e lavora da 19 anni, allo studio di Milano, a due passi dalla centralissima piazza San Babila.
Poco importa che in passato Scapagnini fosse stato socialista.
Quello che contano adesso sono i suoi successi medici con la "psico-neuro-immuno-endocrinologia", disciplina che indaga sull' interscambio tra cervello, ormoni e sistema immunitario.
Successi che non si limitano al benessere di Berlusconi. Ma anche alla neo-efficienza fisico-sportiva dei giocatori del Milan, presi in cura sette mesi fa; all' adesione alle sue terapie di Emilio Fede, di Mike Bongiorno e di altri vip di cui il professore, per deontologia, non vuole fare i nomi. "No, non ci sono io dietro la vittoria di Berlusconi. Ma dietro quella del Milan, un po' sì", ammette. "Questa stagione è stata un trionfo".
Eternamente abbronzato, una leggera inflessione napoletana nella voce, Scapagnini (in questi giorni partito per il Tibet per studiare i segreti degli ultracentenari) si autopropone come redivivo Faust: "L' anagrafe dice che ho 53 anni. Ma i test da me utilizzati per attestare l' età biologica dimostrano che le mie attività cerebrali, lo stato dei miei organi e dei tessuti, sono quelli di un uomo di 43 anni".
Epoca: Come è possibile? Scapagnini: L' età anagrafica non sempre corrisponde a quella biologica. Ognuno invecchia secondo parametri specifici: alcuni di carattere genetico, altri legati alla vita che si conduce.
Aggressioni batteriche, sostanze tossiche, emozioni troppo forti o stress possono mettere in crisi l' equilibrio tra cervello, sistema endocrino e immunitario, fino a scatenare patologie che deteriorano l' organismo, accelerando l' invecchiamento parafisiologico.
Epoca: Un esempio? Scapagnini: Tangentopoli. Avete visto quanti politici sono morti o stanno morendo? Andreotti, per esempio: aveva un adenoma ipofisario e un polipo vescicale. Una malattia comune tra chi ha problemi con la giustizia è il cancro al polmone. Goria ed Evangelisti sono morti così. Citaristi e Sbardella sono anche loro malati.
Epoca: I rimedi? Scapagnini: Gli endofarmaci, ricavati dalle sostanze prodotte dal nostro organismo.
Epoca: E Berlusconi? Sta seguendo una terapia antinvecchiamento? Scapagnini: No, è una terapia antistress, preventiva dell' invecchiamento, con uso bilanciato di antiossidanti e disintossicanti. Ma lui ha capacità cerebrali, condizioni dell' organismo straordinariamente al di sopra della media. Trae energia dal suo cervello e ha qualcosa che non ho trovato in nessun altro essere umano: la percezione anticipata di quello che succede.
Epoca: Non sta esagerando? Scapagnini: No. Ho un' enorme fiducia in lui.
Epoca: Come l' ha conosciuto? Scapagnini: Marcello Dell' Utri, l' amministratore delegato di Publitalia, era venuto a una mia conferenza. Mi aveva invitato ad Arcore. Andai per cena. Berlusconi ci disse che alle 11 ci avrebbe buttato fuori. Invece parlammo di calcio e finimmo all' 1 e mezza. A mano a mano siamo diventati intimi.
Epoca: Fino a proporle la candidatura in Forza Italia? Scapagnini: Berlusconi si fida molto di me, soprattutto come medico.
Epoca: E come amico? Scapagnini: Be' , sono stato uno dei primi a sentirlo cantare l' inno di Forza Italia. E so anche quale è stato l' attimo in cui ha deciso di scendere in campo.
Epoca: Quando? Scapagnini: A novembre, la sera della partita Milan-Napoli. Sembrava che il Napoli stesse vincendo. Ero imbarazzato, visto che sono napoletano ma anche consulente per le terapie antistress del Milan... Poi invece, vittoria per la squadra di Berlusconi. Lo chiamai al telefono, ma lui non esultava. "Stasera", mi disse, "abbiamo consegnato il Paese in mano ai comunisti". Era il giorno delle elezioni amministrative.
Epoca: E la sua candidatura? Scapagnini: Ho accettato quella alle Europee perché credo che a Bruxelles si possano sbloccare progetti importanti per il Sud.
Epoca: Lei in passato è stato socialista con Salvo Andò, ex ministro della Difesa, sotto inchiesta poi per presunti rapporti con il boss Santapaola...
Scapagnini: Ho avuto simpatie per il Psi. Salvo Andò (lasciamo stare quello che gli è successo...) mi disse: "Facciamo il rinnovamento".
Gli credetti e accettai l' incarico di assessore all' urbanistica a Catania. Ma eravamo stati usati dalla Dc come "coperchio". Così feci cadere la Giunta.
Epoca: Con Forza Italia non rischia di diventare una specie di medico di regime? Scapagnini: No. Ho assoluta fiducia in Berlusconi. Ha dato un segnale positivo.
Epoca: In Sicilia Berlusconi è accusato di non voler combattere la mafia. O no? Scapagnini: La Dc dichiarava lotta alla mafia. Non servono le parole ma i metodi: abolire le clientele passando dal proporzionale al maggioritario. Alle europee dove si è votato con il vecchio sistema ho dovuto sostenere una campagna elettorale durissima, contro gli stessi compagni di partito. E ho ricevuto minacce di morte. Sì, dall' interno di Forza Italia.
Epoca: Torniamo alla sua attività professionale: i risultati delle sue terapie sui calciatori del Milan? Scapagnini: Recupero dagli sforzi. Capacità di mantenere la concentrazione.
Epoca: Le hanno proposto di seguire la Nazionale? Scapagnini: Ne ho parlato con Sacchi. Ma non potevo mettere a posto una squadra in sette giorni.
Epoca: L' amicizia con Berlusconi le ha procurato pazienti in Fininvest. Emilio Fede? Scapagnini: I miei pazienti sono spesso amici. Fede è una persona squisita. Non sa nascondere nulla. Sparare su di lui è come farlo sulla Croce Rossa.
Epoca: E su Berlusconi prevarranno gli effetti benefici del successo o quelli deterioranti dello stress? Scapagnini: Ah, non c' è nessuno che gestisca lo stress come lui. E' un uomo toccato dal destino.




Testata
Epoca

Data pubbl.
24/05/94

Numero
20

Pagina
46

Titolo
SONO IL MARLOWE ITALIANO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Testo
Chi è Raniero Rossi, il detective sulle tracce di Ylenia.
Sulla caccia a Ylenia, Raniero Rossi, 59 anni, titolare dell' agenzia Malibù di Perugia, certamente sta giocando tutta la sua carriera. Ma è difficile credere che sia così ingenuo come qualcuno vuole dipingerlo. Un giocatore d' azzardo, forse.
Sicuramente una vecchia volpe del mestiere, visto che il 26 agosto dell' anno scorso è stato ufficialmente "incoronato" presidente della Wad, l' Associazione mondiale dei detective, organismo fondato negli Stati Uniti nel 1925, che riunisce oggi 900 istituti d' investigazione in 104 paesi del mondo, per un totale di 200 mila "impiegati". Posto precedentemente occupato da Harold Lipset, il detective di San Francisco passato alla storia per le indagini che causarono il Watergate e la caduta del presidente Nixon.
Raniero Rossi, sportivo, gioviale, una figlia, Laura, 18 anni, che vuol fare la sua stessa carriera, si ritiene un Marlowe di nuova generazione: "Il futuro di questa professione", sostiene, "è affidato a gente con la laurea in tasca". Laurea come la sua, in criminologia, presa all' Università di Madrid, appesa all' interno della sua agenzia, la Malibù, uffici alla periferia di Perugia dove Rossi coordina uno staff di cinque giovani investigatori.
Raniero Rossi non nasce detective. Ex cantante lirico (basso nel Don Carlos), nel 1968 lavora nel calzaturificio del padre, a Perugia.
Sospettando qualcosa di poco chiaro nella gestione degli affari di famiglia, si affida a un' agenzia investigativa: la Malibù, appunto.
L' incontro è fatale. Tre anni dopo Rossi decide di rilevare l' agenzia e lanciarsi nel nuovo mestiere. Va a studiare a Madrid e a Londra, dove segue alcuni seminari sulla sicurezza. Il primo caso che gli viene affidato, un risarcimento a un allevatore che si dichiarava muto, dopo esser stato incornato da un toro, si rivela un fallimento (l' uomo, intascati i soldi, va a Lourdes e "miracolosamente" riacquista la parola). Ma nel 1982, è proprio la Wad a consacrarlo "miglior detective dell' anno" per aver smascherato una studentessa tedesca, autrice di un incendio doloso in un deposito di legna a Francoforte.




Testata
Epoca

Data pubbl.
03/05/94

Numero
17

Pagina
30

Titolo
CON DI PIETRO NEL MONDO DEL FUTURO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
VIAGGIO NELLE NOVITA' ELETTRONICHE DI OGGI (E DI DOMANI)

Sommario
E' bastato un computer al processo Cusani per sbalordire l' Italia e far scoppiare polemiche. Ma per gli esperti quello che abbiamo visto in tivù è già un sistema superato. Sentite quali sono le vere meraviglie in arrivo. E come ci cambieranno la vita.

Didascalia
MA POSSONO BASTARE SOLO 2 MILIONI Le attrezzature del processo erano
sofisticate. Per un lavoro analogo basta un Macintosh Performa 450
da 2.200.000 lire. Nella foto: Roberta Macchi, informatica di Di
Pietro.

Testo
Il maxischermo da 60 pollici, preso in prestito dalla Sony, è in fondo all' aula, tra il banco dove siede l' imputato Sergio Cusani e il tavolo della Corte. Di fronte, una scrivania con due monitor e un computer: vero podio telematico dal quale il giudice Antonio Di Pietro può snocciolare elettronicamente mille pagine di requisitoria, sintetizzate su un Cd Rom da 500 megabyte. Un clic e compaiono schemi, tabelle, fotogrammi, si possono ascoltare le voci dei testimoni e rivedere le loro facce.
Il primo processo al computer, quello contro Sergio Cusani, "ingegnere finanziario" della mega-tangente Enimont, 44 udienze in sei mesi di lavoro, 177 testimoni, 7 mila pagine di verbali dattiloscritti, ha così inizio martedì 19 aprile in un' aula del tribunale di Milano. Accompagnato prima da stupore poi da polemiche.
"Karaoke giudiziario", lo definisce indispettito l' avvocato difensore, Giuliano Spazzali, e i cronisti si sbizzarriscono in invenzioni come "Tonino il Telematico" o "il Grande Schematizzatore". Mentre semiologi ed esperti di comunicazione inneggiano al "blob giudiziario", al "clip processo", fino a battezzare il giudice con l' epiteto di "magistrato cyber punk".
In tribunale, però, l' avvento della multimedialità non era previsto. Arriva per caso, grazie a un incontro fortuito in pizzeria, due mesi fa. Il giudice Di Pietro ha appena finito di mangiare, sta per mettersi la giacca e andar via, quando viene apostrofato da un distinto signore dai lunghi capelli bianchi. E' il professore Gianni Degli Antoni, docente alla facoltà di Scienze dell' informazione alla Statale di Milano, che gli rinnova al volo un invito fattogli in passato attraverso un comune amico, il magistrato Gerardo D' Ambrosio: "Venga a trovarci all' Etl, al dipartimento di Elaborazione dei testi letterari", dice il professore a Di Pietro. "Le faccio vedere come possiamo "mostrare" messaggi". Di Pietro con un colpo di mano sposta bicchieri e bottiglie da un tavolo, si rimette a sedere e, pratico, rilancia la palla: "Mi faccia capire. Ho una serie di dati da organizzare e presentare al processo. Voi potete fare una cosa così?".
Un paio di giorni dopo, il sabato di Carnevale, il professore Degli Antoni allerta i suoi studenti migliori: Roberta Macchi, 30 anni, responsabile del Multimedial Lab, un laboratorio diretto dal docente, finanziato e ospitato dall' Apple computer che fornisce le attrezzature apparse in tribunale; Fabio Palladini, 28 anni, appassionato di telematica, fondatore di "Little Italy", cittadella virtuale che fornisce informazioni sull' università e il dipartimento come una vera e propria banca dati; il neolaureato Giovanni Valerio. Più altri tre o quattro ragazzi esperti in multimedialità, che vengono ingaggiati come supporto.
L' incarico è top secret: gli studenti devono firmare un documento che li impegna alla massima segretezza. Non possono parlare della collaborazione con Di Pietro con nessuno, nemmeno con i propri familiari. Quello che passerà tra le loro mani sono copie di documenti delicatissimi, ricevute di versamenti miliardari, lettere firmate da Craxi, bilanci societari. Nemmeno alla Apple sono al corrente di quello che si sta per organizzare nei locali del laboratorio, ospitati dalla società, nella sede di Cologno Monzese.
Gli imput vengono dallo stesso Di Pietro. "In laboratorio", racconta Fabrizio Rimoldi, un laureato di 27 anni che ha partecipato alla programmazione, "il giudice non è mai venuto per questioni di sicurezza. Ma ci ha comunque aiutato molto. Ragiona, per fortuna, in modo assolutamente informatico. Grafici, passaggi, tabelle, richiami... Lui aveva in testa tutto. Il suo materiale era già strutturato in maniera graduale, l' argomento principale in alto, e via con i sotto-argomenti".
Per settimane i discepoli del professor Degli Antoni lavorano gratis con gli strumenti messi a disposizione dall' Apple, per una media di 14 ore al giorno, caricando il programma "Hypercard": un sistema che permette "libera navigazione tra i dati", di muoversi in maniera interattiva, cioè da una tabella a un fotogramma, da un grafico a un' illustrazione, con rimandi, salti non consequenziali, connessioni di vario tipo. Un paio di settimane fa, con terminali e tastiere, si trasferiscono nell' ufficio di Di Pietro per gli ultimi ritocchi.
Poi il gran debutto, in aula con Di Pietro: due monitor su un banchetto, il primo del tipo Audio-vision con altoparlanti annessi, l' altro un semplice schermo a colori, più il computer vero e proprio, un Macintosh AWS 80 che costa 11 milioni e mezzo, capace di incamerare fino a un miliardo di informazioni. Di fronte lo schermo gigantesco da 60 pollici per mostrare a tutti il primo grande show della multimedialità applicata alla legge.
Cioè, "interazione e interattività di più media": flashate, schermate, finestre che si aprono e si chiudono su voci, immagini, suoni e parole, usati in questo caso per tirare le fila del processo Cusani. Strumento accusatorio, al posto degli antichi infiocchettamenti oratori, per ricomporre tra richiami e rimandi le mille tessere di uno dei casi giudiziari più intrigati della storia d' Italia.
Sei mesi di udienze ridotti in grafici, tabelle, fotogrammi, vengono riportati su un Cd Rom, disco simile ai compact usati per ascoltar musica, che offre straordinarie capacità di memoria. Uno strumento che comincia a diventar di largo uso, già passato dalle mani degli addetti ai lavori a quelle del grande pubblico.
Insomma, il Di Pietro show è solo un assaggio, ottimo come lancio pubblicitario, della rivoluzione che avanza. Tutti i grandi gruppi mondiali hanno ormai quasi pronte applicazioni domestiche della multimedialità. Cambierà il modo di vedere la televisione, di fare la spesa, di ascoltare la musica, di leggere i giornali. Vi spieghiamo tutto nelle prossime pagine.

BOX
CHE COSA SERVE PER ORGANIZZARE UNO SHOW COME IL SUO MULTIMEDIALE: ECCO COSA VUOL DIRE Suono, immagini, dati: la nuova frontiera dell' informatica consiste nell' usare contemporaneamente questi tre elementi. In pratica, significa riunire in un unico strumento le funzioni di tre diversi mezzi di comunicazione: il telefono, la tivù e il computer.
IL COMPUTER Si chiama Macintosh AWS 80 (sigla per Apple Workgroup Server).
Costa 11 milioni e mezzo.
I MONITOR 1) Macintosh Audio-vision con microfono per comandi verbali (1.300.000). 2) schermo a colori (710 mila).
IL PROGRAMMA Sempre della Apple-Macintosh, si chiama Hypercard. La versione base costa 200-220 mila lire.
I CD ROM Tutto quello che Di Pietro ha mostrato in aula è contenuto in un unico disco Cd Rom. Costa poche migliaia di lire.




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/04/94

Numero
16

Pagina
8

Titolo
TRASFUSIONI PERCHE' IN ITALIA SI RISCHIA ANCORA TROPPO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Michele Misuraca

Sezione
STORIE

Occhiello
DOPO L' ULTIMO SCANDALO DEL PLASMA SCADUTO, UNA GRANDE INCHIESTA DI "EPOCA"

Sommario
Nel nostro Paese si raccoglie quasi un milione di litri di sangue all' anno. Quanto di questo è davvero sicuro? E quante possibilità ha un paziente di contrarre Aids o epatite con una trasfusione? Mentre i carabinieri e il ministero della Sanità indagano sugli ultimi clamorosi ritrovamenti di plasma fuorilegge, "Epoca" ha ripercorso le vie del sangue, dal produttore al consumatore. Ecco che cosa ha scoperto. TROPPI DONATORI SALTUARI. E DI LORO SI SA POCO ANCHE OSPEDALI ALL' AVANGUARDIA SI FIDANO DI CERTIFICATI VECCHI SI USANO TEST ABBASTANZA AFFIDABILI. MA IL RISCHIO ZERO NON ESISTE

Didascalia
QUESTO SANGUE POTREBBE ESSERE INFETTO
Sacche di sangue per trasfusioni. Ciascuna ha una capacità di
350-450 ml. In Italia ogni anno ne vengono raccolte oltre due
milioni.
SOSPETTI DI MERCATO NERO AL SUD
Una trasfusione durante un intervento chirurgico. Il sangue,
abbondante al Nord, scarseggia al Sud. Dove si sospetta un mercato
nero.
COLPITO DALL' AIDS A TRE ANNI
Roberto Sollazzo, tre anni, di Napoli (nella foto con il papà). E'
risultato sieropositivo nel 1992 e la causa potrebbe essere una
trasfusione di sangue subita all' ospedale Bambin Gesù di Roma.
Secondo i dati del registro per le infezioni da Hiv in pediatria,
tra i bambini fino ai tredici anni ci sono, dal 1985 a oggi, 133
casi di Aids conclamata.
IN ITALIA TROPPI CENTRI TRASFUSIONALI
Un laboratorio di analisi. Le provette sono conservate in
frigorifero. In Italia i centri trasfusionali sono 427. Il ministero
non riesce a controllarli tutti.
IL PREZZO: 165 MILA LIRE A SACCA
Una sacca di piastrine, ricavate da una donazione. Il prezzo di una
sacca di sangue è di 165 mila lire: le paga lo Stato. Per il
paziente è gratis.

Testo
Ferdinando Aiuti, direttore dell' istituto di Immunologia dell' università La Sapienza di Roma: "Ogni anno in Italia circolano almeno 25 sacche di sangue a rischio di Aids".
Elio Guzzanti, presidente della commissione nazionale Aids: "Sangue sicuro? Ma se in certe regioni d' Italia ci sono tutte le condizioni perché esista addirittura un "mercato nero"".
Adriana Ceci, europarlamentare del Pds: "Controlli? Di quasi un quarto del sangue raccolto nel nostro Paese non esiste nessun tipo di documentazione".
Persino Pierangelo Stanghellini, codirettore dell' azienda farmaceutica Immuno, produttrice di emoderivati, ammette a malincuore che, se si parla di sangue, "garantire la totale sicurezza è praticamente impossibile. Controlliamo al 100 per cento il rischio Aids, al 99 per cento quello epatite C. Ma se si dovessero scoprire nuovi virus?".
L' allarme, insomma, non cessa. E non tanto per i "nuovi" virus, quanto per i vecchi, quelli dell' Aids e dell' epatite C. Da Lucca, lunedì 11 aprile è rimbalzata la notizia del sequestro, compiuto dai Nas prima di Natale, di 3 mila litri di plasma scaduto, privi di qualsiasi certificazione, trovati all' Istituto sieroterapico Serafino Belfanti di Milano. Sotto accusa, oltre al presidente del sieroterapico Sergio Caneschi, uno dei leader del settore: Guelfo Marcucci, proprietario di Videomusic, e capo dell' omonimo gruppo che raccoglie le principali aziende italiane specializzate nella produzione dei farmaci ricavati dal sangue.
Marcucci aveva di recente acquistato l' Istituto sieroterapico di Milano, firmando una clausola che lo obbligava a prelevare 5 mila litri di plasma provenienti dal Sud America. Si giustifica: "Noi ci siamo limitati a comprare solo 2 mila e 500 litri di questa partita, quelli accompagnati dai certificati previsti dal ministero della Sanità". La difesa d' ufficio preparata da Franca Grecchi, direttrice dell' istituto da oltre 30 anni, offre un' altra versione dei fatti: "Macché Sud America. Il sangue arriva dai centri della Lombardia e ogni sacca è accompagnata dai certificati necessari".
Eppure era scaduto, congelato da due anni. "Sì, ma questo non significa che è da buttare", dice la Grecchi. "Può essere impiegato per ricavare prodotti diversi dagli emoderivati".
Intanto la magistratura indaga. E, anche se a frenare il panico è intervenuta l' Associazione politrasfusi italiani con una nota ( "gli emoderivati presenti in questo momento sul mercato sono in regola con le norme di sicurezza"), dubbi e domande rimangono.
Restando al momento senza risposta.
Miliardi e corruzione. Senza risposta restano pure i tanti altri misteri che accompagnano questa faccia della "malasanità". A cominciare da ottobre, quando lo scandalo ha coinvolto Duilio Poggiolini, ex direttore generale del ministero della Sanità, responsabile di aver tenuto in commercio fino al 1987 emoderivati non testati contro l' Aids e l' epatite C.
Misteri che continuano a discapito dei malati. Come il piccolo Roberto Sollazzo, tre anni, che sarebbe risultato positivo all' Hiv, virus che causa l' Aids, nel 1992, dopo una trasfusione all' ospedale Bambin Gesù di Roma. Come Barbara, il "caso X" (vedi riquadro qui a fianco) raccolto da Epoca. Come le tante altre vittime di un "affaire", quello del sangue, che interessi multimiliardari, negligenze, corruzione hanno reso sporco, o quanto meno sospetto.
Promesse non mantenute. Eppure il ministero della Sanità aveva dichiarato a ottobre, dopo l' affare Poggiolini, che dal 1988, anno in cui si introdussero i controlli obbligatori, il sangue doveva considerarsi sicuro. Perché allora si continua a morire? Come fidarsi delle rassicurazioni "istituzionali", se il pericolo d' infezione di fatto non è mai finito? Epoca ha provato a seguire le "vie" del sangue, a ricostruirne i percorsi in mezzo al caos delle strutture pubbliche, tra inadempienze legislative, faciloneria degli operatori, scontri tra i titani che gestiscono il mercato. Un viaggio tra sospetti e paure. Con qualche consiglio per mettersi al riparo dai rischi.
Le vie del sangue. Si prenda il caso del piccolo Roberto Sollazzo.
La giovanissima età del bambino rivela che i vantati controlli sul sangue, dal 1988 in poi, non sono così efficaci come il ministero vuol far credere. Il registro per le infezioni da Hiv in pediatria riporta tra i bambini, a causa del sangue infetto, 133 vittime dell' Aids. La data di partenza per la raccolta delle cifre è il 1985 (anno per altro in cui il test esisteva in commercio, anche se semplicemente "consigliato" da una circolare del ministero): "Ma la cosa più grave", spiega Pierangelo Tovo, professore all' Istituto di clinica pediatrica di Torino, "è che sette di questi bambini sono diventati sieropositivi dopo il 1988. E tutti per trasfusioni di sangue". Probabilmente non sono i soli. Il registro raccoglie dati parziali e solo su bambini fino a 13 anni.
A confermare i dubbi, anche i dati sugli adulti. Secondo il registro nazionale Aids, al 31 dicembre 1993 risultano 259 casi di malattia contratta in seguito a trasfusione di sangue con 154 decessi. Mentre salgono a 829 i casi di Aids tra i coagulopatici che hanno fatto uso di emoderivati. Considerando tutti coloro che hanno contratto la sieropositività, senza necessariamente essere in malattia, la cifra aumenta ancora. Per l' Associazione italiana politrasfusi sono oltre 3 mila i contagiati, di cui 526 sono morti. Più un numero incalcolabile di persone (tra 50 e 75 mila solo nel 1985) che avrebbero preso l' epatite C.
I canali di contagio. Il rischio contagio, Aids come epatite, ha due canali. Il primo è quello degli emoderivati (vedi riquadro nella pagina a fianco). Il secondo quello delle trasfusioni, che interessano in Italia circa 500 mila pazienti l' anno, di cui 150 mila emopatici, colpiti cioè da malattie al sangue.
Adesso che i controlli dovrebbero essere affidabili, causa del contagio secondo gli esperti è il "rischio finestra", un periodo (circa 6 mesi per l' Aids, 2 mesi per l' epatite C) in cui il virus, latente nel sangue del donatore, non viene rilevato dai test di laboratorio. "Per l' Aids è un caso su 100 mila donazioni", dice Aiuti. Per l' epatite uno su diecimila. In Italia, dove si raccolgono da 2 milioni a 2 milioni e 200 mila "sacche" di sangue l' anno, il pericolo Aids riguarda insomma 20-25 sacche. Ed è maggiore al Sud, dove la carenza di donatori "abituali" porta a raccogliere il sangue come meglio capita, tra donatori occasionali (in Italia sono 1 milione e 200 mila contro gli 800 mila abituali).
Potenziali killer. Secondo Aiuti potrebbero spesso appartenere a categorie a rischio: "C' è l' uso di offrire, in cambio della donazione, il referto del test Hiv. Così non è escluso che chi sospetta di essere sieropositivo, anziché rivolgersi ai centri di analisi, preferisca piuttosto dare il sangue".
Un quarto è sangue "nero". Ma il rischio potrebbe venire anche da errori di laboratorio. Chi può assicurare che, tra le 163 sezioni trasfusionali disseminate nelle varie regioni e i 264 servizi di immunoematologia e trasfusione, i controlli vengano eseguiti dappertutto con accuratezza? Il "caso X", la bambina che sarebbe stata contagiata durante una trasfusione all' ospedale di Pesaro, per esempio, rivela una prassi assai poco ortodossa: al centro trapianti dell' ospedale, considerato uno dei migliori d' Italia, chi andava a fare una donazione bastava portasse con sé il certificato di sieronegatività, senza che nessuno si preoccupasse di ripetere gli esami.
La denuncia dell' onorevole Ceci, del resto, proietta il sospetto di controlli non sempre regolari: "Di circa un quarto del sangue raccolto in Italia non appare documentazione sul registro della commissione nazionale per l' Aids. E questo succede dal 1985". Cifre alla mano, l' eurodeputato, che è anche docente di Ematologia pediatrica all' università di Bari, spiega che sui 2 milioni circa di sacche raccolte ogni anno nel 1990 risultavano registrate con relativi certificati un milione 788 mila donazioni, nel 1992 un milione e 650 mila, nel 1993 un milione e 800 mila. "Non dico che le sacche delle quali non si ha notizia siano necessariamente infette.
Dico che sono fuori da ogni controllo burocratico-amministrativo.
Purtroppo in Regioni come l' Abruzzo, il Molise, la Puglia, la Sardegna non esiste nemmeno un registro del sangue, figurarsi i raccordi con il ministero".
Succede a Matera. Addentrandosi nel caos amministrativo si scopre che la legge 107 del 1990 è ancora una scatola vuota. Questa legge, per esempio, prevede che ogni Regione sia dotata di un centro di "coordinamento e compensazione" per la raccolta del sangue. "Le Regioni carenti possono stipulare convenzioni con regioni più ricche", spiega Caterina Gualano, segretaria della commissione per il servizio trasfusionale. Succede? "Non sempre".
Il caso di Matera lo dimostra. La Basilicata è una delle Regioni dove c' è più carenza di sangue. A Matera, anche un altissimo numero di sieropositivi: il 22 per cento tra i talassemici, più un 99 per cento colpiti da epatite C. "Ovvio. Il professor Di Venere, primario dell' ospedale dove lavoravo come tecnico di laboratorio", racconta Giuseppe Taccardi, ex presidente dell' associazione talassemici della provincia, "fino al 1986 ha raccolto il sangue tra detenuti e tossicodipendenti". I talassemici nel 1990 hanno fatto un esposto, ma il primario, sospeso dal servizio in un primo momento e subito reintegrato, è ancora al suo posto. "Vista la carenza di sangue avevamo cercato di stipulare una convenzione con il professor Girolamo Sirchia, direttore del centro trasfusionale di immunologia dei trapianti di Milano", racconta il nuovo presidente dei talassemici, la signora Azzone. "Il primario si è opposto. In compenso, si è messo in macchina ed è andato a Napoli a comprare il sangue, dopo che, tempo fa, aveva affermato lui stesso di aver trovato a Pompei plasma infetto". Il professor Di Venere conferma che in passato "tutti i primari di Puglia e Basilicata raccoglievano sangue nelle carceri e nelle caserme". Ma nega di aver "comprato" sangue a Napoli: "E' stata una donazione dell' Avis napoletana in cambio delle autorizzazioni a far circolare in Basilicata i furgoncini-emoteca" Dovrebbero però essere le Regioni e non i singoli a regolare lo scambio del sangue. "Purtroppo", denuncia l' europarlamentare Adriana Ceci, "su uno scambio di sacche tra Regioni, quantificato attorno alle 300 mila unità, 90 mila sacche sono sotto controllo, mentre il percorso delle altre 210 mila rimane un mistero".
Traffico clandestino. Mercato nero? C' è chi, contro tutti, ne sostiene l' esistenza: Elio Guzzanti, presidente della commissione Aids. "Non ho nessuna prova, per carità, ma sono certo che soprattutto al Sud ci siano donatori pagati. Occasionali, ovviamente. Del resto in altri Paesi la donazione retribuita è tranquillamente permessa dalla legge". Secondo Guzzanti, inoltre, i 2 milioni di sacche raccolte in Italia non bastano al fabbisogno nazionale. "Dove si prende il resto? C' è uno scarto che mi fa pensare a canali di approvvigionamento diversi da quelli ufficiali".
Eppure in Italia la legge parla chiaro. La donazione deve essere gratuita e volontaria, così come gratuita è la trasfusione per chi ne ha bisogno sia in ospedale sia in clinica privata. Se costi ci sono, sono a carico di chi raccoglie, esegue i controlli, fraziona il sangue donato.
Secondo il decreto del 22 novembre 1993, un' unità di sangue intero in "sacca multipla", cioè sangue a più elevato utilizzo (ogni sacca contiene un litro di sangue da cui si ricavano plasma, piastrine, globuli rossi...), costa 165 mila lire. Secondo il principio dell' autosufficienza nazionale, valido per le trasfusioni (e da quest' anno anche per la produzione di emoderivati), tra le Regioni che comprano e le Regioni che producono e vendono, il bilancio dovrebbe essere in pareggio.
Test al risparmio? Ma i rischi che corrono i pazienti? Se il pandemonio burocratico aggrava le cose, la medicina dovrebbe aiutare a sconfiggere almeno il "pericolo finestra". Anche qui c' è polemica. Angelo Magrini, presidente dell' Associazione politrasfusi, chiede che si usi il test "Pcr", sigla inglese che sta per "reazione polimerale a catena", test in grado di registrare il virus anche durante il periodo finestra, addirittura a 2 o 3 giorni dall' infezione. Magrini accusa il ministero di non introdurlo per una questione di costi, risparmiando così sulla vita dei malati. Ma in realtà il "Pcr" è usato ancora solo a livello sperimentale e per di più sconsigliato da molti esperti. Come Aiuti: "E' improponibile che si faccia su tutte le donazioni. E' un metodo che dà spesso falsi positivi, facilmente soggetto a inquinamento ambientale, difficile da usare. Porterebbe a scartare almeno il 15 per cento delle donazioni buone". I costi? Secondo Aiuti occorrerebbero 200 o 300 miliardi. L' immunologo propone invece doppio test sulle donazioni (20 miliardi), più la ricerca dell' antigene P24 (altri 20 miliardi), che nel 40 per cento dei casi registrerebbe il virus a 7 giorni dall' infezione.
Pier Mannuccio Mannucci, direttore della Scuola di ematologia dell' università di Milano, è scettico anche sul P24. I suoi consigli per limitare al minimo il rischio sono di altro tipo: "Evitiamo il ricorso a trasfusioni o emoderivati là dove non è strettamente necessario. I chirughi hanno l' abitudine di farne addirittura spreco". E poi: "La selezione dei donatori. Obblighiamo allora i centri trasfusionali a usare solo quelli abituali, persone seguite, conosciute, intervistate a fondo sulla loro vita privata".
Potrebbe essere una soluzione. Il "caso X" di Pescara vale per tutti: i donatori del sangue trasfuso alla bambina talassemica erano tutti occasionali. Parenti e amici, in mancanza di altro.

TABELLA
IL RISCHIO IN NUMERI
Quante trasfusioni si fanno in Italia
in un anno ..... 500.000
Quante sacche di sangue vengono
raccolte ogni anno 2 milioni
Quante sfuggono alla registrazione 400.000
Quanti casi di Aids conclamata
da trasfusioni dal 1985 a oggi 259
Sacche infette in circolazione l' anno 20-25
La sacca equivale a... 350-450 ml di sangue



Testata
Epoca

Data pubbl.
22/03/94

Numero
11

Pagina
38

Titolo
TRASFUSIONI: L' AIDS ANCORA IN AGGUATO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
RIESPLODE LO SCANDALO DEL SANGUE INFETTO

Sommario
Ci avevano garantito: dal 1986 in poi il sangue è sicuro. Ma il caso di Robertino, tre anni appena, contagiato a Roma dal virus Hiv, fa riesplodere le polemiche. Come è potuto accadere? Di chi la colpa? Mentre il padre del bambino accusa Duilio Poggiolini, potente ex direttore della Sanità, Angelo Magrini, presidente dei politrasfusi, allarga il campo. E denuncia: i controlli sui donatori sono tuttora a rischio. "La circolare Poggiolini del 1986 fu una vera presa in giro; per un anno furono venduti ancora emoderivati non testati" Il sangue infetto ha contagiato in Italia tremila persone, uccidendone 526. Di esse, 139 erano bambini. I pericoli maggiori al Sud, soprattutto negli ospedali della Calabria, della Puglia e della Lucania. "AIUTI DEVE DIRE DA CHE PARTE STA. I SUOI CONTI NON TORNANO"

Didascalia
Angelo Magrini, 44 anni, esperto di marketing, presidente dei
politrasfusi.
Roberto Sollazzo, 3 anni: avrebbe contratto l' Aids per una
trasfusione. Il padre, in un esposto alla magistratura, chiede sia
chiarita l' origine della "inspiegabile" infezione. E arriva a
ipotizzare che Roberto possa essere stato scambiato in culla.
Duilio Poggiolini, ex direttore generale della Sanità.

Testo
La sua è una vera crociata. Contro il ministero della Sanità che accusa di "strage di Stato". Contro l' ex direttore Duilio Poggiolini, "responsabile di omicidio colposo". Contro i burocrati che bloccano le pratiche di risarcimento, contro chi difende gli interessi delle multinazionali farmaceutiche. E non è una crociata a vuoto. Un risultato, infatti, Angelo Magrini, torinese, 44 anni, presidente dell' Associazione politrasfusi italiani, l' ha ottenuto.
E' riuscito a far scoppiare per la seconda volta lo scandalo del sangue infetto, che aveva già travolto a novembre il ministero della Sanità e il suo ex direttore Poggiolini, accusato di aver autorizzato fino al 1987 il commercio di emoderivati positivi al virus dell' Aids.
Il sangue "avvelenato" ha contagiato in Italia 3 mila persone uccidendone 526. Uomini e donne che hanno contratto la sieropositività per colpa di una trasfusione o per aver preso emoderivati infetti. Ma anche bambini. Come Roberto Sollazzo, 3 anni, il piccolo di cui hanno parlato giornali e tivù, allo stadio terminale della malattia, contratta dopo una trasfusione all' ospedale Bambin Gesù di Roma.
"Un caso isolato? Ascoltate", dice Magrini, mentre spulcia nel suo computer, dove ogni scheda è coperta da una chiave segretissima.
Alza la cornetta: "Sono Magrini, buongiorno, come sta Antonio?".
Altra telefonata: "Come sta Angela?". La terza: "Come sta Cristian?". Dall' altra parte del filo, la voce delle madri. Quella di Antonio: "E' disperato, dottore. Ormai non ci vede quasi più e da un orecchio sta perdendo l' udito". Quella di Angela (l' altra bambina napoletana infettata dall' Aids dopo una trasfusione): "Adesso sta giocando, ma sappiamo bene...". Quella di Cristian: "La scorsa settimana abbiamo dovuto portarlo di corsa all' ospedale". Il rapido sondaggio nel dolore, da Napoli a Reggio Calabria, a Bolzano, rivela storie agghiaccianti: "Antonio ha 19 anni e sta morendo di Aids", spiega Magrini, "Angela ne ha 7 ed è nelle stesse condizioni e così pure Cristian che ha 10 anni. Sono ragazzini contagiati dai farmaci o dalle trasfusioni".
Consulente di marketing ("Sono uno dei 5 della "missionary self force" del Mulino Bianco", dice, "cioè creatore della forza vendita del marchio della Barilla, oltre che dell' Intimo di Carinzia), il presidente dei politrasfusi italiani è anche membro della Commissione sul servizio trasfusionale del ministero della Sanità e della Consulta per la lotta all' Aids. Sposato con due figli, egli stesso affetto da una patologia definita simil-emofilia, si è ammalato di epatite C dopo una trasfusione fatta nel 1991. "Se l' Aids ha colpito 3 mila persone", dice, "l' epatite ha fatto almeno 30 mila vittime". Ma non è questo che gli sta a cuore. Sono i bambini come Roberto, Angela, Cristian. "Quanti ne sono morti? Almeno 139". Da dove prende questo dato? "Dalle pratiche di risarcimento per il cosiddetto danno biologico presentate al ministero della Sanità. Su 4 mila 956 richieste di persone infettate dal virus dell' Hiv o dell' epatite C, sono stati rimborsati 139 casi. E sono tutti minori deceduti per Aids".
C' è però un' altra fonte che contraddice l' allarmismo di Magrini: il registro italiano per l' infezione Hiv in pediatria. Qui si legge che ad aprile 1992, sono 131 i bambini in età pediatrica, da 0 a 13 anni, colpiti da sieropositività. Morti: 17. Qual è la verita? Centotrentanove o diciassette? "Diciassette sono quelli registrati nel 1992, tra 0 e 13 anni. Ma se andiamo indietro nel tempo, includendo anche i più grandi, 139 è una cifra calcolata addirittura per difetto".
Il solito balletto di numeri e date su cui nessuno riesce a far chiarezza. Una cosa però è certa. La giovane età delle vittime, come Roberto, Angela, Cristian, non solo rilancia lo scandalo, ma mette in dubbio il teorema temporale dietro il quale il ministero della Sanità si era fatto scudo. E cioè che dopo il 1988, anno in cui i controlli anti-Hiv diventano obbligatori, tanto gli emoderivati in commercio quanto il sangue usato nelle trasfusioni, possano ritenersi assolutamente sicuri. "Certo", dice Magrini, "adesso abbiamo garanzie maggiori che in passato, ma resta il rischio legato al "periodo finestra": la fase in cui il virus in incubazione non viene rilevato dagli esami di laboratorio". Pericolo che vale soprattutto per le trasfusioni: "E' da considerarsi a rischio 1 donatore su 100 mila quando si tratta di donatori abituali, 7 casi virgola 5 quando ci troviamo di fronte a donatori occasionali".
E gli emoderivati? Lo scandalo dell' Ub-plasma di Coblenza, che ha smerciato preparati a base di sangue, senza sottoporli al test Hiv, dimostra che quanto dichiarato dalle case farmaceutiche non sempre corrisponde alla verità...
"Lo sappiamo bene, siamo noi che abbiamo messo sotto accusa i prodotti che la ditta Immuno aveva comprato dall' Ub-plasma e li aveva commercializzati in Italia. Erano arrivati a falsare le date sui lotti... Ma qui, si sa, ci troviamo di fronte a una lobby intoccabile". Intoccabile e pericolosa. Da quando Magrini si è messo a denunciare i casi di sangue infetto, sul suo cellulare non manca giorno che qualcuno non lo minacci di morte. "Non è la prima volta.
E' da anni che va avanti così".
Fondatore dell' Associazione politrasfusi nel 1979 (2 mila e 626 iscritti) l' esperto di marketing ha lanciato i primi attacchi alle istituzioni per il "sangue pulito" nel 1985: "Il 17 luglio di quell' anno era stata emanata dal ministero una tiepida circolare che raccomandava, senza obbligare, il test anti-Hiv sugli emoderivati. A novembre abbiamo mandanto un telegramma di diffida al ministro affinché rendesse obbligatorio il test. Viene fatto il 30 aprile 1986, su tutti i prodotti d' importazione, emoderivati e le materie prime: ma è una presa in giro. La circolare firmata da Poggiolini autorizza a tenere sul mercato fino al 1987 anche gli emoderivati non testati".
Nel 1991 ripartono gli strali di Magrini contro De Lorenzo e lo stesso Poggiolini, accusati di favorire gli interessi delle multinazionali che soddisfano in Italia l' 85 per cento del fabbisogno di emoderivati. "Il ministro", racconta, "mi denunciò per "terrorismo informativo", ma sono stato assolto".
Adesso, l' ultimo scontro del combattivo Magrini lo vede costituirsi parte civile insieme al papà del piccolo Roberto contro Duilio Poggiolini. Con un duplice obiettivo. Primo: "Fare in modo che le vittime ottengano i risarcimenti dovuti. Sapete quanto dovrebbe pagare lo Stato per ogni persona che è stata contagiata dal virus dell' Aids? Meno di 11 milioni l' anno. Alle famiglie dei morti vanno 50 milioni. Una mancia". Servirebbero un' ottantina di miliardi, ma la legge 210 / 92 per il risarcimento è stata invece finanziata per 19 miliardi nel 1992 e 10 nel 1993. "Per di più essendo rimaste bloccate tutte le pratiche, il governo Ciampi ha annullato il primo stanziamento di 19 miliardi".
Secondo obiettivo di Magrini: la sicurezza del sangue usato nelle trasfusioni. "Bisogna tamponare il "rischio finestra" introducendo un test particolare, il Pcr, che registra la presenza del virus sin dall' inizio". Pronunciato all' inglese "pisiar", abbreviazione di Polymerase Chain Reaction, cioè azione polimerasica a catena, il test che rivela l' infezione anche in assenza di anticorpi, permette di riprodurre in laboratorio un pezzo di Dna tante volte quanto basta per ricreare il numero di molecole necessarie allo studio.
Perché non si adotta? "Per una questione di costi e benefici. Lo Stato preferisce liquidare 50 milioni a morto. Questo esame lo fanno solo le cliniche private a pagamento".
L' immunologo Ferdinando Aiuti lo sconsiglia, però. Comporterebbe, dice, uno spreco immane di "materia prima", mentre sarebbe meglio, secondo lui raddoppiare i test sulle sacche di sangue donato e compiere un' ulteriore indagine cercando l' antigene virale P24 che segnala anche la fase iniziale dell' infezione. Costo: 45 miliardi.
"Aiuti deve dirci da che parte sta. I suoi calcoli economici non funzionano. Perché il Pcr è vero che in clinica privata costa 800 mila lire a sacca. Ma se lo si facesse in serie allo Stato verrebbe a costare 8 mila lire a donatore. E noi chiediamo che sia introdotto non per tutti i donatori ma solo per gli occasionali".
Un' altra voce, quella di Adriana Ceci, ematologa dell' università di Bari e relatrice al Parlamento europeo di un rapporto sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati, riferisce di una sacca di sangue su 5 non sottoposta agli esami obbligatori. Secondo la Ceci, in Italia dove vengono raccolte 2 milioni e 200 mila sacche di sangue l' anno, l' incidenza della positività all' Aids risulta registrata solo su 1 milione e 600 mila sacche. "Poco credibile", dice Aiuti. Gli fa eco il presidente della commissione nazionale della lotta contro l' Aids, Elio Guzzanti: "Se così fosse i casi di Aids sarebbero molto più numerosi".
Ma Magrini spiega: "La Ceci non vuol sostenere che esistono 600 mila sacche a rischio. Semplicemente che non tutti i centri che si occupano della raccolta del sangue hanno fornito risposta sui test effettuati e sulla sicurezza dei campioni prelevati". Negligenza? "Il settore è nel caos. Se il Nord risulta relativamente sicuro, il Sud rappresenta per esempio un vero buco nero. Manca la cultura della donazione. Decine e decine di autoemoteche itineranti raccolgono il sangue dove capita, anche vicino alle stazioni o ai porti". Succede al Sud, ma succede anche alla stazione Termini di Roma, a quella Centrale di Milano. "Sì, è vero, con il pericolo che lì doni il sangue chi capita, anche un tossicodipendente o una prostituta". E gli ospedali? Quali sono da considerare veramente a rischio? "Quelli della Calabria, della Puglia, della Lucania. Bari, Caserta, Palermo sembrano gironi infernali... E' lì che si è infettata la maggior parte dei bambini". Magrini spegne il computer.
I nomi degli ospedali sono per legge top secret.




Testata
Epoca

Data pubbl.
08/03/94

Numero
9

Pagina
38

Titolo
NELLA CASA DI UNA "TESTA RASATA" DI OSTIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
COME HANNO POTUTO FARLO? PARLANO I GENITORI DI UNO DEI RAGAZZI ARRESTATI PER LA CACCIA ALL' IMMIGRATO TUNISINO

Sommario
E l' Italia si ritrova a fare i conti con il razzismo. Quello più spregevole. Quello della caccia all' uomo, dei bastoni, delle coltellate. Succede nel Lazio, per adesso. Per capire da dove viene questa violenza, e dove può portarci, siamo andati dal padre e dalla madre di uno dei giovani accusati del raid degli "ottanta contro uno". Sconvolti? Neanche tanto.

Didascalia
SUBITO ARRESTATI Nella foto grande: il tunisino Alì Sadaani, 30
anni, ricoverato in ospedale. Qui a fianco: uno dei ragazzi di Ostia
arrestato con altri otto con l' accusa di aver aggredito
l' immigrato.

Testo
"Volete vedere la stanza di uno skin-head?". Una rampa di scale, una camera dalle pareti circolari. Dentro è quasi vuota. Al muro solo una specie di collage fatto con gli inviti delle discoteche del litorale romano. Poi una foto dell' idolo rock Jim Morrison e un caprone satanico disegnato con l' aerografo. "No, niente svastiche a casa nostra. Ah, gli anfibi... Certo, la polizia voleva sequestrarli, come se bastassero a incriminare un ragazzo per tentato omicidio". La bella signora con le mèches fuma nervosa una sigaretta dopo l' altra. E' madre di uno dei nove giovani di Ostia arrestati perché il 19 febbraio sull' autobus di linea Fiumicino-Lido di Ostia hanno assalito e accoltellato un tunisino di trent' anni, Alì Sadaani, ricoverato all' ospedale. Un caso di odio razzista che ha impaurito e scosso le coscienze di tutti. "Niente nomi, altrimenti non parlo. Io sono sicura che mio figlio era lì per caso. Tornava dalla discoteca, come qui fanno tutti i ragazzi il sabato sera". Razzista? "Mi rifiuto di credere che possa esserlo lui che ha uno zio egiziano, una madrina mulatta, che viene da una famiglia vissuta per anni in Africa. E con mio marito che agli extracomunitari dà da lavorare...".
Un "giustiziere razziale" nel cuore di una famiglia "perbene": la mamma ex impiegata (da ragazza è cresciuta ad Asmara), il padre piccolo imprenditore, una bambina bionda di cinque anni che spennella su un quaderno. Si sono trasferiti da poco in una palazzina sul lungomare, con i muri ancora freschi d' intonaco e le stanze quasi vuote. "Mio figlio è bravo a scuola, perfetto in ogni tipo di sport. Fa anche arti marziali, è vero, solo per imparare a difendersi. Ha i capelli rasati, ma perché sta per perderli e si vergogna. Io so tutto di lui... Sono una mamma-Rambo, una di quelle che seguono i figli".
Eppure quella sera la caccia all' extracomunitario c' è stata davvero. Anzi, pare che sia di moda sul litorale: la stessa notte che Sadaani è stato accoltellato, due egiziani hanno detto di essere stati minacciati. Tre giorni prima era toccato a un italiano, scambiato per polacco. Ostia, capitale del terrore razziale, come hanno scritto i giornali? Borgata nera, serbatoio di voti missini, periferia di skin-head... Appena due anni fa si scriveva l' opposto: Ostia simbolo del riscatto civile, dei commercianti che si ribellano al racket del pizzo mettendo all' opera un telefono verde imitato in tutt' Italia. Oggi, invece, le telecamere riprendono i genitori dei nove ragazzi che inveiscono davanti al commissariato di polizia, il giorno degli arresti: "Bastardi, rovinate i nostri figli per una stupidaggine come questa...". Il marito della signora con le mèches, tipo giovanile con l' aria sveglia, jeans e scarponcini, corregge il tiro: "No, non è una stupidaggine. Se mio figlio è colpevole di qualcosa che paghi pure. Però... Quel tunisino pare vendesse droga.
E quello che l' ha accoltellato è un tossicodipendente. Certo, mio figlio lo conosce. A Ostia ci si conosce tutti...".
In realtà, al commissariato di polizia non risulta nulla a carico di Alì Sadaani: i nove ragazzi incriminati farebbero parte di una vera banda, skin-head picchiatori con simpatie di estrema destra. Il padre minimizza: "Anch' io da ragazzo giocavo con la bandiera del Msi. Poi di quelli del mio gruppo uno è diventato comunista, un altro socialdemocratico. E io... Ognuno ha le sue idee. Che vuol dire? Qui nessuno se la prende con i negri se non danno fastidio".
Già, il fastidio. Quanti siano gli extracomunitari, nessuno è in grado di dirlo con esattezza: "Tanti, tantissimi", allarga le braccia Nicolò D' Angelo, vice questore. La città-satellite della Capitale vanta un campionario di tutte le razze, dagli ebrei russi arrivati nel dopoguerra, ai polacchi, ai nordafricani, ai cileni.
"Prendete gli egiziani, quelli si sono integrati, lavorano nei bar, nei ristoranti, uno di loro ha fatto parte anche della squadra di calcio", dice il padre del ragazzo, "sono diventati amici di tutti.
I polacchi no, loro si ubriacano dalla mattina alla sera. Solo quando lavorano sono più tranquilli". Dal balcone che dà sul lungomare si vedono le rovine fatiscenti di una villa in stile liberty. Lì dormono i polacchi. "La mattina escono per prendere l' acqua. Non so come vivano lì dentro, io non ci ho mai messo piede. Ma certo non hanno bagni. Così fanno i loro bisogni fuori. E d' estate l' aria diventa irrespirabile".
Dalla stazione fino al quartiere dell' Infernetto, tra cileni che rubano e scippano ai nordafricani che spacciano, a molti sembra di vivere in territori occupati. Dice la madre: "I ragazzi sono irritati da questo spettacolo. A me fa pena vedere gente sporca, malandata, sofferente, ma per loro è peggio, si caricano di rabbia".
E poi c' è il problema del lavoro: "Gli extracomunitari sgobbano per 30 mila lire al giorno. Tolgono il posto ai nostri ragazzi che non possono accettare così poco. Mio marito i polacchi li fa lavorare con paga regolare. E figurarsi, la gente lo prende per pazzo...".
Dalla parte opposta di Ostia, in un quartiere popolare, un' altra delle nove madri di presunti skin-head sfoga la sua rabbia: "Mio marito lavora un mese sì e uno no. Per colpa di quelli lì, dei polacchi... E sono io a mandare avanti la baracca". Mostra il televisore ( "Ne abbiamo quattro in casa"), il frigo pieno di roba ( "Non manca nulla da noi"), la foto del figlio ( "Vi sembra uno skin-head questo? Un ragazzo che studia e lavora già come geometra"). Ed ecco la camera da letto del ragazzo, curiosamente identica alla prima, a quella della palazzina con vista sul mare. Al muro, stesso collage, stessi inviti delle discoteche del litorale.

BOX
LETTERA APERTA DI UN ITALIANO QUALUNQUE A UN IMMIGRATO DI COLORE Dopo l' orrenda aggressione di Ostia, "Epoca" ha cercato di interpretare la vergogna dei cittadini. Ma anche i loro timori.
Leggete questa pagina e, se la condividete, provate a discutere con gli extracomunitari.
QUESTA LA TRADUZIONE IN ITALIANO Caro amico, sono un italiano, un italiano qualunque, una delle migliaia di facce diverse dalla sua che lei incontra durante le sue giornate nel nostro Paese.
Mi vergogno per quello che molti miei concittadini fanno contro i suoi compagni. Sono inorridito per i linciaggi e le violenze grandi e piccole che le persone come lei subiscono ogni giorno. Protesto contro i miei connazionali che sfruttano coloro che vengono da altri Paesi facendoli lavorare senza pagarli.Vorrei non essere più testimone delle umiliazioni, delle offese verbali, degli sguardi d' odio che molti vi infliggono. Vorrei che razzismo fosse una parola sconosciuta per i miei figli.
Vorrei che tutto questo finisse, che l' Italia fosse tollerante e comprensiva con chi ha bisogno ed è diverso nel colore della pelle, nell' aspetto, nella cultura e nella religione. Ma vorrei anche che lei, e tutti quelli come lei che arrivano in Italia per cercare una vita migliore, capissero che cosa mi preoccupa e qualche volta mi spaventa. Mi preoccupa il vostro numero, il fatto che diventate ogni giorno più numerosi e che ogni giorno diventa più difficile pensare come aiutarvi e far convivere culture, religioni e abitudini così diverse dalle nostre. Mi preoccupa il fatto che molti italiani sono poveri come voi e non riusciremo ad aiutarli o a dar loro lavoro se lo Stato dovrà occuparsi anche di milioni di immigrati da altri Paesi del mondo. Mi spaventa il degrado in cui siete costretti a vivere a pochi metri dalle nostre case. Mi spaventa la violenza che molti di voi hanno cominciato a esercitare in alcune zone delle nostre città. Mi spaventa che, con tutta la delinquenza che già abbiamo a casa nostra, qualche disperato faccia da manovale ai grandi trafficanti di droga o ai signori della malavita. E' vero: in ogni società o piccolo gruppo ci sono le pecore nere e non si devono far cadere le colpe dei pochi sui molti. Ma ormai conviviamo con troppa illegalità, e non è giusto che chi vuol essere tollerante debba accettare tutto in nome del rispetto della povertà e della diversità. Non è giusto che chi condanna ogni violenza debba però rassegnarsi a vivere peggio, nel disagio o addirittura nella paura.
Fonte della nostra tolleranza deve essere la certezza della nostra identità culturale, la difesa dei nostri valori comuni, la garanzia della sicurezza. Fonte della vostra dignità nel nostro Paese sono i diritti che vi dobbiamo riconoscere e che non possono però trasformarsi nella legittimazione dei peggiori tra voi. Non saremo né lei né io a risolvere questi grandi problemi, ma forse basterebbe che cominciassimo a capire ciascuno i diritti dell' altro.




Testata
Epoca

Data pubbl.
01/03/94

Numero
8

Pagina
38

Titolo
LA VERA VITA DI RENATO MORANDINA, IL "COMPAGNO M"

Autore
Maria Grazia Cutuli ha collaborato Attilio Vinciati

Sezione
STORIE

Occhiello
L' UOMO DELLA SETTIMANA

Sommario
Da maestro elementare democristiano a consigliere regionale comunista, storia dell' eminenza grigia del Pds veneto coinvolta nei fondi neri Fiat.

Didascalia
LUI E IL CAPO Renato Morandina con Achille Occhetto durante una
manifestazione a Venezia: "E' un mio amico personale".

Testo
Gli avversari politici lo chiamano "Sir Biss", come il serpente di Robin Hood. Qualcun altro l' ha soprannominato "il portaborse" per la volta in cui a Mestre arrivò Giorgio Napolitano e lui si offrì di tenergli in custodia la ventiquattrore. Altri ancora sprecano aggettivi come "rompipalle, testardo, intransigente". Certo è che per aver cominciato da maestro elementare, Renato Morandina, 53 anni, esponente del Pds veneto, originario di Campagna Lupia, sulla Riviera del Brenta, di strada ne ha fatta. Tanta da essere in grado, secondo quanto ha detto lui stesso la scorsa settimana al giudice Di Pietro, di offrire "consulenze" addiritura alla Fiat, in cambio di 200 milioni.
Il copione ricorda quello di Primo Greganti, già Signor G., pioniere di sospette tangenti versate al Pds. Come il suo antesignano, Morandina, detto per analogia Signor M., scagiona il partito dall' accusa di aver ricevuto soldi dai due manager della Fiat, Ugo Montevecchi e Antonio Mosconi, per finanziare la campagna elettorale di Massimo D' Alema. Si autoaccusa e toglie dai guai il compagno Cesare De Piccoli, ex sindaco di Venezia ed europarlamentare, che sarebbe, secondo Montevecchi, l' intestatario dei due conti svizzeri Carassi e Accademia 3066. "Quei conti sono miei", confessa Morandina a Di Pietro, aperti tra il 1990 e il 1992 per alcune "consulenze" rese alla Fiat. Possibile? Morandina si sta immolando per il partito o ha solo approfittato della sua posizione? La vicenda è ambigua, anche perché il pidiessino ammette poi di aver impiegato 60 milioni per la campagna elettorale di alcuni esponenti veneti. E le consulenze che avrebbe fatto sarebbero stati consigli sui passi da seguire per accaparrarsi appalti come quello sulla metropolitana translagunare e i Centri intermedi di interscambio merci. E' tangente, allora, o non è tangente? Come Primo Greganti, si diceva. Ma la storia del maestro elementare per la verità è molto diversa da quella dell' intestatario del conto Gabbietta, operaio diventato imprenditore. Ex democristiano, ex dirigente Acli, Morandina si iscrive al Pci nel 1974. Desideroso più di potere che di denaro, con il suo sguardo miope, la fronte stempiata, il fisico magro e nervoso, punta dritto ai posti di comando. Per la violenza verbale e i modi da fustigatore si fa molti nemici anche all' interno del Pds, i miglioristi da una parte, gli ingraiani dall' altra. Ma riesce a inserirsi bene nella cordata vicina a Occhetto. Con ruolo di gran manovratore: è lui a gestire in Regione le trattative per la giunta, i candidati per le elezioni, a tessere rapporti. Come con i manager Fiat? Califfo di provincia. Il caso Morandina è quello di un califfo di provincia dalla vita a double-face: da una parte le manovre politiche nelle sale scintillanti dei palazzi veneziani, dall' altra il basso profilo della Riviera del Brenta, dove i compaesani parlano ancora dialetto stretto e la sera ci si ritrova a giocare a biliardo al Bar Compalto, a Campagna Lupia. Senza ostentazioni, senza gli status symbol cari a Greganti. Se quello girava in Renault Espace, Morandina viaggia su una vecchia Fiat Regata, abita in una villetta a Camponogara, la domenica al massimo porta la moglie, Franca, insegnante di lettere, e la figlia, studentessa allo scientifico, in gita nel Veneto.
La provincia è però il suo trampolino di lancio. Già il padre Guido, nel dopoguerra gestore di un consorzio alimentare, poi impiegato della Cassa rurale, in paese è considerato con invidia un "intellettuale". Quando muore la moglie (madre di Renato, Piergiorgio ed Ezio), si risposa con la figlia di un maresciallo dell' aeronautica, mossa che aiuta la promozione sociale ed economica della famiglia. Renato e fratelli studiano e questo in paese non è poco. Con il tempo ciascuno dei tre troverà una sua strada anche in politica: dal comune ceppo dc, Piergiorgio, oggi geometra alla Provincia, diverrà assessore al Psi, mentre Ezio, che lavora alla Miralanza, militerà nella Cisl. Un altro fratello, nato dalle seconde nozze, è invece missino.
Come maestro elementare Renatoèuninsegnante all' avanguardia. Il direttore della scuola Don Milani ha parole di elogio: "Attende il suo nobile ministero con impegno, amore, zelo". L' unico problema: le assenze che aumentano in maniera esponenziale al suo impegno politico (nel 1977 / 78 raggiunge i 165 giorni), fino a quando nel 1980 entrerà in aspettativa.
Nella Dc di Campagna Lupia, il giovane Morandina è considerato uno dei ragazzi più promettenti. Quando passa alle Acli nel 1968, diventa immediatamente segretario provinciale. "Un rognoso come non se ne sono mai visti", racconta Adelino Marchiori, sindaco comunista di Campagna Lupia per 25 anni. "Quel primo maggio...", come Peppone e Don Camillo: il sindaco a far sfilare i trattori e Morandina, in testa alla processione, crocefisso in mano, a bloccargli la strada.
"Quello è passato poi al Pci, un cattocomunista... un Giuda".
Abile e attivo, però. Dopo il fallimento del Movimento popolare dei lavoratori di Livio Labor, Morandina, accogliendo l' invito di Berlinguer a entrare nel Pci, ha già le carte in regola per la conquista di Venezia. Dal 1980 al 1990 è consigliere regionale.
Tenterà anche, senza riuscirci, di diventare segretario. E' comunque in segreteria, forte, potente, amico "personale" di Achille Occhetto. Si vanta di riceverlo in casa e di avergli fatto conoscere la moglie, Aureliana Alberici.
Viva la Fiat. Amico anche di Antonio Mosconi, amministratore delegato della Teksid, l' uomo che secondo Montevecchi avrebbe ordinato le tangenti per De Piccoli? E' lo stesso Morandina a raccontarlo a Di Pietro: "Mi fu presentato da uno zio di mia moglie nel 1983". Morandina avrebbe aiutato Mosconi a risolvere i problemi di salute del figlio. Da cosa nasce cosa: conosciuto anche Montevecchi, il pidiessino avrebbe consigliato i due manager sui passi da fare per ottenere appalti come quello della metropolitana sublagunare. Promettendo anche di esercitare influenza politica. Al Pds trasecolano. Il segretario Elio Armano ricorda le battaglie sostenute contro gli interessi veneti della Fiat. Ma c' è chi precisa. E' Ruggero Sbrogiò, ex presidente della Provincia di Venezia con il Pci, ora assessore indipendente: "Il partito, è vero, ha sempre vigiliato sul pericolo di trame affaristiche.Credoperòche dall' interno abbia operato una struttura parallela che conduceva operazioni come questa. No, non è un' iniziativa personale. E' il frutto di un gioco di squadra. E non si è limitato solo alla Fiat".
L' ex presidente della provincia sa molto più di quanto dice? "Forse", risponde. "Aspettate che guardino nelle agende di Gardini".




Testata
Epoca

Data pubbl.
15/02/94

Numero
6

Pagina
110

Titolo
IO, DONNA INDIPENDENTE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CARRIERE FULMINANTI: IL CASO PIALUISA BIANCO

Sommario
In pochi mesi è arrivata a dirigere un quotidiano arrabbiato e a condurre un talk show in tivù. Come ha fatto? Faccia a faccia con la signora che prima di incontrare Bossi e Feltri scriveva saggi marxisti. E che ora dichiara: "Donne che ammiro? Nessuna".

Didascalia
Pialuisa Bianco, 36 anni, neodirettore de L' Indipendente e
conduttore su Italia 1 del programma preelettorale O di qua o di là.
Pialuisa Bianco nel salotto di casa. Ha iniziato la carriera
giornalistica quattro anni fa, all' Europeo di Vittorio Feltri.

Testo
"Affonderemo le unghie nella carne viva... Che vale fare il solletico ai bitorzoli martinazzoliani, ai baffi di Akel, al collo taurino della signorina Bindi... Graffieremo eccome, graffieremo di più".
Con questa dichiarazione d' intenti, vero patto di sangue con i lettori, Pialuisa Bianco, 36 anni, chioma rosso fuoco, incedere deciso su un metro e sessanta d' altezza, sale su un trono di fatto precluso alle donne: quello di direttore di un quotidiano nazionale, L' Indipendente.
E al già glorioso debutto, ufficializzato con firma sul giornale lunedì 24 gennaio, se ne aggiunge un altro. Televisivo: dal primo febbraio Pialuisa Bianco compare infatti su Italia 1 con un programma preelettorale che si intola O di qua o di là.
Ma bastano la grinta, l' aggressività, l' adesione spinta alle regole unisex della carriera (la Bianco parla sempre di sé al maschile: "il giornalista", "il direttore", "il primo che...") a garantire un successo così improvviso? O sono le simpatie leghiste, rafforzate dall' odio per la sinistra, a far di lei la donna giusta al momento giusto? E pensare che per storia e formazione Pierluisa Bianco potrebbe stare agli antipodi di dove si trova. Nata a Lecce da una famiglia di professori universitari, ma vissuta a Roma, ha studiato filosofia all' università con Lucio Colletti, intellettuale allora marxista.
Contava lei stessa di fare ricerca, prima di scoprirsi votata al giornalismo ( "Sono sempre stata discola. Mi interessavano le cose della vita, le battaglie civili...").
Tra le cose della vita, il legame con Massimo Ilardi, sociologo operaista (scriveranno assieme un saggio per Laboratorio politico, rivista di marxismo critico diretta da Alberto Asor Rosa). Tra le battaglie civili, un' esperienza giornalistica, la prima, a Ora D, programma d' ispirazione femminista di Radio Tre.
Donna del sud e per giunta marxista. Poi, all' improvviso, Bossi.
Nel 1990 Pialuisa Bianco, che nel frattempo si è sposata con Giulio Savelli, cinquantenne, ex editore di estrema sinistra, oggi uomo della Lega a Roma, è già buona amica del "senatur". Anzi, è proprio lei a combinare l' incontro, durante una cena a casa sua, tra il leader leghista e Vittorio Feltri, neo-direttore dell' Europeo.
Quando Feltri passa all' Indipendente, Pialuisa lo segue, con posto d' onore: dall' Europeo appunto, dove s' era fatta le ossa, a capo della redazione romana del quotidiano di cui ora è al comando.
Cellulare trillante a fianco, visone abbandonato su una sedia, ufficio spartano. Lei siede dietro la scrivania con le gambe accavallate, fasciate nei jeans, il busto eretto, strizzato in una giacchetta rosso corallo. I capi redattori fanno premura per una riunione. E' quasi ora di pranzo. Li liquida: "Ancora cinque minuti, fatemi finire".
Epoca: Indipendente e tivù. Faticoso? Bianco: Da morire. Comincio alle nove del mattino, concedendomi come unico lusso di leggere i giornali mentre faccio colazione e finisco all' una di notte, dopo un' ora e mezzo in piedi, davanti alla telecamera.
Epoca: Che cosa la spaventa di più? Bianco: La tivù non è il mio mestiere. Sono intimorita, umile. L' ho detto a chi mi ha proposto il programma: potrei rivelarmi una catastrofe.
Epoca: La concorrenza è agguerrita. Enrico Deaglio da una parte con Milano-Italia, Lilli Gruber dall' altra, con Al Voto! Al voto!...
Bianco: Non mi sento una loro concorrente. Lilli è una professionista della televisione e io no. Credo che ci sia posto per tutti: mai come ora ci sono stati tanti spettatori assetati di politica. La gente vuol capire se davvero si volta pagina.
Epoca: Come direttore dell' Indipendente lei ha dichiarato di voler fare un giornale alla stricnina. Una minaccia? Bianco: Io ho dichiarato che farò L' Indipendente, alla lettera, ovvero un giornale fuori dal coro.
Epoca: Fuori dal coro, ma accanto alla Lega? Bianco: Tutti i giornali sono schierati. Persino il Washington Post.
Solo che da noi le testate maggiori sono orientate nella stessa direzione: il polo progressista. Chi non si riconosce in questo, il lettore moderato, che rappresenta oggi quasi il 65 per cento dell' elettorato, ha a disposizione quasi nulla.
Epoca: Teorizza il giornalismo fazioso? Bianco: Non credo sia una colpa avere un orientamento politico, se lo si dichiara apertamente ai lettori. Anzi. Limite dei giornali italiani è quello di seguire una linea consociativa, buona per tutti, che non scontenta nessuno. E' la traduzione della grande tecnica democristiana: essere un supermercato dove si trova qualsiasi cosa, dalla marmellata ai superalcolici.
Epoca: Si dice che L' Indipendente con il passaggio di Feltri al Giornale abbia perso 40 mila copie. Vero? Bianco: Falso. L' annuncio della partenza di Feltri ha creato scompiglio tra i nostri lettori. Ma quando hanno capito che il giornale rimaneva tale e quale, hanno rifiatato. Abbiamo già recuperato. Adesso la media è di 90-100 mila copie.
Epoca: Dieci anni fa lei era una collaboratrice della Rai, indecisa tra giornalismo e carriera universitaria. Oggi dirige un quotidiano.
E in più è una donna. Come si fa? Bianco: Una donna... Mi hanno trattata come un fenomeno, mentre io mi sento solo un indizio statistico: il vivaio delle giornaliste si è allargato e qualcuna diventa direttore. Per il resto...
Epoca: Deve molto a Feltri? Bianco: Sono stata nella sua squadra. L' ho seguito all' Indipendente, quando tutti mi davano della pazza. Sarei dovuta andare con lui al Giornale. Sono rimasta qui perché questo quotidiano ha già un buon livello di vendite, è come un ragazzino che ha imparato a camminare.
Epoca: Magari è rimasta perché le hanno offerto quello che le hanno offerto, o no? Bianco: Non ho mai avuto il successo come obiettivo. Quando lavoro penso solo a quello che faccio. Sono molto competitiva, è vero. Se gioco a tennis preferisco farlo con un campione e perdere, piuttosto che vincere con chi non sa giocare. E così in tutto.
Epoca: Oggi leghista, ieri marxista. Rinnega? Bianco: Be' , marxista... Avevo vent' anni. In realtà non mi sono mai trovata a mio agio con la mia generazione, fatta tutta di "gruppettari". Detestavo i luoghi comuni, l' impossibilità di esprimere i propri dubbi.
Epoca: Quand' è avvenuta la "crisi"? Bianco: Alla fine degli anni Settanta, quando ho cominciato a collaborare con il Leviatano, rivista fondata dal mio attuale marito, Giulio Savelli. Era un giornale che faceva le pulci all' ideologismo degli anni Settanta, il primo passo avanti rispetto al cretinismo di sinistra.
Epoca: A proposito di "ismi". Giampiero Mughini, giornalista, ha scritto proprio sull' Indipendente, che con lei ha una cosa in comune: l' antifemminismo. O meglio, l' odio per le donne. Una battuta? Bianco: Non ho mai amato la banalizzazione della cultura della differenza, la donna contro l' uomo, il fatto che bisogna strappare con la carta bollata quella libertà che ciascuno si conquista nella vita.
Epoca: Ci sono figure femminili che l' affascinano? Bianco: No. Ho avuto una madre che era molto poco vicina allo schema classico. Bellissima. Ma come tutte le donne della mia famiglia, una persona abituata a dir la sua. Io credo nella competizione, nel libero mercato.
Epoca: Pensa che essere una bella donna l' abbia aiutata nella carriera? Bianco: Non me ne sono mai accorta. Sul lavoro, con i maschi, non mi sono mai fatta trattare da bella donna. Ci mancherebbe altro.
Epoca: E l' amicizia con Bossi l' ha aiutata? Bianco: Mi sono interessata a lui tra il 1987 e il 1990, quando era un "onorevole" che si aggirava solitario per le stanze del Parlamento, senza che nessuno se lo filasse. Mi incuriosì e mi incuriosirono i primi successi della Lega. Era il segnale che qualcosa scricchiolava. Molto prima di Tangentopoli.
Epoca: Lei è di origini leccesi. Non ha mai avuto timore dell' antimeridionalismo leghista? Bianco: Mio padre viene da un' antica famiglia leccese. Io non sono di nessuna parte. E poi ho sempre sostenuto che l' antimeridionalismo della Lega fosse solo rabbia verso la nomenklatura di Roma.
Epoca: Cambierà qualcosa dopo le elezioni? Bianco: Francamente non so. Può darsi che ci accorgeremo di essere caduti dalla padella nella brace.
Epoca: Se rimarrà così? Bianco: Starò qui a raccontarlo. Come direttore dell' Indipendente.




Testata
Epoca

Data pubbl.
01/02/94

Numero
4

Pagina
8

Titolo
DISOCCUPATI E' ARRIVATA UNA LETTERA PER VOI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI le lettere dei leader politici sono a cura di Antonella Trentin

Sezione
STORIE

Occhiello
UN RECORD: SONO QUASI QUATTRO MILIONI LE VITTIME DELLA RECESSIONE. ECCO SEI PROPOSTE ANTICRISI

Sommario
Solo la Fiat fa notizia. Eppure in Italia non ci sono mai stati tanti "colletti bianchi" senza lavoro. Non protestano, non scioperano, non scendono in piazza. Ma ora un' occasione per farsi sentire ce l' hanno: le elezioni. "Epoca" ha strappato a sei leader politici alcune promesse concrete. Ora tocca a voi giudicarli. E verificare se manterranno gli impegni. L' ESERCITO DEI SENZA LAVORO: 3 MILIONI DI DISOCCUPATI, 500 MILA IN CASSA INTEGRAZIONE, 200 MILA IN MOBILITA' COLPITI SOPRATTUTTO I SERVIZI: OLTRE IL 50 PER CENTO DEI POSTI DI LAVORO PERSI NEL 1993 SONO NEL TERZIARIO LA CRISI DEI MICRO IMPRENDITORI E DEGLI STUDI PROFESSIONALI: HANNO CHIUSO IN 82.642 IN 9 MESI DEL 1993 1993: meno 556 mila posti. Tanti quanti se ne sono persi nei dieci anni tra il 1981 e il 1991. E per il 1994 si prevede lo stesso saldo negativo. I dipendenti pubblici a rischio: scuola 70 mila, difesa 33 mila, enti locali 15 mila, poste 2 mila, sanità 2 mila, ministeri 2 mila, altri 10 mila. 1993, un anno nero. Artigianato: meno 33 mila posti di lavoro. Commercio: meno 50 mila esercizi. Agricoltura: meno 131 mila occupati.

Didascalia
"ELLA SARA' SOSPESO..."
In tutto il 1993 sono arrivate a destinazione 500 mila lettere come
questa che annunciano la cassa integrazione. E lunedì 17 gennaio la
Fiat ne ha spedite altre seimila a operai e impiegati del gruppo in
tutta Italia.
ANCHE 150 MILA STATALI A RISCHIO
Secondo le ultime stime sono 150 mila i dipendenti pubblici che
rischiano il posto. Come lo hanno già perso 171 mila nell' industria
e 131 mila nell' agricoltura.
MILANO: LICENZIATI MILLE MANAGER
A sinistra: una protesta di bancari milanesi. Nel capoluogo lombardo
nel 1993 sono stati licenziati anche mille dirigenti industriali. A
destra: operai Fiat in corteo contro Romiti e Agnelli.

Testo
Tre milioni di disoccupati. Anzi, 3 milioni e 336 mila. 500 mila in cassa integrazione, 200 mila in mobilità. Una marea crescente di senza lavoro che sconvolge la geografia sociale d' Italia mettendo assieme, per la prima volta, "tute blu" e "colletti bianchi", travolti dalla crisi economica, da una congiuntura che minaccia di fare del 1994 l' anno più nero dell' occupazione in Italia.
Il clamore attorno alla vertenza Fiat, cui Ciampi chiede di continuare a trattare, è solo un assaggio di quello che ci aspetta: la crisi che ha falcidiato infatti, nel corso del 1993, 556 mila posti di lavoro (gli occupati sono scesi da 20 milioni e 732 mila a 20 milioni 176 mila), potrebbe fare altrettante vittime per il 1994.
Rimedi? Epoca ha chiesto a sei leader politici di illustrare le loro ricette per l' occupazione. Le loro "lettere ai disoccupati" sono in queste pagine. Sei proposte diverse per conquistare il voto di quasi 4 milioni di famiglie italiane. Quelle degli operai ma anche quelle di impiegati, professionisti, artigiani, commercianti. Tutti lavoratori cioè che costituiscono un mondo frastagliato che ha difficoltà a presentarsi unito e non protesta. Eppure sta pagando la crisi allo stesso caro prezzo dei dipendenti dell' industria rappresentati dalle organizazioni sindacali. Non a caso l' Istat certifica che è il terziario il settore più penalizzato con 254 mila posti di lavoro tagliati durante lo scorso anno. Segue l' industria con 171 mila posti, e l' agricoltura, 131 mila unità in meno. I lavoratori dipendenti vittime della recessione sono 362 mila, mentre il tasso di disoccupazione nel 1993 è cresciuto dal 9,66 per cento all' 11,29 per cento. Non si salva neanche la pubblica amministrazione: quasi 150 mila persone dichiarate in esubero, 70 mila nella scuola, 33 mila alla difesa, 15 mila negli enti locali...
La mappa della disoccupazione sembra quella di un cimitero. Nel settore dell' auto, tra i tagli alla Fiat, all' Iveco, alla Maserati, alla Piaggio, alla Magneti Marelli, si totalizzano 22 mila esuberi. Tredicimila sono nella siderurgia: nelle imprese Ilva, Lucchini, Falk, Cogne, Deriver. Diecimila nel settore informatico.
All' Olivetti, all' Ibm, alla Unisys... Più colpite le aree tradizionalmente industriali: Torino, Milano, Genova, Venezia.
La crisi colpisce tute blu e colletti bianchi, indistintamente. E' questo il dato nuovo della crisi: cassa integrazione, mobilità, prepensionamenti non toccano solo i soldati del lavoro. Si stima infatti che nel 1993 siano stati messi fuori dal processo produttivo dai 35 mila a 50 mila "quadri". "Gli ufficiali e i sottufficiali", scrive l' economista Mario Deaglio, sulla Stampa, "gente di età media, dal reddito medio, dalle aspirazioni medie, la cui vita di lavoro è stata costruita su un rapporto di impiego stabile e sulla convinzione della propria utilità nel processo produttivo".
La crisi li coglie alla sprovvista. Alla Fiat, per esempio, quattordici anni fa impiegati e dirigenti sfilarono in corteo per difendere gli interessi dell' azienda contro gli operai che scioperavano da 35 giorni. Oggi mille e 800 di loro sono stati messi alla porta e sfilano per le strade accanto alle tute blu. E non solo alla Fiat si mettono alla porta gli impiegati. Le Ferrovie dello Stato: mille di troppo; l' Enel, 700 dirigenti in meno e 1.350 quadri; l' Ilva, 150 manager e 2 mila impiegati. E ancora, l' Alitalia, l' Efim, l' Iritecna... In Lombardia, per esempio, su 120 mila disoccupati iscritti al collocamento, 54 mila sono impiegati e l' Associazione lombarda dirigenti aziendali comunica che 2 mila e 500 loro associati sono a spasso, mille solo a Milano.
Se i colletti bianchi dell' industria piangono, quelli del terziario avanzato stanno ancora peggio: 254 mila posti in meno nel 1993. Un esempio: la pubblicità, ex tempio di creativi e rampanti. Tra i maghi dello spot il tasso di disoccupazione oggi ha raggiunto il 25 per cento. Se gruppi come la Publicis Fcb / Mac, il primo in Italia nel settore, ha tamponato la crisi perché i dirigenti si sono autoridotti lo stipendio del 10% per tutto il 1994 e hanno introdotto per i dipendenti il contratto di solidarietà, altre agenzie hanno già annunciato tagli e licenziamenti. Come la J.
Walter Thompson (meno 20), la Lintas (meno 20), la Saatchi & Saatchi (meno 15).
Prospettive buie anche per i mass media: alla Rai si parla di cassa integrazione per mille dipendenti. E un grido d' allarme arriva anche dall' Ordine degli ingegneri: 3 mila sono a rischio di cassa integrazione. Saldo negativo pure per le ditte individuali (microimprese e studi professionali): la Cerved comunica che nei primi nove mesi del 1993 82.642 società hanno chiuso. Disoccupazione anche per artigiani e commercianti. Tra i primi, secondo una stima della Confartigianato, senza lavoro 33 mila adetti a causa della chiusura di oltre 11 mila imprese artigiane. Nel commercio un calo invece di 70 mila addetti.
Previsioni per il futuro? "Ci vorrebbero 3 milioni e 400 mila posti in più nel prossimo quinquennio", dice il ministro del Lavoro Gino Giugni. "Il mercato del lavoro si riprenderà", gli fa eco quello del Tesoro Piero Barucci, "quando l' economia salirà almeno del 3 per cento". Per ora è a crescita 0,5.
IL LEADER DEI PATTISTI VI PROMETTO 300 MILA POSTI NEI PROSSIMI TRE ANNI di Mario Segni Caro disoccupato, stiamo sperimentando la più profonda crisi congiunturale dal dopoguerra a oggi.
Dobbiamo ridurre ulteriormente l' inflazione, acquisire un forte avanzo nei nostri conti con l' estero, in modo da rilanciare la domanda interna senza correre il rischio di compromettere l' equilibrio economico e finanziario del Paese. Bisogna riportare il tasso di sviluppo almeno al 3 per cento e controllare l' inflazione almeno verso il 2 per cento. Dobbiamo affrontare con prontezza anche la crisi di alcune grandi imprese e soprattutto del sistema delle partecipazioni statali che determina la perdita di posti di lavoro e le perduranti rigidità del mercato che impediscono l' accesso ai più giovani.
Vanno usati tutti quegli ammortizzatori sociali che permettono di affrontare nell' immediato le situazioni di difficoltà delle famiglie. E' necessario però, nel tempo, spostare la logica dai sussidi per la disoccupazione verso incentivi per una nuova professionalizzazione e una nuova occupazione. Bisogna al più presto ricreare per i giovani una figura di apprendistato. Noi proporremo l' azzeramento dei contributi sociali per i primi due anni e la loro riduzione al 50 per cento per i secondi due anni nel caso di assunzione dei giovani. Questa forma contrattuale a tempo indeterminato potrà affiancarsi ai già sperimentati contratti di formazione lavoro a tempo determinato. Il nostro patto per l' occupazione e lo sviluppo permette di creare 300.000 posti di lavoro all' anno per i prossimi tre anni.
Il mio impegno è di trasformare la Sua attuale condizione di difficoltà in una tangibile speranza di vederla, a tempi brevi, inserita in modo attivo e partecipe in quella grande sfida che possiamo e dobbiamo cogliere sin da domani: la costruzione di un' Italia libera, democratica, economicamente prospera e socialmente giusta, avviata verso il 2000.
P.S.: Come vede non Le ho suggerito di farsi raccomandare. La raccomandazione è una delle piaghe che vanno estirpate creando condizioni di trasparenza e di parità tra tutti i cittadini. E ciò deve valere ancor di più nei concorsi pubblici.
Con i miei più cordiali auguri.
IL SEGRETARIO DEL PDS FACCIAMO COME ALLA VOLKSWAGEN E ALL' OLIVETTI di Achille Occhetto Cara disoccupata e caro disoccupato, la parola, di fronte al dramma di chi resta o è senza lavoro, corre il rischio di essere troppo fragile, quasi inconsistente.
Sul lavoro, infatti, si fonda tanta parte del nostro essere, della stima in noi stessi e degli altri; esso è spesso il vero e unico patrimonio di una vita.
Oggi troppo poca è la considerazione verso tutto ciò. I conti sono importanti, ma con troppa leggerezza si mandano sul lastrico lavoratori e famiglie intere. Tutto ciò è grave: non soltanto sul piano etico e umano, ma anche su quello economico-sociale.
Non ci si rende conto che oggi la vera ricchezza delle nazioni, la frontiera principale sulla quale si giocherà la competitività delle imprese, sarà la salvaguardia e l' arricchimento del patrimonio di professionalità e di partecipazione creativa dei lavoratori, operai, impiegati e tecnici.
Si può fare qualcosa? Certo. Basta guardare all' accordo Olivetti e, in contrapposizione, alla vicenda della Fiat. Nel primo ci sono contratti di solidarietà, cassa integrazione, finalizzata alla nuova formazione professionale, eccetera, alla Fiat, invece, rottura delle relazioni sindacali, mobilità lunga senza alcuna prospettiva, cassa integrazione a zero ore.
Ho fatto il paragone con l' Olivetti, ma si potrebbe fare quello con la Volkswagen, dove tutti, dai dirigenti agli operai, hanno ridotto l' orario e il salario a 32 ore alla settimana, ma senza nessun licenziamento.
Un grande piano per il lavoro, con massicci investimenti, riduzione d' orario e così via, lo ripeto da mesi, deve diventare un' ossessione. Per tutti, ma in particolare per il Pds, per le forze di sinistra.
Ovunque c' è un disoccupato o ci sia un licenziamento ci deve essere l' impegno solidale dell' alleanza delle forze di progresso e nostre proposte concrete di soluzione.
IL CAPO DEI LEGHISTI ASSUNZIONI A TERMINE E GABBIE SALARIALI di Umberto Bossi Caro disoccupato, anzitutto voglio esprimerti tutta la solidarietà della Lega confermandoti che porremo in atto ogni iniziativa utile per assicurarti un aiuto concreto. Interverremo direttamente presso i nostri iscritti e simpatizzanti titolari di attività artigianali e di piccole e medie imprese. Anch' essi però sono stati colpiti profondamente dalla recessione in atto della quale è unica responsabile una classe politica di "ladri" e un' organizzazione sindacale (Cgil-Cisl-Uil) che ha agito esclusivamente quale cinghia di trasmissione per la tutela degli interessi dei partiti, massimi protagonisti di "Tangentopoli".
Non è con i "pannicelli caldi" che si possono risolvere i problemi drammatici tuoi e della tua famiglia. Si potrebbero invece utilizzare, assieme ai corsi di aggiornamento e alla mobilità, le "gabbie salariali". E' previsto un salario minore (rapportato all' effettivo costo della vita nel luogo di lavoro), ma un aumento di risorse per i disoccupati.
Come tamponare l' emergenza, non è facile prevedere, in tempi brevi.
Indubbiamente però dopo le prossime elezioni la Lega presenterà un suo piano di occupazione che, facendo perno sulla accelerazione delle "privatizzazioni", su contratti garantiti a "termine e rinnovabili", su "part-time", assicuri ritmi positivi di occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno.
Intanto il governo potrebbe aiutare i disoccupati in aumento, recuperando i fondi rubati dai "ladri" di "Tangentopoli", introitando i conti cifrati all' estero, non solo della malavita, ma anche prelevando da quelli dei grandi gruppi industriali che fanno quadrare i loro bilanci licenziando, per esempio la Fiat.
Comunque, caro disoccupato, quando prestissimo il "polo liberaldemocratico", di cui la "Lega" è la struttura portante, andrà sicuramente al potere cambierà moltissimo. Diverrà operante un' autentica economia di mercato, libertà di concorrenza, appiattimento della pressione fiscale, robusto, autentico sostegno sindacale, attenta difesa delle classi più deboli e quindi degli operai e dei pensionati.
Con viva solidarietà.
LA "PASIONARIA" DEI POPOLARI CONTRATTI DI SOLIDARIETA' E MENO ORE DI LAVORO di Rosi Bindi Caro amico senza lavoro, ho sentito che, dopo parecchi mesi di tira e molla senza stipendio, alla fine l' azienda ha chiuso i battenti e sono scattati i licenziamenti. Purtroppo, la crisi economica ha questo spiacevole effetto, che anziché perdere tutti la paga di 4 o 6 ore settimanali, qualcuno rimane completamente senza lavoro e senza paga, mentre gli altri continuano la loro vita come prima o quasi.
Per questo trovo giusta la logica dei contratti di solidarietà: dove è possibile cerchiamo di sostituire una riduzione d' orario per tanti al licenziamento per qualcuno. Per lo stesso motivo penso che sia una questione di giustizia, prima ancora che di solidarietà, che negli altri casi la società si faccia carico di garantire un reddito a chi come Lei sta pagando per tutti. Nel suo caso si tratta di un licenziamento collettivo di un' azienda di media dimensione e quindi riceverà l' indennità di mobilità, che dà una discreta copertura.
Trovo ingiusto, invece, che negli altri casi vi sia un trattamento molto inferiore e per un tempo più breve (bene ha fatto quindi il governo a decidere un aumento, seppur piccolo, dell' indennità di disoccupazione "ordinaria").
Certo, non è facile ricompensarLa della perdita del contatto quotidiano con i colleghi e di quel senso di inutilità che è spesso lo scoglio più duro per chi perde il posto. E' anche per questo che la garanzia di una certa indennità mensile non deve trasformarsi in una gabbia. Penso al finto mantenimento del posto di lavoro che si ha con la cassa integrazione quando non ci sono prospettive di ripresa, che consente però di andare avanti anni e anni, e penso anche alla possibilità che viene lasciata al lavoratore in mobilità di rifiutare un' offerta di lavoro. Le protezioni eccessive vanno tagliate, anche perché i posti di lavoro si creano avviando nuove iniziative.
Con la mia più sentita solidarietà.
IL PRESIDENTE DI RIFONDAZIONE 250 MILA POSTI COI LAVORI SOCIALMENTE UTILI di Armando Cossutta Caro disoccupato, può sembrarti strano, ma la prima cosa da fare per battersi contro la disoccupazione è non credere alle bugie. Per un intero decennio le forze dominanti ti hanno spiegato della necessità di tagliare la scala mobile e i salari per creare posti di lavoro. Ma come puoi vedere, ora che per la prima volta si sono ridotti i salari reali, il problema della disoccupazione ha proporzioni fino a oggi sconosciute. Ti hanno detto che tagliando pensioni e servizi sanitari - che sono la misura di una società civile - si sarebbero risanati i conti pubblici e sarebbe ripreso lo sviluppo produttivo: come puoi amaramente constatare non è vero.
Ricorda queste cose prima di esaminare le nostre proposte, che sono efficaci e serie. I presuntuosi che esigono i nostri programmi sono spesso quelli che hanno portato il Paese al disastro. Guarda la Fiat e l' Olivetti: non sono minacciati solo gli operai, ma anche migliaia di quadri e di colletti bianchi, i quali - veniva detto - avrebbero assorbito la riduzione del lavoro operaio. Contro la recessione ci vogliono investimenti produttivi e una politica industriale per l' innovazione e dunque il sostegno pubblico nella ricerca scientifica, nella formazione professionale e nei servizi.
Nei settori strategici dell' economia, così come nella sanità e nei trasporti, non servono i grandi privatizzatori: il dramma dell' Alfa mostra che hanno poche lezioni da dare. Invece di eliminare gli ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, si riduca l' orario di lavoro a parità di salario per creare subito nuovi posti e impedire i licenziamenti. Si istituisca, come noi chiediamo, un Fondo per lavori socialmente utili e di risanamento ambientale: 250 mila persone - sono dati della Legambiente - potrebbero essere rapidamente occupate.
Se sei un giovane meridionale non cercare rifugio in un sistema di potere che ha minato le istituzioni. Se sei senza lavoro al Nord non fidarti di chi ti spinge a liberarti dei drammi del Meridione, perché sta preparando - con la divisione - l' asservimento del Paese a potenze economiche straniere. E ricorda: gli immigrati non sono un nemico, ma un alleato per affermare le scelte di cui ti ho parlato con un grande, unitario e democratico fronte di lotta.
IL LEADER DI ALLEANZA NAZIONALE MENO TASSE AGLI IMPRENDITORI CHE ASSUMONO di Gianfranco Fini Caro disoccupato, non ti fare fregare più. La tua condizione, sia essa dovuta all' attesa di prima occupazione o al licenziamento provocato dalla grave crisi economica, ha dei precisi responsabili: i partiti che hanno finora governato l' Italia intascando profitti e tangenti, arricchendo disonesti e parassiti, impoverendo deboli e senza tutela. Se questi partiti, in qualsiasi forma si vorranno mascherare, continueranno a spadroneggiare anche dopo le prossime elezioni, non ci sarà speranza per chi, purtroppo, nel 27 vede solo un qualsiasi giorno del mese...
Ma attenzione: se Tangentopoli sembra aver chiuso l' epoca dei vecchi padrini, un altro pericolo si affaccia all' orizzonte. Quello della sinistra cosiddetta progressista che, a parole, mette l' occupazione al centro del proprio programma. E' un inganno, l' ennesimo. Questa sinistra, così rassicurante per i mercati finanziari e per i salotti del grande capitalismo, sta svendendo il disagio sociale a chi l' ha provocato in decenni di assurda e antieconomica politica statalista. Occhetto al governo non vuol dire ripresa dell' economia anzitutto perché il Pds avrebbe il gradimento di chi ha cancellato centinaia e migliaia di posti di lavoro.
Cambiali così alte si pagano sempre. Noi proponiamo qualcosa di più: la fine del parassitismo. E' ora di creare ricchezza per distribuirla con equità e siamo convinti che la questione occupazionale non si risolva, per esempio, se non si mette mano all' altra grande questione, quella fiscale. E' ora di consentire all' impresa di poter detassare i profitti in cambio di accertati investimenti occupazionali.
E' molto più utile alla nazione che lo Stato rinunci ad alcune entrate fiscali perché utilizzate dai privati per creare posti di lavoro, piuttosto che assistere milioni di disoccupati. Gli ammortizzatori sociali servono ma non possono rappresentare una scelta politica. La solidarietà verso le fasce sociali meno tutelate si attua con investimenti produttivi e non con la promessa di cattedrali nel deserto. E solo noi possiamo garantire un impegno contro la dissipazione delle risorse. La sinistra al potere servirà invece a promettere al governo finanziario dell' economia che la protesta sociale sarà tenuta a freno.

BOX
A CASA 50 MILA IMPIEGATI E 20 MILA DIRIGENTI Le 1.800 lettere con cui, lunedì 17 gennaio, la Fiat ha messo in cassa integrazione altrettanti impiegati sono soltanto la punta dell' iceberg che minaccia non più soltanto gli operai ma anche impiegati, tecnici, quadri, dirigenti e manager. Quanti di loro sono rimasti senza lavoro? 50 mila tra impiegati e tecnici, e 20 mila tra dirigenti e quadri intermedi d' azienda. Il settore più colpito dalla crisi è il terziario: nel 1993 ha perso 254 mila posti di lavoro.

Courtesy and Copyright Arnoldo Mondadori Editor
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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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