DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore,
for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
WORLD 1990-1996, EPOCA

Testata
Epoca

Data pubbl.
13/12/96

Numero
50

Pagina
88

Titolo
CARI LETTORI DI EPOCA VI SALUTO PERCHE' DEVO ANDARE IN RUANDA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Professione abituale: giornalista. Professione nei prossimi tre mesi: osservatore dell' Onu per i diritti umani. Maria Grazia Cutuli dovrà, insomma, cercare di scongiurare nuovi massacri. Perché questa scelta? Risponde lei stessa. Con una promessa. Da mantenere al rientro. "A un certo punto mi è sembrato che il giornalismo non bastasse per capire lo strazio della guerra"

Didascalia
Maria Grazia Cutuli, 34 anni, giornalista di Epoca, al corso per
missioni di pace organizzato dalla Scuola Sant' Anna
dell' Università di Pisa. Sotto: in Afghanistan nel 1995.
Nell' altra pagina: in Cambogia nel 1992.

Testo
Quindici giorni fa, una telefonata in redazione. L' ufficio di Bonn dell' Unv, i volontari delle Nazioni Unite, chiedeva la mia disponibilità immediata a partire per il Ruanda e restarvi tre mesi come "osservatore per i diritti umani". Desideravo fare un' esperienza del genere da sei anni. Da quando cioè ho cominciato a lavorare, come giornalista di Epoca, in varie parti del mondo. Ho accettato subito: è una delle missioni umanitarie più delicate di questi ultimi anni.
In Ruanda, assieme agli altri osservatori, dovrò occuparmi dei profughi: della folla di anziani, donne, bambini di etnia hutu, che ogni giorno, stremati dalla fame, indeboliti dalle malattie, terrorizzati dai combattimenti, passano la frontiera dello Zaire per rientrare nel proprio Paese. Il 29 novembre la comunità internazionale ha finalmente approvato l' invio di un contingente di pace che da Kampala, in Uganda, si occuperà dell' assistenza e dell' aiuto ai rifugiati. Ma quello che succederà quando gli hutu rimetteranno piede nel proprio Paese, oggi governato dai tutsi, è difficile da prevedere. Il ricordo del genocidio compiuto nel maggio 1994 dai primi nei confronti dei secondi ha rinvigorito l' odio secolare, stravolto la geografia politica e razziale di tutta la regione dei Grandi Laghi, prodotto ferite che l' intervento della comunità internazionale difficilmente potrà sanare.
Come giornalista di Epoca, nel 1994 ero proprio in Uganda, a seguire un' operazione organizzata da Maria Pia Fanfani per mettere in salvo i piccoli orfani di una missione italiana. Avevo visto arrivare i bambini feriti dai colpi di machete. Avevo ascoltato le testimonianze dei missionari che raccontavano l' orrore e la follia di quei giorni in cui bande di entrambe le etnie massacravano civili, facevano a pezzi i cadaveri, saccheggiavano i villaggi, bruciavano le chiese. Ora l' Onu ha reclutato per questa missione un gruppo di 12 volontari, di cui tre italiani, assieme a una cinquantina di altri osservatori che lavorano già a Kigali, capitale del Ruanda. Divisi in gruppi di quattro o cinque persone, gireremo il Paese, raccogliendo informazioni e prove sul trattamento che le autorità ruandesi riservano ai rifugiati. Collaboreremo, dicono le nostre "regole d' ingaggio", con gli altri organismi internazionali e con le organizzazioni non governative, per stabilire un clima di fiducia e informare la popolazione sui diritti dell' uomo. Ci occuperemo di mettere in atto programmi di cooperazione e assistenza nell' amministrazione della giustizia.
Due sono infatti le preoccupazioni principali della comunità internazionale. La prima, appunto, riguarda i profughi che rientrano dallo Zaire, per sfuggire ai combattimenti tra le forze governative e le milizie tutsi. Quelli già arrivati sono oltre 700 mila.
Raggruppati a seconda dei centri di provenienza, vengono registrati dalle autorità che decideranno la loro destinazione finale. Il rischio per loro è alto. Potrebbero essere vittime dei maltrattamenti delle autorità tutsi di Kigali, o forse addirittura di violenze e massacri, come è successo nel 1995, quando nel campo di Kibeho i soldati tutsi trucidarono migliaia di profughi hutu. Ma anche di vendette e ritorsioni della popolazione (sempre tutsi) che ha occupato le loro case e ha già messo le mani avanti, paventando tra i rifugiati la presenza dei guerrieri Interahmwe, responsabili del genocidio di due anni e mezzo fa.
C' è poi un secondo problema di cui dovremo occuparci come osservatori: il rispetto dei diritti umani all' interno delle prigioni ruandesi, agglomerati infernali, dove i detenuti in attesa di giudizio vivono talmente affollati da rischiare la morte per soffocamento. Nelle carceri si trovano attualmente anche 90 mila hutu accusati dei massacri del 1994, che dovrebbero comparire di fronte al tribunale per i crimini di guerra. Impossibile dire adesso in che condizioni ci troveremo a operare. L' Unv ci mette a disposizione duemila dollari al mese, poco più di tre milioni di lire per pagarci vitto, alloggio e spostamenti. E solo sul posto si capirà effettivamente come si svolgerà il lavoro.
Non bisogna dimenticare che quando un mese fa il primo ministro canadese Jean Chretien ha proposto l' invio di un contingente multinazionale di pace, tra le varie perplessità c' era pure l' opposizione del Ruanda all' invio di soldati sul proprio territorio. La comunità internazionale si è poi spaccata su due opzioni: mandare le forze a Kigali, come avrebbero voluto gli Stati Uniti, filo tutsi; o spedirle in Zaire, come avrebbe preferito la Francia, schierata dalla parte degli hutu. Venerdì 29 novembre è stata scelta una terza strada: stabilire il quartiere generale dell' operazione in Uganda.
Ma come mai io, giornalista di Epoca, sono finita tra gli "osservatori"? Per sei anni ho seguito sia molti dei conflitti che hanno ridotto a colabrodo gli equilibri della Guerra fredda, sia i tentativi dell' Onu di ricostruire un nuovo ordine mondiale, là dove scoppiano sempre più di frequente scontri etnici e tribali. Sono stata in Somalia nel 1994, quando il contingente internazionale, sbarcato a Mogadiscio per portare aiuti umanitari, si trovò a guerreggiare con le fazioni, strangolato da un mandato inadeguato.
Ho visitato il Mozambico, dove il tentativo di pace si è invece risolto per il meglio. Sono arrivata a Sarajevo all' inizio dell' assedio passando una notte blindata con i Caschi blu dell' Onu nell' ex palazzo delle poste. Ho seguito le Nazioni Unite nella missione di pace in Cambogia, nei loro interventi umanitari in Afghanistan, e in quelli a Monrovia in Liberia, lo scorso aprile. A un certo punto mi è sembrato che il giornalismo fosse una chiave limitata per capire realmente che cosa si nasconde dietro la mastodontica macchina umanitaria delle Nazioni Unite, così come dietro lo strazio delle popolazioni che vivono la guerra. Molto di quello che si registra su un taccuino, quasi sempre in fretta, finisce per toccare appena la superficie delle cose. Volevo andare più a fondo. Superare la schizofrenia del cronista che rimane spettatore di tragedie che non gli appartengono. Così, a luglio scorso ho deciso di seguire un corso presso la Scuola Sant' Anna dell' Università di Pisa. Un addestramento intensivo di venti giorni per "personale civile delle operazioni umanitarie e di peace keeping e per le missioni di osservazioni elettorali", diretto da un professore della Normale, Andrea De Guttry, con il patrocinio dell' Onu e del ministero degli Esteri italiano. In altre parole, un seminario per chi è interessato a esperienze sul campo. Tra le opportunità offerte dal corso ci sono stati un paio di colloqui con i responsabili della selezione del personale dell' Onu. Quando mi sono presentata all' incontro con Stephen Kinloch, responsabile per Unv, avevo creduto che fosse una formalità. Alcuni dei corsisti, è vero, proprio in quei giorni erano stati selezionati come osservatori per le elezioni in Bosnia. Ma non credevo che sarei stata chiamata per una missione a più lungo termine. Quattro mesi dopo, invece, il professore Andrea De Guttry ha risegnalato la mia disponibilità all' Unv ed ecco la telefonata da Bonn: "L' aspettiamo per il 7 dicembre a Kigali". Rinuncerò a penna e taccuino? Non credo. Al mio ritorno proverò a raccontare anche quest' esperienza dall' altra parte della barricata.




Testata
Epoca

Data pubbl.
11/10/96

Numero
41

Pagina
78

Titolo
SONO FINITA IN MEZZO AI TALEBANI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Voleva intervistare gli "studenti islamici" che oggi comandano in Afghanistan. E' una donna, però, e il Corano vieta ogni contatto. Così una giornalista di "Epoca" si è ritrovata chiusa a chiave in una sperduta casupola nel deserto. Ma ha fatto in tempo a imparare molte cose (sorprendenti) sui nuovi padroni di Kabul.

Didascalia
Kabul, 27 settembre. I corpi dell' ex presidente comunista
dell' Afghanistan, Mohammed Najibullah, e del fratello Shanpur
Ahmadzi, appesi
a un lampione nella piazza principale della capitale, dopo la
conquista della città da
parte dei Talebani integralisti. Nella foto sotto il titolo, Maria
Grazia Cutuli con due guerriglieri Talebani.

Testo
"Che ci fa una donna qui? Come vi è saltato in mente di portarla?".
Lo "studente coranico", il Taleb che vigila al primo check point fuori Kabul, turbante bianco e bazooka in mano, lancia uno sguardo minaccioso all' interno del taxi. Me ne sto rannicchiata dentro una tunica, con la testa coperta da un velo, pentita di non aver indossato la "burqa", il mantello integrale, prescritto dalla legge islamica. La sentinella ripete: "Con lei non passate". Dieci minuti di litigio. Poi, finalmente, il via libera.
E' il giugno 1995. Sono arrivata nella capitale dell' Afghanistan, per tentare di raggiungere i Talebani, gli "studenti" reclutati dalle scuole coraniche, che da aprile tengono sotto tiro la periferia della città. L' assedio (destinato a finire nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, con centinaia di morti e la caduta di Kabul, vedi riquadro a pagina 81) è solo agli inizi. Ma la prima linea, che corre tra colline aride e postazioni di artiglieria, segna già la divisione tra due mondi. Dietro di noi, l' Islam "illuminato" delle forze governative fedeli al presidente Burhanuddin Rabbani. Davanti, i territori dove gli "studenti coranici" hanno dato ampia prova della lora intransigenza. Arriva voce di donne picchiate a sangue per aver mostrato il volto, di uomini bastonati per aver giocato a scacchi, guardato la televisione, ascoltato la radio; si rincorrono notizie di lapidazioni, impiccagioni, di mani e piedi mozzati...
Non è la prima volta che vengo a contatto con i Talebani. Avevo parlato con un loro portavoce a Peshawar, in Pakistan. Una frase scappata di bocca a un funzionario dell' Onu ("sì, ci risulta che qui in città gli "studenti" abbiano un ufficio mobile, segreto") mi aveva messa sulle loro tracce. Li avevo trovati grazie al personale del Consolato americano, una sorta di filiale della Cia che a Peshawar, leggendaria capitale del terrorismo internazionale, retrovia dei mujaheddin durante l' invasione sovietica dell' Afghanistan, funziona a meraviglia. "Volete incontrarli?", aveva detto un diplomatico, mentre scribacchiava su un biglietto.
"Fate questo numero di cellulare". Normale che gli Stati Uniti, sospettati di essere tra gli sponsor degli "studenti islamici", siano in contatto con loro. Ma, a giugno dell' anno scorso, sembra invece il Pakistan lo Stato interessato a mandare in avanscoperta le milizie coraniche. Soprattutto per liberare le grandi vie commerciali afghane dal controllo delle altre fazioni.
Una prima telefonata. Un altro numero, poi un altro ancora. Alla quarta o quinta chiamata, la risposta: "Tra mezz' ora". E subito lo "spelling" di una strada alla periferia di Peshawar. L' "ufficio mobile" era all' interno di un palazzo formicaio, dentro una stanzetta dalla moquette logora e le pareti in finto legno. Ad accogliermi, Muhammad Tariq Khattak, un signore calvo, barbuto, dall' aria distinta, e il suo interprete: "Io sono solo un portavoce", aveva detto. "I comandanti si trovano a Kandahar, quartier generale delle nostre forze in Afghanistan". Khattak aveva spiegato l' origine della "guerra santa": "Alcuni dei Talebani sono soldati che hanno combattuto contro i russi. Altri sono "mullah" (cioè preti islamici) che hanno fondato le "madrasse", le scuole coraniche. Abbiamo un esercito di 30 mila uomini, jet, elicotteri, armi pesanti". Anche se, aveva aggiunto, "siamo riusciti a conquistare due terzi dell' Afghanistan senza sparare un colpo".
Questo era successo grazie all' appoggio delle popolazioni rurali del Sud che sono della loro stessa etnia, pashtun. "Che cosa vogliamo fare? Sconfiggere il governo di Kabul che sta ingannando il popolo afghano e liberare il Paese dal traffico di droga".
Pie intenzioni: peccato che gli "studenti", se da una parte proibiscono il consumo di stupefacenti, dall' altra gestiscono le più vaste coltivazioni d' oppio dell' Asia centrale.
Sul fronte di guerra il comando dei Talebani si trova a una cinquantina di chilometri da Kabul, a Maidan Shar, un villaggio semideserto e polveroso. E' ospitato dentro una costruzione con un portale ad arco, semidiroccata, che si erge gialla e piena di tracce di proiettili in mezzo a una spianata. I soldati di campagna non si perdono in convenevoli. Nemmeno un saluto. Con me ci sono il tassista, l' interprete e un fotografo italiano. Ci portano immediatamente in una stanza, ingombra di giacigli, e ci chiudono dentro, mentre una sentinella ci tiene d' occhio dai vetri rotti della finestra.
Il comandante, Mohammed Rabbani (oggi a capo del consiglio di sei "mullah" che governa Kabul), è assente. Ma un suo vice, Hafiz Neda Mohammed, un giovane dalla barba rada, vestito di bianco, accetta di rilasciare un' intervista all' interprete afghano (con le mie domande), mentre io resto chiusa nell' altra stanza: "Grazie a Dio abbiamo la "sharia" che non ci autorizza a parlare con le donne", sbuffa. "Mi fa infuriare il fatto che da Kabul, dove dovrebbe esserci un governo islamico, ci mandino una femmina".
L' interprete controbatte: "Si tratta di una giornalista...". Ma il "mullah" fa una smorfia di disgusto: "E' forse mia sorella? La "sharia" dice che un uomo può rivolgere la parola solo alle parenti strette". E il rispetto dei diritti umani? "Esistono solo i diritti sanciti dalla "sharia". Le donne sono libere di parlare con i mariti, di studiare in scuole separate, di andare in ospedali separati, non certo di farsi vedere in giro nei bazar e negli uffici". Anche quando parla di restaurare gli "atti islamici" la musica non cambia. In altre parole: "L ordine sancito dal Corano e dall' Hidith, la legge di Maometto, come è stata applicata dai quattro califfi durante il loro regno, alla morte del profeta. Un governo come quello dell' Arabia Saudita". Poi si corregge: "Volevo dire, come quello che abbiamo instaurato nei territori controllati da noi. C' era la guerra prima. Banditi e fazioni taglieggiavano e rapinavano tutti. Noi abbiamo portato ordine e pace". Avete proibito il gioco degli scacchi, il calcio, la tivù, la radio, dice l' interprete. "Perdite di tempo", urla il vicecomandante, che è un "mullah", cresciuto a Karachi in Pakistan. "Il nostro dovere è pregare, studiare, combattere".
Una delle sentinelle entra nella nostra stanza. E' un soldato sui 18 anni, dalle guance tonde e lo sguardo accigliato. Originario di Kandahar, racconta al tassista (ignorandomi) di essersi trovato a Kabul nel 1992, durante la caduta di Najibullah. "Che cosa non hanno visto i miei occhi! I mujaheddin si scannavano come belve. No, non potevo vivere tra gente che tradisce l' Islam così".
Il giovane guerriero si è rifugiato a Quetta, in Pakistan. Lì ha frequentato una delle tante "scuole coraniche", istituzioni di stampo medievale, finanziate dalle associazioni integraliste, ma anche da potenze come l' Arabia Saudita, dove gli allievi si indottrinano ai rigori dell' Islam e si addestrano all' uso delle armi. "Quando i Talebani hanno cominciato la marcia verso Kandahar, sono saltato su una jeep, ho preso il kalashnikov e sono partito per la guerra". Non fa in tempo a raccontare altro. Il vicecomandante ci manda via. Si comincia a combattere.
Sulla strada per Kabul, arrivano un paio di missili. Siamo nel pieno della "guerra santa", anche se nella capitale, in questo giugno 1995, il pericolo dei Talebani è ancora sottovalutato. La gente li liquida come omosessuali ("Taleb" è diventato sinonimo di "frocio"), riferendosi alla promiscuità che lega i capi ai giovani soldati e alla loro avversione per le donne. E lo stesso comandante Massud, il "leone del Panshir", eroe della resistenza contro i sovietici, oggi capo delle forze militari del presidente Rabbani, mi dirà qualche giorno dopo: "La loro è una forza morale, non militare. Hanno conquistato le regioni del Sud con la "sharia", ma non possono prendere Kabul. Qui la gente non tollererebbe mai il taglio della mano o del piede, la lapidazione per le donne...". Si sbaglia Massud. La cronaca di oggi, il cadavere di Najibullah che penzola sulla piazza principale della capitale, il terrore per le strade, la gente bastonata, le donne recluse in casa, ha dimostrato che i Talebani sanno fare di peggio.




Testata
Epoca

Data pubbl.
20/09/96

Numero
38

Pagina
98

Titolo
ORA SAPPIAMO CHI E' QUEST' UOMO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ESCLUSIVO

Sommario
Spagna, settembre 1936: il fotografo americano Robert Capa ferma sulla pellicola l' uccisione di un miliziano durante la guerra civile. L' immagine dell' uomo che cade abbandonando il fucile diventa un simbolo. E apre una polemica: se fosse un falso? Sessant' anni dopo, "Epoca" è in grado di affermare che la foto è autentica. E di rivelare l' identità dell' ucciso. Chi era? Lo scoprirete leggendo la storia di un' immagine entrata nella Storia. "Secondo gli archivi un solo miliziano risultava ucciso quel giorno nella battaglia di Cerro Muriano. Era Federico"

Didascalia
A sinistra: ecco, fissato da Bob Capa, l' istante della morte,
a 24 anni, di Federico Borrell Garcia, durante uno scontro con
i franchisti. Sopra: il giovane (al centro) a 22 anni assieme
a due compagni di servizio militare.
A sinistra: in un' altra foto del reportage
di Robert Capa sulla Guerra civile spagnola, un momento della
battaglia di Cerro Muriano, sul fronte
di Cordoba, dove fu ucciso Federico Borrell Garcia. Sotto:
il miliziano ritratto all' età di 21 anni.
A sinistra: due immagini del combattimento del 5 settembre 1936 sul
fronte di Cordoba. Nella foto in basso, al centro con la camicia
chiara, Federico Borrell Garcia pochi minuti prima di essere
colpito a morte. Sotto: il miliziano, due mesi prima, assieme alla
fidanzata Marina.

Testo
Sessant' anni di gloria e di polemica. Più di mezzo secolo per risolvere il dubbio che ha diviso gli storici della fotografia: La morte del miliziano, una delle immagini più famose di Robert Capa, scattata nel 1936 durante la Guerra di Spagna, un clic destinato a trasformare un frammento di storia nel simbolo di una tragedia, è una foto autentica? O il crollo di quel soldato, con il fucile in aria e le gambe flesse, che sembrava trascinare nella sua caduta i detriti e le illusioni di un' epoca, era un' agonia "posata"? Un falso costruito da uno sconosciuto fotografo in cerca di successo, quale era allora Robert Capa? Ebbene, a sessant' anni di distanza dalla prima pubblicazione della foto sulla rivista francese Vu, il 23 settembre 1936, il dubbio sembra risolto: il soldato morente è stato identificato. Si chiamava Federico Borrell Garcia, aveva 24 anni, faceva il mugnaio ad Alcoy, vicino ad Alicante. Fu ucciso il 5 settembre 1936, sul fronte di Cerro Muriano, nella zona di Cordoba.
A dare una svolta alla vicenda è stata Rita Grosvenor, una giornalista britannica residente ad Alicante, che ha rintracciato i parenti del miliziano; e assieme a lei, Richard Whelan, autore di una biografia di Robert Capa, che ricostruisce le tappe del viaggio spagnolo del celebre fotografo.
Ma cominciamo dalla Grosvenor... La giornalista è venuta in possesso di un documento, affidato a un notaio da un certo Mario Brotons, originario di Alcoy, che a 14 anni aveva combattuto sul fronte di Cerro Muriano, contro le truppe franchiste del generale Vela. Per chiudere le polemiche sulla foto di Capa, Brotons prima di morire ha consultato gli archivi militari di Madrid e di Salamanca. Poi, ha lasciato per iscritto la sua versione dei fatti. A cominciare dal luogo dello scatto. Non Cadice, come si era detto, ma Cerro Muriano.
Secondo Brotons, Capa si trovava lì il 5 settembre 1936, giorno dell' offensiva del generale Vela.
C' è poi l' equipaggiamento del soldato fotografato: camicia dal collo sbottonato, pantaloni chiari. Più che una uniforme sembra un abito da lavoro, corredato però da fucile, cartuccere e giberne, equipaggiamento caratteristico dei 300 civili di Alcoy inviati su quel fronte. L' ultimo tassello viene dagli archivi militari: tra i miliziani feriti nella battaglia del 5 settembre, solo uno risulta morto. E' un giovane di Alcoy che Brotons conosceva bene: Federico Borrell Garcia, membro fondatore del movimento anarchico sindacalista, la Juventudes Libertarias.
Seguendo questa pista, Rita Grosvenor rintraccia i parenti di Federico Borrell. E va ad Alcoy: "Cinque piani di scale in un caseggiato, nascosto tra i negozi di un vicolo spagnolo", racconta.
"E' la casa dove ha vissuto Evaristo, il fratello più giovane di Federico, che combatté con lui a Cerro Muriano". Il padrone di casa è morto da tempo. Ma la moglie, Maria, 78 anni, ricorda tutto, specialmente i giorni dopo la battaglia del 5 settembre, quando il marito tornò dal fronte. "Evaristo mi disse che Federico era stato ammazzato", racconta la vecchietta. "Non era riuscito a vedere come era successo. Ma gli amici gli avevano riferito che Federico aveva alzato in aria le braccia ed era immediatamente caduto a terra, colpito alla testa". Proprio come il soldato della foto. "Non siamo riusciti a seppellirlo. L' area era finita in mano ai nazionalisti ed era impossibile prelevare il cadavere". La vedova, riferisce la giornalista britannica, è sicura che il miliziano fotografato da Capa sia il cognato: "Federico non era alto, ma aveva le gambe lunghe e la mascella forte, tipica dei Borrell". Evaristo le aveva parlato della foto. Il berretto che il soldato sembra avere in testa con una specie di pon pon, secondo la donna, è solo un effetto ottico: un ciuffo di capelli sul cranio spappolato dal proiettile.
Il resto è un lutto di famiglia, consegnato alla storia solo per caso. Ad Alcoy Rita Grosvenor incontra il nipote di Federico, che oggi ha 46 anni, lavora come imbianchino, porta il nome dello zio e ha battezzato alla stessa maniera anche il figlio: "Se avrò un nipote", dice, "spero si chiami pure lui Federico". In quanto all' autenticità della foto, anche l' uomo non ha dubbi: "Troppe coincidenze e una straordinaria somiglianza con le immagini dello zio in vita". Né lui né la madre sanno invece che fine abbia fatto Marina, la ragazza che avrebbe dovuto sposare Federico. "Le nozze erano state rimandate, perché lui era partito per il fronte", dice la signora Maria, "così l' abito da sposa rimase appeso nell' armadio".
Ma bastano i malinconici ricordi dei Borrell a ristabilire la verità, dopo 60 anni di polemiche, sollevate da Piero Berengo Gardin (cugino del fotografo Franco), dal biografo di Capa, Philip Knightley, e da Aldo Gilardi, autore del libro Storia sociale della fotografia? Se Capa aveva sempre dichiarato di aver scattato a caso, nascosto dietro un mucchio di terra e tirando fuori il braccio con la sua Leila, mentre attorno sparavano e lui moriva di paura, Berengo Gardin, che aveva esaminato gli archivi del fotografo, sosteneva invece di aver trovato un rullino che mostrava la curiosa sequenza di un miliziano prima colpito, poi vivo e vegeto insieme ai compagni. Certo, l' immagine, era sfocata... Poteva trattarsi di una copia della pellicola originale, riprodotta in senso contrario.
Ma...
Richard Whelan, autore del volume Robert Capa: una biografia, non ha dubbi: "Capa il pomeriggio del 5 settembre era sicuramente a Cerro Muriano". Le testimonianze di coloro che sostengono il contrario, per il biografo, non sono credibili: né quella di Hans Namuth, uno dei fotografi presenti sul fronte, che dopo aver messo in dubbio l' autenticità della foto si era infatti ricreduto, né quella di un giornalista britannico, O' Dowd Gallagher, che aveva dichiarato di aver diviso con Capa una stanza d' hotel a San Sebastian (vicino al confine francese, lontano dalla battaglia), proprio nei giorni in cui sarebbe stata scattata la famosa foto a Cerro Muriano.
"Gallagher diede tre versioni diverse", dice Whelan, "probabilmente confuse Capa con qualcun altro".
Sul sospetto che la foto fosse "posata" Whelan taglia corto: "E' una falsa pista. E, comunque, la morte del miliziano è una grande immagine, il simbolo stesso della Spagna repubblicana".
LA STORIA DI CAPA, A CUI UNA ZINGARA PREDISSE: NON MORIRAI NEL TUO LETTO ROBERT: SEMPRE IN PRIMA LINEA. MA E' SALTATO SU UNA MINA Una carriera che era cominciata con un incidente. E che si è conclusa tragicamente in Vietnam.
Diceva: "In guerra non esistono foto belle o brutte, ci si deve solo chiedere quanto si era vicini all' azione". Tanto vicini da rimetterci la pelle. Robert Capa, uno dei fotografi più famosi del nostro secolo, ebreo ungherese nato nel 1913, morì a poco più di quarant' anni, saltando su una mina in Vietnam. La sua storia di fotografo comincia nel 1932 ritraendo Lev Trockij che predica la rivoluzione mondiale. Robert si chiama in realtà Andrè Friedmann, ha appena lasciato la Germania con le sue croci uncinate, dove era andato a 18 anni, e vive a Parigi. Con un nuovo nome, e una ragazza bionda a fianco, Gerda Taro, parte per la Spagna, a documentare la guerra civile. Un carro armato schiaccia Gerda e con lei muoiono le illusioni del giovane fotografo. Ma non la vocazione. Capa va in Cina, documenta la vittoria sul Giappone. Torna in Europa, per lo sbarco degli alleati in Sicilia. Poi di nuovo a Parigi per spedire a Life gli ultimi documenti sulla vittoria. Viene mandato in Israele e poi in Vietnam. Tempo prima aveva raccontato: "Una zingara mi ha detto che non morirò nel mio letto".
LA SPAGNA DEL 1936 QUELLA GUERRA FECE UN MILIONE DI MORTI Repubblicani contro franchisti. Per tre anni.
Due anni e 254 giorni di guerra. Un milione di morti. Il trionfo del regime fascista e una dittatura, quella del generalissimo Francisco Franco, destinata a durare fino al 1975. La guerra civile di Spagna scoppia nell' estate del 1936, mentre Hitler occupa la Renania e Mussolini si avvicina alla Germania. Scoppia accompagnata da una delle più gravi crisi economiche e sociali della storia del Paese: le elezioni del 16 febbraio 1936 che hanno portato al potere il Fronte popolare. Uno schieramento eterogeneo formato da repubblicani borghesi, socialisti, comunisti, anarchici, che hanno di fatto spaccato la Spagna, compresi i ceti più poveri. Se la destra, formata da proprietari terrieri, ufficiali dell' esercito, conservatori ed ecclesiastici, non accetta il responso elettorale, anche le forze di sinistra sono divise tra chi propone un orientamento democratico-borghese e chi aspira alla rivoluzione proletaria. Mentre esplode la collera delle masse contro la Chiesa e i latifondisti, con massacri, uccisioni e violenze, insorgono le truppe controrivoluzionarie capitanate da generali come José Sanjurjo, Emilio Mola e Francisco Franco. In un paio di mesi, partendo da Cadice, Siviglia e Cordova, i golpisti si impadroniscono delle regioni occidentali. Il 29 settembre 1936, Franco viene nominato "generalissimo" e la sede del governo ribelle viene spostata a Burgos. La Germania e l' Italia spediscono a Franco 60 mila volontari, mezzi e armi. La guerra assume subito un carattere fortemente ideologico. Se a fianco dei franchisti si schierano i conservatori di tutto il mondo, a sostegno dei repubblicani intervengono le brigate internazionali: 40 mila volontari, tra i quali spiccano personaggi come il giornalista americano Ernest Hemingway, lo scrittore inglese George Orwell, il socialista italiano Pietro Nenni. Barcellona cade il 26 gennaio del del 1939.
Madrid resiste 28 mesi all' assedio dei franchisti, fino al 28 marzo. Il 27 febbraio Francia e Gran Bretagna avevano riconosciuto il regime di Franco. In Spagna rinasceva la monarchia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/09/96

Numero
37

Pagina
86

Titolo
IO, GIORNALISTA DI "EPOCA" IN MEZZO A QUELLA GENTE

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA DIARIO DI VIAGGIO IN KURDISTAN, PATRIA DEI "PESHMERGA"

Sommario
Cibo scarso, niente acqua, solo un' ora di elettricità al giorno. Per vedere Saddam in tivù.

Testo
Come copertura, una spedizione umanitaria e un pass con la scritta "nurse", infermiera. Il governo di Baghdad non è mai stato generoso con i visti ai giornalisti e men che mai lo era a maggio 1991, dopo la Guerra del Golfo, mentre ancora infuriava il conflitto tra Saddam e i curdi. Per raggiungere Arbil, la capitale del Kurdistan iracheno bombardata e invasa la scorsa settimana, quell' anno mi ero messa al seguito di una spedizione di viveri, organizzata dal Movimento popolare di Roberto Formigoni. Un viaggio interminabile: 24 ore di jeep nel deserto, una tappa di due giorni a Baghdad, altre 12 ore di cammino tra postazioni militari, villaggi distrutti, litanie di ritratti di Saddam, sfigurato dai colpi di mitra.
Arriviamo ad Arbil nel pomeriggio, prima che la strada venga chiusa per la notte. La città, nel maggio 1991, strappata dagli iracheni al controllo dei guerriglieri curdi, i"peshmerga", è considerata zona a rischio. Venti chilometri la separano dalle montagne, dove si affollano profughi e combattenti.
Non è bella Arbil, 330 mila abitanti, a ridosso dell' area petrolifera di Kirkuk. Case moderne, ma piatte e povere, dominate dall' antica rocca in pietra gialla, nascondiglio di ladri e mendicanti. Case bombardate, semidistrutte. Il Saddam Hospital sventrato da una granata. Il Teaching Hospital trasformato in un girone dolente di bambini amputati dalle mine e ragazze dal viso sfigurato dalle schegge. Ma la strada principale è affollata di gente, donne dal capo velato e gli abiti lunghi, che trascinano sui marciapiedi galline spennacchiate e otri con l' acqua. L' Hotel a quattro stelle non aiuta ad alzare il morale: finestre scheggiate dai proiettili, buio e un tanfo insostenibile. Odore di carne marcia, viscere di montone, unico cibo per altro di cui ci nutriremo i 20 giorni che passeremo qui, visto che ortaggi e latticini hanno già portato un' epidemia di tifo e brucellosi. Acqua potabile, neanche a parlarne. In sala da pranzo, un uomo sulla cinquantina se ne sta seduto al tavolo, con la testa tra le mani e una birra davanti: "Sono stanco. Ho paura. Gli americani hanno dato una "dead-line" a Saddam. Potrebbero attaccare da un momento all' altro". Poi, alzando il capo: "Mi chiamo Joseph Qaqish, sono giordano. Lavoro per l' organizzazione mondiale della sanità. Tu chi sei?". Joseph mi propone di andar con lui, l' indomani, dai "peshmerga", oltre le linee irachene.
Si fa notte. Arrivano i funzionari dell' Onu, i camerieri dell' hotel con le lampade. "Austerity "educativa", voluta da Saddam", spiega qualcuno, mentre dei giovani curdi, con i pantaloni a sbuffo e le barbe incolte, intonano le loro nenie. "Non siamo mai stati felici", cantano. Alle dieci si accendono le lampadine e subito dopo il televisore. Ecco i baffoni di Saddam, ecco il predicozzo del tigì e per finire le interviste ai prigionieri sciiti, rinchiusi a Bassora, che giurano, Inshallah, di star benissimo nelle carceri irachene. Poi di nuovo il buio e gli spari là fuori.
Al mattino, devo aggirare la sorveglianza di Firas, il giovanissimo funzionario governativo che mi è stato messo alle costole. Mi sveglio alle 5. Con la jeep di Joseph non è difficile superare le postazioni di obici iracheni. Tra valichi e tornanti, sorgenti incontaminate dove i profughi fanno la fila, sotto il ritratto di quello stesso Massud Barzani che adesso ha invocato l' aiuto di Saddam, superiamo anche i check point curdi. La "resistenza" è ben organizzata. Le rovine del villaggio di Kafha rivivono nel frastuono di un suk, pieno di merce di contrabbando portata dall' Iran. I rifugiati stanno nelle tende, ogni famiglia con i suoi kalashnikov, ma lì sembra non mancare nulla. Sulle montagne si vende di tutto, compreso gasolio, pezzi di carri armati, mortai e bossoli esplosi.
Solo a nord, verso la frontiera minata con l' Iran, i villaggi grigi rasi al suolo da Saddam durante la guerra con Teheran ricordano le migliaia di persone deportate negli insediamenti creati dal governo.
Torniamo ad Arbil. In albergo, la sposina della camera accanto alla mia singhiozza fino all' alba, per il suo uomo, un guerrigliero, che con la prima luce del giorno scapperà via, sulle montagne del "suo" Kurdistan.




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/07/96

Numero
30

Pagina
76

Titolo
SARAJEVO TORNA LA GUERRA: E' "SOLO" UN FILM?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI LIVIO SENIGALLIESI ha collaborato Daniela Atropia

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Bombe, cecchini, violenze: come nell' Italia del neorealismo, un regista gira tra le macerie della Bosnia. E scopre che la pace è ancora lontana. "Forse non sarà un' opera serena: ma non potevo aspettare 50 anni per raccontare che cosa è successo"

Didascalia
Sopra: il set del film "Il cerchio perfetto", a Sarajevo. A fianco:
il regista Ademir Kenovic (a sinistra) dà istruzioni a un attore.
Sotto a destra: Adis, otto anni, profugo nel film e nella realtà.
Sopra: si batte un ciak sul set
del film. A destra: la troupe collauda gli "effetti speciali".
Nella pagina a fianco: sopra,
il regista Kenovic prova con gli attori una scena di violenza dei
soldati serbo-bosniaci. Sotto: la ricostruzione della lotta
per l' acqua in un quartiere di Sarajevo.

Testo
La strada-simbolo del martirio, il boulevard Marsala Tito, la grigia e desolata Snajper alley, come era stata battezzata per via dei cecchini, corre affollata e rumorosa fin dentro il cuore storico di Sarajevo. Nove mesi di pace sfilano tra le luci delle abitazioni aggrappate alle colline, davanti alle insegne dei bar aperti fino a tarda sera, tra lo sferragliare del tram, carico di ragazzini aggrappati alle porte, e i passi di gente che sembra aver dimenticato la paura. Eppure, ancora alla fine di maggio, proprio su questo boulevard presidiato dai blindati della Nato, capitava che all' improvviso il traffico si fermasse. I poliziotti cominciavano ad agitare le braccia, a dirottare le macchine, mentre colonne di fumo si alzavano dai marciapiedi. Nuovamente le raffiche dei kalashnikov. Nuovamente l' ombra in fuga di un bambino che attraversava la strada.
Era finzione, pura rappresentazione: il set dove si stavano completando le riprese de Il cerchio perfetto, prima pellicola neorealista del dopoguerra bosniaco, il film diretto da Ademir Kenovic, sceneggiato dal poeta Abdulah Sidran, che segnerà la rinascita culturale di Sarajevo, il suo riscatto dal passato. Ma in quei momenti, con i fantasmi della guerra ancora così vicini, sembrava che da un istante all' altro dovesse arrivare il tonfo di una granata, spruzzi di sangue, frammenti volanti a tagliare l' aria e fare a pezzi l' illusione della pace.
Come in Italia nel dopoguerra, quando Vittorio De Sica vagava per le vie bombardate della Capitale per le riprese di Sciuscià e Roberto Rossellini per quelle di Roma città aperta, i nuovi cineasti di Sarajevo mettono in scena gli incubi di ieri su un set di macerie vere, in una città sventrata, tra palazzi bruciati, case colabrodo, con attori non professionisti che hanno vissuto l' assedio sulla propria pelle. Il cerchio perfetto è solo la prima di una mezza dozzina di pellicole, alcune in lavorazione, altre in programma, che da qui a un anno porteranno sul grande schermo le vicende della guerra di Bosnia, ma è anche la più realistica, quella che meglio ricostruisce il dramma recente. "Un' operazione difficile proprio sotto il profilo psicologico", spiega il regista Kenovic, adesso impegnato nel montaggio del film, che è stato già richiesto dal festival di Venezia. "Per restituire l' atmosfera di Sarajevo abbiamo dovuto incendiare nuovamente l' antica biblioteca, ricostruire gli incroci maledetti dove la gente moriva falciata dai cecchini. Sarebbe stato meglio, certo, potere contare sulla serenità di una retrospettiva storica, su una riappacificazione con le proprie memorie". Ma Ademir Kenovic, 45 anni, studi alla Dennison University dell' Ohio, docente all' Accademia teatrale e cinematografica di Sarajevo, tre lungometraggi alle spalle, ammette di non avere il dono della pazienza: "Non potevo aspettare 50 anni per raccontare cosa è successo".
Il film, che narra l' incontro tra due piccoli profughi scappati da un villaggio bombardato dai serbi e un uomo, Hamza (Mustafà Nadaric, attore del Teatro Nazionale di Zagabria), rimasto solo a Sarajevo, dopo che la moglie e la figlia sono fuggite all' estero, andava girato subito, come risposta musulmana a Underground, la pellicola di Emir Kusturica accusata di essere filoserba. Frutto di una coproduzione francese, olandese, ungherese, croata e bosniaca, Il cerchio perfetto è costato 3 milioni di dollari, e ha coinvolto centinaia di comparse. Almir Podgorica, 11 anni, scelto per interpretare uno dei due profughi accolti in casa dal protagonista, racconta di aver rischiato di rompersi una gamba durante le riprese, mentre correva lungo il greto della Miljacka per sfuggire ai cecchini. "Nel 1992 sono scappato dal villagio di Brutusi per rifugiarmi a Sarajevo", confida avvolto in una coperta che lo fa assomigliare agli sciuscià di De Sica. "Quando ho girato certe scene mi è sembrato di rivivere la fuga di allora".
Il grande "cerchio" finisce così per essere questo che rimanda la Sarajevo di oggi alla Sarajevo di ieri. Ma un film non basta a celebrare la rinascita di una città. Come non bastano le luci dei ristoranti, le code davanti alle discoteche, i mercati pieni di cibo. Gli accordi di Dayton, che hanno diviso in due la Bosnia, da una parte la Federazione croato-musulmana, dall' altra la repubblica Srpska (serba), nel tentativo di rimettere ordine tra i gruppi etnici dilaniati dalla guerra, hanno cambiato per sempre la geografia politica e sociale dei Balcani, lasciando problemi di tutti i tipi.
Se dal punto di vista militare le scadenze imposte dalla Nato sono state rispettate, nessun passo è ancora stato compiuto nell' integrazione delle etnie. I profughi non sono ancora tornati se non in numero irrisorio. La libertà di movimento dalle zone serbe a quelle musulmane che la pace avrebbe dovuto garantire è un miraggio. I maggiori criminali di guerra, primi tra tutti Karadzic e Mladic, non sono stati arrestati. E la ricostruzione fatica a decollare.
La Banca Mondiale, le agenzie delle Nazioni Unite, gli uffici dell' Unione europea sono schierati in prima linea per sostenere la rinascita della Bosnia e della sua capitale. Ma la maggior parte dei fondi internazionali, i 5 miliardi di dollari previsti in quattro anni, circa 8 mila miliardi di lire, oltre a non essere ancora stati erogati, non sono sufficienti a risanare il disastro.
Dino Bicciato, il manager italiano dell' Img, l' International management group, incaricato di tenere i rapporti con la Banca mondiale, elenca i primi programmi: "Le emergenze innanzitutto: cliniche, ospedali, strade, ferrovie", dice. "Il piano prevede la riapertura di 180 chilometri di strada in Bosnia, di 21 ponti nazionali e due per i collegamenti internazionali, più il ripristino di linee ferroviarie come quella che va da Sarajevo a Ploce".
Impegni da capogiro anche in bocca a Tarik Kuposovic, il sindaco di Sarajevo che ha dato le dimissioni il 12 marzo, quando l' amministrazione cittadina è passata in mano a un' autorità cantonale: "Per ripristinare le infrastrutture, le reti del gas, della luce, dell' acqua, del telefono, per restaurare gli appartamenti danneggiati ci vogliono almeno 4 miliardi e 200 milioni di dollari, poco meno di 7 mila miliardi di lire". Se per ora la Federazione croato-musulmana è in grado di assicurare elettricità e telefono in continuazione, acqua e gas a intermittenza, a Sarajevo serve soprattutto che si riavvii il mercato del lavoro: "Ci sono 46 mila soldati da smobilitare, di cui 30 mila disoccupati", continua l' ex sindaco. "Prima della guerra 150 mila persone avevano un impiego fisso. Oggi sono in 3 mila a guadagnare più di 500 marchi al mese, tutti ingaggiati dagli organismi internazionali". E poi, c' è il problema dei profughi che andranno via, di quelli che torneranno, migliaia di appartamenti evacuati dai serbi da ridistribuire tra la polazione...
Sì, Sarajevo potrà essere ricostruita. Ma gli spettri della guerra che resuscitano sul set de Il cerchio perfetto scompariranno sotto le colate di cemento della riedificazione? Nei padiglioni dell' ospedale Kossevo, dove i chirurghi per 4 anni hanno tentato, spesso sotto le bombe, di operare d' urgenza gambe e braccia dilaniate dalle granate, un medico dal passo claudicante per lo sparo di un cecchino, Zelico Trograncic, dice: "L' 80 per cento della popolazione di questa città è afflitta dalla "sindrome post trauma", lo shock causato dal terrore costante di essere ammazzati: stati depressivi, insonnia, flash back, aggressività... Ed è come la sindrome del Vietnam: una bomba a orologeria. Può tornare a manifestarsi anche tra vent' anni". E' questo di cui vuole parlare Kenovic col suo film: "La "guerra dentro", la guerra che nessun telegiornale ha potuto mostrare, quella che stravolge i gesti, i pensieri dei personaggi". Veri o finti, poco importa. Sul set di Sarajevo tutto si confonde ancora.
SARAJEVO LE CIFRE DELL' ORRORE Giorni di guerra 1.325 Popolazione prima della guerra 527 mila abitanti Popolazione durante la guerra 350 mila (di cui 75 mila bambini sotto i 14 anni) Morti 10 mila 500 Feriti 60 mila Invalidi 1.800 Profughi arrivati a Sarajevo 130 mila (di cui 47 mila provenienti dai sobborghi occupati dai serbi) Profughi partiti da Sarajevo 300 mila Soldati da smobilitare 46 mila Case gravemente danneggiate Il 60 per cento
BOX
IN ARRIVO MOLTI FILM ISPIRATI ALLA GUERRA LA CITTA' MARTIRE DIVENTA UN SET Presto sugli schermi il diario di Zlata.
E intanto Harvey Keitel si fa prete in Bosnia.
Il film di Kenovic di cui si parla in queste pagine non è l' unico ispirato ai sanguinosi avvenimenti nella ex Iugoslavia. Sempre a Sarajevo è infatti cominciata la lavorazione di una pellicola americana ispirata al libro del giornalista della Itn Michael Nicholson La Storia di Natasha, dove l' autore racconta la sua lotta per l' adozione di una bambina bosniaca di nove anni. Il film, che si intitolerà proprio Sarajevo, è diretto da Michael Winterbottom e interpretato da Woody Harrelson e Marisa Tomei. E mentre la Universal ha già in progetto un film dal diario di Zlata Filipovic, la ragazzina bosniaca che ha raccontato nei suoi scritti l' orrore della guerra, anche la vicenda del pilota americano Scott O' Grady, che sopravvisse per sei giorni alla macchia dopo essere caduto col suo aereo in Bosnia, arriverà presto sugli schermi: il ruolo del pilota è in ballottaggio tra Christian Slater e Chris O' Donnell; infine Harvey Keitel dovrebbe vestire i panni di un sacerdote italo-americano in Bosnia nel nuovo film di Lina Wertmüller, il cui primo ciak è previsto per la prossima primavera.




Testata
Epoca

Data pubbl.
07/07/96

Numero
27

Pagina
86

Titolo
COSI' SCOMPARE UN PAESE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI ROMANO CAGNONI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Cardoso non c' è più. Se lo sono portato via le acque del torrente Versilia. Assieme a dodici innocenti. E ai mille sogni di una piccola comunità.

Didascalia
Le macerie di Cardoso, il paese arroccato sulle Apuane, a 300 metri
di altezza, devastato dall' alluvione di mercoledì 19 giugno. Il
disastro ha fatto dodici vittime, su un totale di 200 abitanti. I
sopravvissuti hanno dovuto fare i conti anche con gli "sciacalli"
sorpresi a saccheggiare.
Si scappa, si porta via quel poco che è rimasto intatto, si
seppelliscono le vittime. Tra loro, c' erano anche Giulia Bianchini
e Alessio Ricci, due bambini di 4 e 9 anni. Molte delle case di
pietra del paesino toscano erano state costruite 400 anni fa.

Testo
E' rimasto intatto solo il campanile, a ridosso di un costone roccioso. Tutto il resto dell' antica frazione di Cardoso, 200 anime, nel comune di Stazzema, in provincia di Lucca, uno dei borghi più belli delle Alpi apuane, è stato spazzato via dalle acque del torrente Versilia.
L' alluvione di mercoledì 19 giugno ha trasformato l' intero paese, che si trova a 300 metri di altitudine al riparo del monte Forato, un picco con in mezzo un buco dal quale si vede il cielo, in una poltiglia di fango. Ha ridotto a un colabrodo le reti idriche, elettriche, telefoniche, le condutture del gas. Ha disintegrato il portale di granito della chiesa, polverizzato persino le abitazioni costruite 400 anni fa con la tipica roccia grigia che si scava in questa zona. Anche gli abitanti sono spariti, alcuni morti (9 persone più 3 che non erano residenti), trascinati dal torrente, schiacciati da tonnellate di massi, altri scesi a valle con l' aiuto degli elicotteri dell' esercito.
Una valanga d' acqua. I corpi di Elena Bianchini, 30 anni, e della figlia Giulia, di 4, sono stati ritrovati a mare, il primo giovedì nelle acque di Marina di Massa, il secondo venerdì sulla spiaggia ligure di Portovenere. Quello di Alessio Ricci, 9 anni, era invece sotto una frana a Ruosina, una frazione di Stazzema. Il piccolo era stato portato a Cardoso dalla madre Valeria Guidi, che voleva rimettere in ordine la casa di villeggiatura, nella stessa palazzina dei nonni, Valentino Guidi e Renata Marcucci, trovati entrambi morti. Il padre del piccolo Alessio, Eugenio Ricci, un impiegato dell' azienda di promozione turistica di Viareggio, aveva telefonato alla moglie alle 13,30 di mercoledì, qualche minuto prima del disastro: "Urlava", ha raccontato tra le lacrime, "Ho paura, ho paura. Qui entra acqua dappertutto". Ed io le dicevo: "esci subito, vengo a prenderti". Mi sono messo in macchina, ma un muro di acqua mi è venuto addosso". Scavando nel fango i soccorritori hanno scoperto anche le carcasse imputridite di 200 maiali. Domenica 23 la gente di Cardoso è tornata, ma solo per raccogliere vestiti, coperte, libri, prima che gli sciacalli facessero man bassa.




Testata
Epoca

Data pubbl.
30/06/96

Numero
26

Pagina
8

Titolo
IO, NELLE STRADE DELLA GUERRA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
LIBERIA L' inviata di Epoca racconta

Sommario
Teste mozzate. Scene di cannibalismo. Guerriglieri-bambini imbottiti di droga che uccidono ridendo. Cronaca di una settimana qualunque vissuta nel folle inferno di Monrovia. La nostra vita è affidata a un generale di 18 anni Monrovia era una delle città più americanizzate d' Africa, ora è una bolgia divorata dal colera Nemmeno i funzionari Onu hanno il coraggio di entrare nella baraccopoli dei rifugiati I militari nigeriani della forza di pace vendono armi alle fazioni

Didascalia
Sotto: un miliziano del Fronte patriottico nazionale di Charles
Taylor uccide per strada un rivale krahn. Nella pagina accanto: un
guerrigliero armato di tutto punto con un grande orso di peluche
rubato durante un saccheggio. Nelle pagine precedenti: una testa
mozzata, lasciata a monito lungo una strada del Mamba Point, e un
guerrigliero agghindato come per una festa rap.
Indossando un vestito da sera rubato nei quartieri residenziali, un
miliziano armato di lancia si mette in posa per il fotografo.
Intorno a lui è ovunque desolazione, gli edifici e i negozi sono
tutti distrutti o abbandonati. Molti miliziani di Johnson combattono
addirittura nudi, indossando solo scarpe da jogging.
Sotto: una delle tante esecuzioni capitali compiute per le strade di
Monrovia. La vittima, in questo caso, è un membro dell' etnia krahn.
Nella pagina accanto: indossando una maschera tribale, ma
imbracciando un kalashnikov, un guerrigliero tiene sotto controllo
una zona della periferia della capitale liberiana.
Sopra: uno dei generali di Charles Taylor. Aggregate al suo gruppo
ci sono anche due giovani donne, le uniche combattenti incontrate
dall' inviata di Epoca durante i sette giorni trascorsi a Monrovia.
Sotto: una sentinella delle milizie di Johnson che tiene sotto
controllo una strada del quadrilatero di Barklay.
Salvatore Palella,
59 anni, nel suo ristorante a Monrovia.

Testo
Le canne dei kalashnikov puntate contro di noi. Gli sguardi esaltati dalle amfetamine e dalla marijuana. Un miliziano di 15 anni, maglietta a strisce e un basco di lana in testa, sputa parole a ritmo di rap: "Non- cer-cate- di scappare. Se- vi- muo-vete- vi- tiriamo- addosso". Sono le cinque del pomeriggio di un martedì di guerra, a Monrovia, capitale della Liberia, popolata da bande e fazioni che dal 6 aprile imperversano con le loro grida di battaglia e di morte. Dalle 11 del mattino i guerriglieri dell' Npfl, il Fronte patriottico nazionale di Charles Taylor, ci "trattengono" a un check point vicino al quartiere di Sinkor, oltre l' università: sei giornalisti (due italiani, un fotografo belga, un francese, due cameramen turchi) presi in ostaggio con l' accusa di essere spie.
Dopo averci interrogato, ci ordinano di sederci su un muretto, a un incrocio. Fa caldo. La tensione cresce di minuto in minuto. "State calmi. Dobbiamo aspettare il generale", dice il miliziano. "Sarà lui a decidere cosa fare di voi".
E' la prima volta che le milizie sequestrano dei giornalisti a Monrovia. Da quando, ad aprile, si è riacceso il conflitto etnico politico cominciato nel 1990 (vedi riquadro a pagina 14), in città ci si muove a piedi, si passa da un fronte all' altro senza troppi problemi. Tanto i guerriglieri dell' etnia krahn e mandingo che fanno capo a Roosevelt Johnson, quanto i loro avversari delle tribù Gio e Mano stretti attorno a Charles Taylor, e relative fazioni alleate (60 mila uomini in tutto), adorano farsi fotografare e riprendere dalle telecamere. Sotto gli occhi dei giornalisti ragazzini dagli 8 ai 15 anni, i visi dipinti, vestiti di stracci e mimetiche, armati di fucili, revolver, bazooka, ma anche di machete, coltelli, bastoni, combattono, massacrano nemici, tagliano loro i genitali, mutilano gambe e braccia, li squartano, ne divorano il cuore e il fegato. A Sinkor qualcosa sta invece andando per il verso sbagliato. Senza saperlo siamo entrati in una delle zone inaccessibili del conflitto. Nessun giornalista si era ancora spinto fin qui.
Liberi ma terrorizzati. Al check point le ore scorrono. Siamo stati interrogati da un comandante di 14 anni, dalle guance paffute e occhi crudeli, che bivaccava nella hall di un edificio saccheggiato.
Siamo stati poi consegnati a un generale di 18 anni, basco rosso e RayBan neri, viso scolpito a zigomi alti, che fumava marijuana, seduto sotto gli alberi con i suoi miliziani. Con lui c' erano le uniche due ragazze soldato incontrate a Monrovia, una diciottenne in divisa militare, lo sguardo obliquo, il tono arrogante, e una ventenne in jeans e camicia bianca ricamata che scopre le gengive a ogni sogghigno.
All' improvviso appaiono, dietro i vetri di una berlina chiara, le facce di quattro libanesi. La macchina scompare dietro un cancello, in fondo alla strada che porta al mare. Qualche minuto dopo, veniamo chiamati: vogliono parlarci.
I libanesi, signori degli affari in Liberia, terra di diamanti, oro, ferro, sono tra i pochi stranieri rimasti a Monrovia. Pagano le fazioni, così le loro case, in una città dove non esiste più né acqua, né luce, né telefono, sono le sole a non essere state saccheggiate. Nella villa ci sono l' aria condizionata, il biliardo, il televisore acceso sulla Cnn, le bibite ghiacciate. "Nessun problema", ci rassicurano. "Vi autorizziamo noi ad andare". Ma appena fuori, di nuovo le milizie, ancora l' attesa, sempre gli stessi sguardi straniati dall' alcol e dalla droga, i fucili puntati, mentre continua il via vai di camion e di jeep carichi di ragazzini armati.
Edifici sventrati e saccheggiati. Il generale ritorna alle sei. Fa solo un segno di assenso con la testa. Possiamo andare. Cinquecento metri ci separano dalla terra di nessuno che divide le milizie di Taylor da quelle di Johnson. Li percorriamo lentamente, con la paura che ci sparino alle spalle. Invece, il pericolo arriva da un' ultima banda, a bordo di una jeep pick-up, che tenta di fermarci. Vogliono trattenere due di noi. L' angoscia aumenta. Il fotografo belga discute con il capo, un uomo dal viso butterato. Finalmente le dita in segno di ok. La strada che costeggia il mare si spalanca libera e deserta.
Monrovia, con i suoi quartieri residenziali fatti di case bianche, basse, giardini ricchi di vegetazione, era un tempo tra le città più moderne e americanizzate dell' Africa occidentale. Gli ultimi combattimenti l' hanno trasformata in un agglomerato di edifici sventrati. Per le sue strade, cadaveri bruciati, mucchi di spazzature, carcasse d' auto, telefoni, vestiti, sedie, frigoriferi, tutto ciò che i guerriglieri scartano dopo i saccheggi. Mercoledì mattina ci inoltriamo nel quartiere di Barklay, un quadrilatero di vie, delimitato da una parte da una moschea, dall' altra da un cimitero, tenuto dalle milizie di Roosevelt Johnson. Una barricata, fatta di cassette di birra, con un totem al centro, protegge il passaggio dei civili: soprattutto donne con secchi d' acqua in testa, qualche anziano. I bambini sono invece in mezzo ai guerriglieri. Danzano, giocano a pallone, maneggiano armi e coltelli. Li tengono d' occhio, da un paio di check point, i soldati dell' Ecomog, la forza di pace composta da 8 mila militari, in maggior parte nigeriani, che dal 1991 veglia sul conflitto, senza troppo intervenire. O meglio intervenendo a modo proprio: vendendo armi alle fazioni, secondo le denunce di Amnesty International, e favorendo in passato gli avversari di Taylor.
Costeggiamo il cimitero. C' è silenzio: nel quartiere le piccole botteghe, i baretti, i posti di ristoro sono tutti distrutti. Un paio di chilometri più in là un fantoccio di legno con un finto fucile in mano veglia sull' entrata alle Baracche, il Btc (Barclay training center), un tempo quartier generale dell' esercito governativo, oggi città nella città, dove si accalca una folla disperata, chi dice di 20 mila, chi di 50 mila, chi di 70 mila sfollati, accampati tra scoli di fogna, fumi di fornelli, mucchi di spazzatura.
Circondato da caseggiati gialli, bassi, con tetti spioventi, il Btc ospita all' interno un campo di calcio dove si allena una squadra di ragazze scattanti e muscolose, un ospedaletto, le residenze degli ex militari governativi passati dalla parte di Johnson. E persino una chiesa luterana (in Liberia nonostante la popolazione sia a maggioranza musulmana, ci sono centinaia di chiese di tutte le confessioni). Gli anziani snocciolano il loro rosario di bisogni e paure: "Ci servono cibo, medicine, protezione. Qui ci fanno a pezzi.
Ieri sono morte dieci persone per le granate lanciate da quelli di Taylor". Il direttore dell' ospedale, Lorenzo Q. Dorr, spiega che i funzionari del World Food Programme, il programma alimentare delle Nazioni Unite, non mettono piede dentro le Baracche. "Lo giudicano troppo pericoloso. Portano il cibo nella zona ma bisogna andarlo a prendere fuori". Ad occuparsi dei malati (50, 60 feriti al giorno, innumerevoli casi di colera), ci sono i 46 volontari dello staff "tecnico". E di tanto in tanto i "traditional doctors", gli stregoni.
Ai guerriglieri di Johnson, accampati tra i civili, spetta la protezione del campo. Ce n' è uno di 13 anni, mingherlino, con una bandoliera a tracolla. Si chiama Gerald Boniface, ma il suo nome di battaglia è Bullet Proof ("a prova di proiettile"). E' il comandante di una Small Boys Unit, le unità create dalle fazioni per inquadrare i bambini tra gli 8 e i 14 anni: quelli soprannominati i "marines", destinati ai lavori più sporchi, come combattere in prima linea o finire i prigionieri. "I miei genitori sono stati ammazzati dagli uomini di Taylor nel 1990", racconta il ragazzino. "Mio fratello pure. Io ero rimasto solo, e sono entrato nelle milizie di Johnson.
Finché combatto mi danno da mangiare. Se finisce la guerra, morirò di fame. Se ho ammazzato nemici? Certo. Uno l' ho fatto fuori ieri: ha tentato di spararmi due colpi addosso, ma io l' ho preso allo stomaco". Mostra le sue guardie del corpo: una mezza dozzina di bambini che lo chiamano "Alto generale" con gran deferenza. I suoi programmi per il futuro: "studiare e diventare un marine americano".
Dei motivi veri di questo conflitto, dell' intreccio di ambizioni personali e interessi economici dei signori della guerra, come delle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, Bullet Proof non sa nulla. A lui, come agli altri 20, 30 mila ragazzini impegnati nel conflitto, l' unica ricompensa dei capi è un po' di cibo e il diritto di saccheggiare case, negozi, uffici.
Si spara a orario fisso. Il giorno dopo, giovedì, li vediamo combattere questi bambini senza innocenza. Ed è come una Disneyland degli orrori. Tragica e grottesca. Alcuni portano l' elmetto, altri cappellini da baseball. Altri ancora, senza mai lasciare il fucile, giocano a travestirsi, sfoggiando parrucche da donna con riccioli e méches, abiti femminili, cappelli di chiffon rubati nei saccheggi.
Quelli di Johnson vanno in giro anche nudi, ma con le scarpe da jogging.
La battaglia comincia a orario fisso, alle 11. Scoppia a Barklay. I primi spari, dal fondo della strada. Dall' altra parte incitamenti, danze propiziatorie, urla da stadio. "Move, move". Andiamo, andiamo.
"Run, run". Correte, correte. Un unico boato. E cinquanta, sessanta guerriglieri si dirigono contro il nemico. I primi armati di kalashnikov e bazooka, gli altri dietro con i machete, con i coltelli da cucina e persino i phon per capelli impugnati come pistole. Si corre da un incrocio all' altro senza un piano, senza una strategia. Per due, tre ore si combatte dietro il campo profughi di Greystone, un altro infernale agglomerato di sfollati. Alle due del pomeriggio la città è una tomba a cielo aperto. I corpi squarciati di due ragazzi giacciono davanti a Greystone, gli intestini di fuori, il cranio fracassato. A Barklay è ancora peggio, cadaveri decapitati, braccia, gambe, mani, piedi amputati. Nei pressi di Sinkor, due cameramen inglesi si trovano a filmare un rito cannibalistico. "I nemici erano a terra, morti. I guerriglieri di Taylor li hanno tagliati lungo lo sterno", racconterà uno dei due, Zed Paisley.°"Hanno tirato fuori il cuore e il fegato e li hanno messi a cucinare su un fornelletto, condendoli con spezie e sughi.
Un ragazzo ci ha detto che dopo aver mangiato avrebbe acquistato forza e coraggio e che il pasto gli avrebbe permesso di farsi una bella dormita. Volevano che cenassimo con loro...". Nella moderna e americanizzata Monrovia, le tradizioni tribali risorgono, si impongono, nutrite, da una parte, di rambismo made in Usa, dall' altra di antiche superstizioni. E niente sembra cambiato dagli anni Trenta, quando Graham Greene alla vigilia della sua esplorazione in Liberia (raccontata in Viaggio senza mappe) si trovò davanti una sola carta geografica, disegnata dai cercatori d' oro, che indicava tre quarti del Paese come "cannibals' fields", le terre dei cannibali.
Il fortino-ambasciata americano. Nel pomeriggio i cadaveri vengono dati alle fiamme. Tornando nel Mamba Point, l' ex quartiere diplomatico di Monrovia, i cancelli divelti delle sedi degli organismi internazionali, l' Unicef, la Croce Rossa, Médecine sans Frontières, proiettano ombre lunghe sui marciapiedi. Resiste un albergo, proprio il Mamba Point, gestito da libanesi e protetto dalle milizie di Taylor. Tenuto aperto per ospitare i giornalisti, è uno dei pochissimi edifici dove i generatori assicurano aria condizionata, elettricità, acqua per quattro ore al giorno, e telefono abilitato alle chiamate internazionali. Sulla stessa strada che segue il mare, appare l' unica vera roccaforte di Monrovia: l' ambasciata americana. Duemila marine, a rotazione (in parte su una nave in parte a terra), presidiano i muri di cinta ornati col filo spinato. Un piccolo spiazzo sul retro, vicino alla spiaggia, permette agli elicotteri di atterrare. Il campo di Greystone si trova proprio di fronte. Accoglie, tra fogne a cielo aperto, sotto le tende azzurre delle Nazioni unite, oltre 20 mila rifugiati che sopravvivono di piccoli commerci. E' l' ambasciata a rifornirli di cibo.
Il personale delle agenzie umanitarie a Monrovia è ridotto a poche unità: gli stranieri in gran parte evacuati, gli staff locali nell' impossibilità di lavorare. Se i volontari di Médecine sans Frontières non riescono a fronteggiare le decine di casi di colera al giorno, quelli del World Food Programme cercano come possono di rifornire tutta la città. L' addetto stampa, Michelle Quintaglie, parla di 600 mila persone (su una popolazione, prima della guerra, di 800 mila). "Con i combattimenti c' è stato un rimescolamento generale", spiega. "Chi è scappato, chi si è rifugiato nei campi profughi... Quasi tutti hanno dovuto lasciare le loro case".
Un mucchio di foto sparse. La domenica, alle 11 del mattino, non si sentono spari, come di consueto. I guerriglieri sembrano calmi. Nel primo pomeriggio le truppe dell' Ecomog attraversano la città con i blindati. Drappelli di soldati nigeriani si riversano a ogni incrocio: le fazioni hanno appena firmato il cessate-il-fuoco. Non è ancora pace. Le violenze e i saccheggi continuano, ma l' Ecomog sembra aver tutta l' intenzione di disarmare le milizie. Per le strade i bambini tornano a giocare con giocattoli veri e gli artigiani del legno a vendere statuette, di fronte all' ambasciata.
Dietro al Mamba Point Hotel, un mucchio di foto, perse sui marciapiedi durante un saccheggio, fanno luccicare al sole il ricordo di un' altra Liberia: uomini in smoking, donne ingioiellate, coppe di champagne... L' illusione, o piuttosto l' inganno, del benessere e della civiltà.

BOX
PARLA L' UNICO ITALIANO RIMASTO A MONROVIA "DA QUI NON MI MUOVO. ALTROVE NON HO NIENTE" Aspetta la pace barricato nel suo ristorante. Extralusso.
Nella sala del "Salvatore' s restaurant", il locale più esclusivo di Monrovia, tutto è rimasto come quell' ultima sera del 5 aprile, prima che scoppiassero i combattimenti: le tovagliette verdi ai tavoli, le tendine ricamate alle finestre, le bottiglie di alcolici allineate sul bancone. Il proprietario, Salvatore Palella, un messinese di 59 anni che si vanta di essere il primo italiano arrivato nella capitale liberiana (anno 1955), ha deciso così. Si è chiuso là dentro e si è messo ad aspettare. Come se da un momento all' altro i camerieri dovessero tornare a servire tagliatelle e spaghetti ai suoi facoltosi clienti e gli imprenditori stranieri a trattare affari miliardari ai suoi tavoli. "Sì, sono l' unico italiano rimasto a Monrovia", dice, seduto nel suo ufficio, sul retro del ristorante, dove un cameriere offre caffè e acqua tonica.
"Ma perché dovrei andarmene? Tutto quello che possiedo è qui. Non ho niente altrove". Il riverbero di una candela che gli rischiara la barba bianca, incolta, gli occhi arrossati, i pochi capelli, gli proietta addosso un' aria da sopravvissuto, lontana da quella curata, un po' leccata che ha nella collezione di foto appese al muro. "Paura? Mah, passo il tempo studiando i testi dei Rosacroce.
Alta filosofia, scienze occulte. E' l' unico sistema per resistere in questo inferno".
Nel suo piccolo, Salvatore Palella è fortunato. Il suo ristorante, un locale basso nascosto tra la vegetazione, dietro il grande mausoleo sventrato in stile déco che era la sede della potente loggia massonica liberiana, è uno dei pochi a non essere stato saccheggiato: "Forse perché a Monrovia conosco tutti, sono benvoluto dalle fazioni. Figuratevi, mi chiamano il "padrino"... Ma qui non è mai detto. Un saccheggio l' ho già subito". E' successo nel 1990, quando, a causa della guerra, decise di partire: al ritorno trovò solo un cumulo di macerie. "Danni per 393 mila dollari. Sono anni che aspetto un risarcimento dal governo italiano. Esiste una legge che garantisce il rimborso degli imprenditori vittime della guerra all' estero. E' successo in Libia e in Somalia. Speravo valesse anche per la Liberia...".
La sua lingua quotidiana è ormai l' inglese, ma Salvatore Palella ha conservato ancora con un forte accento siciliano: "Messina? Sì, me la ricordo. Ho un fratello lì. Ma dopo che è morta mia madre l' anno scorso, che ci torno a fare? Mio padre", racconta mostrando la foto di un omone in divisa, con le mani sui fianchi, "era un eroe di guerra: ha ricevuto due medaglie d' oro al valore combattendo con Mussolini in Spagna, accanto a Franco. E' morto quando io avevo un anno". Tira fuori altre foto, quelle della madre, della moglie, dei figli. "Da ragazzino ho vissuto in Spagna, in Australia, ma poi c' era il servizio militare di mezzo e io non volevo farlo...". Fu così che Salvatore Palella approdò a Monrovia, nel 1955, quando in città c' erano appena 25 mila abitanti, chiamato da un amico di famiglia che lo mise a lavorare in un bar. "Sono stato il primo a portare i gelati in Liberia". Qui incontrò una ballerina spagnola di flamenco. La sposò, fece quattro figli, tre maschi e una femmina, e poi spedì tutta la famiglia a Madrid dalla suocera: "Perché? Perché questo non è posto per far vivere dei bambini". Se il primo ristorante aperto nel 1963 si rivela un fallimento, i contatti con la nomenklatura liberiana, in compenso, si intensificano.
"Ero molto amico del presidente William Tolbert. Eccolo lì nella foto... Conoscevo anche Samuel Doe. L' ho visto crescere per strada. I capi di oggi? Taylor viene spesso da me. Ma qui è così, se hai soldi ti rispettano tutti". E di soldi Salvatore Palella deve averne fatti. Tanti: un nuovo ristorante aperto nel 1967, un business club, il Royal, riferimento per tutti gli imprenditori stranieri in Liberia, inaugurato nel 1992. "Però sapete quanto mi è costata la guerra? Mille dollari al giorno. Devo far funzionare i due generatori che sono rimasti, fare attenzione a quello che bevo e mangio, perché non posso concedermi il lusso di ammalarmi. E poi nutrire i 50, 60 ragazzi che sono con me; dividere il cibo con quelli che stanno lì fuori; portare aiuto al Saint Joseph Hospital, l' ospedale dei missionari". "Padrino" e benefattore? Salvatore Palella allarga le braccia: "E' quello che mi hanno insegnato i Rosacroce: quando tutto è distrutto, bisogna piantare, perché qualcosa rinasca di nuovo".




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/06/96

Numero
25

Pagina
18

Titolo
ALBANESI: SCAPPANO DA QUESTO INFERNO ... ... E NON LI FERMEREMO PIU'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Alberto Selvaggi

Sezione
STORIE

Occhiello
DOSSIER

Sommario
Il loro è il Paese più povero d' Europa. E ora alla crisi economica si è aggiunta quella politica. Così, con l' estate, si prepara un nuovo esodo di clandestini. Primo obiettivo: l' Italia. Ma i controlli? Rapporto dal fronte di una "guerra" quotidiana. Che per noi è persa in partenza.

Didascalia
CACCIA AGLI OPPOSITORI A sinistra: le sequenze di un pestaggio della
polizia durante una manifestazione dell' opposizione a Tirana. A
destra: il leader socialista Servet Pellumbi, protetto da una
guardia del corpo,
con un fotografo spagnolo manganellato dagli agenti.
IN ATTESA DEL RIMPATRIO Un gruppo di clandestini albanesi al
commissariato di Monopoli: hanno già il biglietto di ritorno per
Durazzo. Ma molti di loro presto ci riproveranno.

Testo
COSI', TAPPA DOPO TAPPA, BEFFANO (PER LEGGE) LA SORVEGLIANZA 1 Il clandestino albanese che intende imbarcarsi versa un milione, un milione e mezzo allo scafista. Oppure affida il denaro a un parente che fa da "garante" e che verserà l' importo a viaggio riuscito. La cifra comprende un "bonus": un secondo passaggio gratis nel caso il primo andasse male. Le cifre salgono dai 5 ai 20 milioni per i viaggi dei clandestini provenienti dall' Asia.
2 L' imbarco avviene a bordo di gommoni d' altura (20 posti), motoscafi (30 posti), motopescherecci (50 posti). Quasi tutti i mezzi partono da Valona. Raramente da Durazzo. Molti fuggitivi tentano l' imbarco con passaporti falsi sui traghetti di linea da Durazzo o da Bar (Montenegro) 3 Distanza tra Valona e Otranto, 41 miglia. Tempo di percorrenza: un' ora circa, con tempo buono.
4 Dopo lo sbarco.
A) I clandestini sfuggono alle forze dell' ordine.
Un "servizio taxi" gestito dai racket albanesi o italiani, a un costo che varia dalle 150 alle 300 mila lire, preleva a bordo di auto o di furgoni gli immigrati e li accompagna alle stazioni ferroviarie più vicine: Lecce, Monopoli, Bari. oppure ai terminali dei pullman.
A1) Gli albanesi si disperdono per le città italiane.
A2) I curdi si dirigono specialmente in Germania.
A3) Gli altri: pakistani, indiani, cinesi possono rimanere in Italia o dirigersi ai valichi di frontiera per raggiungere Francia, Austria, Svizzera, Germania.
B) La polizia ferma i clandestini sullo scafo o sulla battigia.
Controlla i documenti, procede all' identificazione, rileva le impronte digitali.I clandestini provenienti da Paesi confinanti, albanesi e slavi, sono respinti entro 24 ore con la prima nave di linea. Per gli altri viene emesso un provvedimento di esplusione (10 giorni per lasciare l' Italia e chiedere il rimpatrio via aerea alle ambasciate). Nessuno in realtà lo fa: la maggior parte continua il suo viaggio della speranza.
C) La polizia cattura i clandestini dopo lo sbarco, lungo le strade, sui pullman, sui treni. Se non si può dimostrare lo sbarco recente, si procede con (l' inutile) procedimento d' esplusione.
Li hanno trovati, lunedì 10 giugno, sui pullman delle linee Marozzi, a Monopoli, 45 chilometri da Bari, appena sbarcati da un motoscafo che arrivava dall' Albania. Li hanno presi all' inizio della loro migrazione per l' Italia che li avrebbe portati a Milano, Firenze, Roma, Napoli. Adesso stanno seduti su una panca di legno, qualcuno con le spalle attaccate al muro, qualcun altro a testa bassa, una fila di volti cupi, di jeans umidi, di giubbotti di pelle, di sacchetti tra le ginocchia, custoditi in un seminterrato del commissariato di polizia, con due agenti che li sorvegliano e una geometria di transenne che li confina in pochi metri quadrati.
Sono 19 in tutto. In fuga da un Paese, l' Albania, che oltre a essere il più povero d' Europa (100 mila lire di reddito pro capite al mese) nelle ultime settimane è anche scivolato nella peggiore crisi politica della sua ancor giovane storia dopo la fine del regime comunista. Le elezioni del 26 maggio, che avrebbero dovuto consolidare la democrazia, hanno al contrario scatenato il caos dopo la controversa vittoria del partito democratico del presidente Salim Berisha. L' opposizione ha accusato polizia e servizi segreti, complice il presidente, di aver pilotato il voto. Ci sono state manifestazioni, scontri di piazza con le forze dell' ordine, manganellate, scioperi della fame. E la Comunità Europea e gli Stati Uniti, dopo i rapporti degli osservatori internazionali, hanno ottenuto l' annullamento parziale dei risultati elettorali. In 17 distretti la consultazione è stata così ripetuta domenica 16 giugno, con prosecuzione lunedì 17. I tre principali partiti di opposizione hanno però deciso il boicottaggio delle urne, perché a loro parere la ripetizione è troppo limitata.
Questa improvvisa crisi politica potrebbe riaprire la strada a un esodo di massa? Il dirigente del commissariato di Monopoli, Maurizio Gelich, non si sbilancia: "C' è stato, è vero, negli ultimi giorni, un aumento degli sbarchi clandestini. Ma che sia una conseguenza di quello che sta succedendo in Albania, o solo il consueto effetto della buona stagione, nessuno è in grado di dirlo". Sulla costa pugliese, negli ultimi anni, gli immigrati sono sempre arrivati, a una media di 50 al giorno. Stando almeno a quelli che vengono fermati. Gli altri, quelli che passano indisturbati, si calcola siano dieci volte tanto. E non solo albanesi, ma anche slavi, curdi, pakistani, cingalesi, indiani, cinesi, pronti a fermarsi in Italia o continuare da qui il loro viaggio verso la Germania, la Svizzera, la Francia.
In Puglia l' anno scorso c' è voluto l' esercito a far da spauracchio, mille uomini della brigata Pinerolo mandati in Puglia da aprile a ottobre a pattugliare le coste. In sei mesi hanno sorpreso più di 15 mila clandestini, ma non hanno certo fermato il traffico. Adesso ci sono rinforzi di Guardia di Finanza a Monopoli, di polizia a Brindisi, di carabinieri a Otranto, ci sono 52 navi, guardacoste e vedette, a pattugliare l' Adriatico, 8 aerei a controllarlo dall' alto, ma anche così la fiumana non si arresta.
Soprattutto l' arrivo dell' estate, con le buone condizioni meteorologiche e del mare, è un ulteriore invito alla fuga per migliaia di albanesi. Del resto la costa pugliese rimane un confine colabrodo: 300 chilometri, da Bari a Otranto, di spiagge, anfratti e calette difficili da presidiare, dove si arenano tanto i controlli delle forze di polizia quanto i rigori del "decreto Dini" (che pur sembrava aver dato un giro di vite rispetto alla legge Martelli).
Il "ranch". A Monopoli, centro di smistamento degli immigrati che arrivano dall' Adriatico, quello stanzone seminterrato, dove i 19 albanesi aspettano di conoscere la loro sorte, è stato battezzato il "ranch". Forse per le transenne, forse per l' odore che ristagna dopo ogni passaggio di stranieri. Tutti i clandestini bloccati nella zona finiscono lì. Ci rimangono dieci, dodici ore per gli accertamenti, le impronte digitali, i riconoscimenti. Che cosa succede dopo, lo spiega il commissario Gelich: "Gli slavi e gli albanesi, provenienti da Paesi di frontiera, vengono respinti con la prima nave di linea. Per gli asiatici, bisogna accertare la loro nazionalità, non sempre facile visto che viaggiano spesso con documenti falsi, e poi emettere un procedimento di espulsione: 10 giorni per lasciare l' Italia e farsi rimpatriare dalle loro ambasciate".
Ma, primo problema: senza documenti i Paesi d' origine si rifiutano di accettarli. Secondo: nessuno degli "espulsi" si preoccupa di andarsene. L' "intimazione" è solo un foglio di carta straccia che permette loro di continuare indisturbati il viaggio. Inoltre, fino al 31 marzo scorso, anche albanesi e slavi avevano modo di salvarsi dal rimpatrio: se dimostravano di essere in Italia prima del decreto potevano mettersi in regola con la sanatoria.
Il "decreto Dini", uno degli atti legislativi più discussi e contrastati in fatto di immigrazione, si sta insomma rivelando meno duro del previsto? Si finirà per auspicare in Italia quello che sta succedendo in Francia, dove le "terribili" leggi del 1993, firmate dall' allora ministro dell' Interno Pasqua, rischiano di sembrare addirittura filantropiche rispetto alla nuova proposta dell' ala neogollista (impronte digitali di chiunque chieda un visto per la Francia, possibilità di arresto di 45 giorni per i clandestini, senza controllo nei primi 15 da parte dell' autorità giudiziaria...)? Il commissario Gelich allarga le braccia: "L' arresto è previsto per chi favorisce l' immigrazione clandestina, come i conducenti degli scafi, per chi trasporta droga o eventualmente armi".
Sul braccio di mare che collega il porto di Valona alla costa pugliese, si è aperta infatti un' "autostrada" acquatica, sulla quale i pacchi di droga, dall' hashish all' eroina, viaggiano con la stessa facilità di altre merci, dalle sigarette di contrabbando ai carichi umani e, si sospetta, alle armi. A inaugurare il percorso con i motoscafi sono stati i contrabbandieri italiani, i primi a gestire anche il trasporto dei clandestini. In un secondo momento i contrabbandieri si sono spostati in Montenegro e il traffico è passato ai racket albanesi. Con il tacito accordo della Sacra Corona Unita.
Una flottiglia superveloce. Oggi i traghettatori possiedono 50 / 60 motoscafi ancorati a Valona, gommoni d' altura e anche qualche peschereccio. Si occupano dei connazionali, ma non disdegnano gli stranieri. I cinesi, per esempio, che arrivano in Albania con il volo Pechino-Tirana. Altri, come i curdi, gli indiani, i pakistani, raggiungono la costa pugliese a bordo di navi che partono dalla Turchia, oppure vanno su pullman e camion con passaporti falsi attraverso la Bulgaria e la Macedonia fino a Valona. Costo del tragitto: per gli albanesi, da un milione e mezzo di qualche mese fa si è scesi a 400 mila lire. Con una clausola. Gli immigrati che si affidano, una volta a terra, agli autisti forniti dall' organizzazione (italiani, slavi, albanesi o i nomadi del campo di Lecce) pagano 300 mila lire in più, ma hanno diritto a uno o due "bonus". Vale a dire, un secondo o terzo viaggio gratis nel caso in cui vengano scoperti e respinti. Gli altri che preferiscono far da sé devono invece ripagare il pedaggio, se costretti a tornare in patria.
Le tariffe, per gli stranieri, sono molto più care: 2 milioni per i curdi, 3 per i derelitti del Bangladesh, fino a 20 milioni per i cinesi, gestiti da una mafia (la triade più attiva è quella del Drago Verde) che dispone di accompagnatori muniti di visori notturni, cellulari, cassieri con valuta.
Qualcuno di questi clandestini fa sosta in Puglia. Il commissario Gelich, a bordo di una Campagnola, mostra le grotte e le antiche abitazioni rupestri, scavate nei canyon rossi che spaccano la campagna attorno a Monopoli, spesso utilizzate dagli albanesi come domicilio temporaneo. Stracci, lamiere, materassi sfondati testimoniano il loro passaggio.
Al commissariato, intanto, un albanese si lamenta: "Sono scappato dall' Albania perché non avevo i soldi per riparare la mia scavatrice. Ho speso un milione e mezzo per il viaggio, ora ho solo 5 mila lire in tasca e stasera mi rimandano indietro". Ha passato tutta la notte seduto sulla panca: "A turno ci permettevano di andare in bagno. Sempre a turno di fumare una sigaretta. Cibo niente". I panini previsti devono ancora arrivare: il commissariato ha già inoltrato via fax domanda formale al Comune.
Fino a qualche mese fa l' assistenza ai clandestini era monopolio della Caritas."Abbiamo cominciato a occuparcene nel 1991, l' anno dello sbarco oceanico", racconta il direttore don Giorgio Pugliese, "Ci siamo recati in Albania, abbiamo cercato di lavorare anche lì, riuscendo a inaugurare a ottobre 1994 un poliambulatorio". L' anno scorso il sacerdote ha iniziato a fornire i pasti al Commissariato. E visto che a Monopoli non esiste centro di accoglienza, ha messo a disposizione la sede Caritas, la masseria di Santa Cecilia, 50 posti letto, cucine e caminetto.
A marzo, però, il direttore si è reso conto che non poteva andare avanti per molto. E' partito il primo fax per la Prefettura di Bari: una richiesta di risarcimento di 6 milioni (25 mila lire ad assistito) e la richiesta di trasformare la masseria in centro di accoglienza. Ma dall' altra parte solo un "vedremo, vedremo" del capo di gabinetto e nient' altro.
Da quel momento gli agenti di polizia hanno chiesto i pasti al Comune, rimettendoci a volte anche i soldi di tasca propria. Ed è sempre il commissariato ad anticipare (con rimborso dalla Prefettura) il biglietto di rimpatrio per quelli rispediti sui traghetti di linea: dalle 70 alle 100 mila lire, paradossalmente pagate allo Stato albanese, dato che le navi (a Monopoli opera la Vikinga) appartengono a società di quel Paese.
Gommoni antiradar. Se Monopoli è il centro di smistamento dei clandestini, Brindisi è uno dei cancelli di entrata. Un maresciallo della Guardia di Finanza racconta la cattura di uno scafista che il 19 aprile trasportava, oltre a 37 immigati, più di un chilo di eroina: "La nostra motovedetta ha cominciato l' inseguimento, ma il conducente si è buttato contro speronandoci, con il rischio che la gente a bordo finisse maciullata tra le nostre eliche". Alcuni degli scafi sequestrati, pronti a essere riverniciati e utilizzati dalla Guardia di Finanza italiana, galleggiano ancorati al porto. Sono bestioni con 4 motori da 225 cavalli l' uno, capaci di toccare i 45 nodi, spesso più degli stessi mezzi della Finanza. Per non parlare dei gommoni, che hanno il vantaggio di non essere intercettati dai radar. Il maresciallo guarda con preoccupazione verso il mare. Dopo il naufragio della nave turca che il 18 aprile si è incagliata a San Cataldo, vomitando 172 clandestini, tra i quali 103 pakistani, 37 curdi e 31 albanesi, corre voce che altre due imbarcazioni siano pronte a salpare puntando proprio lì, sul tratto di costa tra Brindisi e Otranto.
"Ci rivediamo stasera". Otranto, bianca e arroccata sull' Adriatico, con le sue mura medievali, dista poco più di un' ora di mare da Valona. E' la sponda più vicina a quella albanese, oltre che l' unica cittadina pugliese a possedere un centro di accoglienza. Si fa per dire: 4 container montati sul molo, forniti dalla Prefettura di Lecce. Quattro scatoloni metallici, all' inizio dotati, si favoleggia, di impianto di aria condizionata, docce e brandine.
Oggi ridotti piuttosto male: vetri fracassati, lavabi senza rubinetti, coperte per terra.Qui, come in altri porti, gli immigrati arrivano comodamente anche sulle navi di linea, con documenti falsi. "Li rimandiamo indietro", dice un maresciallo, "e quelli ci fanno "ciao ciao" con la mano. "Ci rivediamo stasera", pronti a sbarcare di nuovo".
Alla stazione dei carabinieri spiegano che a ogni fermo di clandestini si avvisa innanzitutto il pronto soccorso di Otranto per l' assistenza sanitaria. Per i casi più gravi si interpella l' Usl di Maglie (gli albanesi sono generalmente sani, ma curdi, pakistani, indiani spesso hanno malattie infettive). Mentre per i pasti la Prefettura ha stipulato un contratto con il supermercato Scuto (3 mila e 200 lire a pasto). Il proprietario, il signor Giovanni Miceli, prepara pacchetti con pane e formaggio (si evita la mortadella per i musulmani), acqua minerale e un frutto.
Anche qui la Caritas è stata tagliata fuori. Al santuario di Santa Maria dei Martiri, tre ragazzi, Claudia, Pasquale e Antonio, raccontano come. "Quando c' era l' esercito eravamo noi che ci occupavamo dell' assistenza", dice Claudia, 25 anni. "Poi a dicembre c' è stato un naufragio con 17 morti. Saranno state le dichiarazioni che abbiamo rilasciato ai giornali, fatto sta che da allora i carabinieri ci hanno sbarrato l' ingresso al porto". Anche lo stesso direttore, don Giuseppe, che si era offerto di ospitare gli immigrati, a condizione che non ci fossero carabinieri di guardia, si è preso un no secco. "Preferiscono lasciarli nei container, che sono posti infami", protesta la ragazza. "Ma qui è tutto assurdo, a cominciare dal blocco alla frontiera. Una barbarie".
A Bari, sede del "coordinamento interforze" istituito quando è arrivato l' esercito, il prefetto Corrado Catenacci scrolla le spalle: "L' obiettivo della legge non è accogliere i clandestini, ma respingerli. E poi non abbiamo soldi da destinare all' assistenza".
Nei buoni propositi c' è la richiesta al ministero di un fondo "minimo" per gli immigrati. Ma al momento, a dispetto del "coordinamento interforze", in Prefettura è persino difficile avere il numero esatto di clandestini fermati negli ultimi mesi. "Ecco qua", dice il prefetto, mostrando un mazzo di documenti. "Sono i decreti di espulsione che ho firmato oggi". Quelli che prescrivono 10 giorni di tempo per lasciare l' Italia? "Sì, proprio quelli". Una montagna di carta straccia e nient' altro.
IL SISTEMA DI CONTROLLO QUATTRO SOLI COMANDI OPERATIVI Sul fronte dei clandestini, lungo tutta la costa pugliese, sono impegnati carabinieri, poliziotti, finanzieri. Ecco i maggiori comandi operativi: Bari. Comando generale. Coordinamento interforze presso la Prefettura.
Monopoli. Trenta unità della Guardia di Finanza aggregate al commissariato di Polizia Brindisi. Unità di Polizia aggregate alla Questura.
Otranto. Carabinieri dei battaglioni Puglia e Liguria aggregati alla stazione dell' Arma. Centro di accoglienza formato da 4 container forniti dalla Prefettura di Lecce.
LA ZONA DI APPRODO 300 CHILOMETRI DI COSTA PER SBARCARE Il tratto più a rischio è quello che va da San Cataldo, una cinquantina di chilometri a sud di Brindisi, fino a Santa Maria di Leuca, il capo estremo della Puglia, una sessantina di chilometri a Sud di Otranto.
I clandestini approdano in località come Le Cesine (la spiaggia di Lecce), Capo d' Otranto, Porto Badisco (a sud di Otranto), Lido di Specchiolla (a nord di Brindisi), Casalabate (a sud di Brindisi), Alimini (a nord di Otranto). Qualche sbarco anche a nord di Bari, tra Barletta, Trani, Bisceglie.
I DUE TERZI SONO ALBANESI, SEGUITI DA EX IUGOSLAVI, CURDI E ANCHE CINESI OGNI MESE VENGONO BLOCCATI PIU' DI MILLE CLANDESTINI Quanti sono Dal primo gennaio al 31 maggio 1996, sono circa 5 mila e 500 gli immigrati clandestini scoperti in Puglia da carabinieri, poliziotti e fiamme gialle. La cifra si ricava dai "lanci" dell' Agenzia Ansa: oltre un centinaio di dispacci a ritmo quasi giornaliero.
Da dove vengono Quasi due terzi dei clandestini fermati, sono di nazionalità albanese. Poco meno di un terzo è formato da slavi in fuga dalle Repubbliche della ex Iugoslavia. Seguono minoranze di curdi e pakistani (oltre un centinaio), poche decine di russi, cingalesi, egiziani, cinesi. A questi vanno aggiunti alla spicciolata indiani, rumeni, marocchini, libanesi, iracheni, bulgari, ungheresi.
Dove li prendono La maggior parte, oltre la metà, sono stati acciuffati sui traghetti di linea, con documenti falsi; 1.500 sono stati presi o sui pescherecci o immediatamente dopo lo sbarco; un migliaio sono stati ritrovati sulla costa, nei centri abitati o per le strade. Gli altri sono stati scoperti presso le stazioni ferroviarie o in quelle dei pullman.
Che fine hanno fatto Secondo i dati raccolti dalla Questura di Bari, da gennaio a oggi è stato emesso un provvedimento di espulsione (obbligo a lasciare il Paese entro 10 giorni) per 800 clandestini, a fronte dei 7 mila 294 del 1995. La cifra è molto più bassa per via della sanatoria che ha permesso a moltissimi di regolarizzare la propria posizione.
Né la Questura né il ministero dell' Interno sono in grado di fornire dati riguardo ai clandestini respinti al Paese di origine entro le 24 ore successive al fermo.




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/05/96

Numero
21

Pagina
24

Titolo
A BORDO C' ERANO I PROFUGHI CHE SALVAMMO NOI

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
REPORTAGE PARLA MONIQUE MACONI, FUGGITA DA MONROVIA

Sommario
La testimonianza della donna che ci raccontava per telefono i massacri.

Didascalia
La famiglia Maconi nella sua casa a Livorno.

Testo
Adesso c' è l' Italia, la casa di Livorno, ci sono i ragazzi che hanno ricominciato ad andare a scuola, c' è il pensiero e anche l' angoscia di come sarà il reinserimento dopo tanti anni di Africa, dopo il terrore di quegli ultimi dieci giorni di assedio e massacri a Monrovia. Eppure Monique Maconi, moglie di Gian Paolo, console italiano in Liberia, la donna che dal 4 al 13 aprile si era aggrappata al telefono chiedendo aiuto ai giornali di tutta Italia, è come se fosse rimasta lì. Gli occhi incollati al televisore a seguire l' odissea della Bulk Challenge, l' orecchio alla cornetta per cercare notizie, per sapere di quei 57 profughi che aveva accolto in casa, mentre le fazioni si scannavano a pochi metri dall' abitazione consolare. "Sette di loro, mi hanno detto per certo, si sono imbarcati sulla Bulk Challenge: il reverendo Sabu, un pastore protestante, con le sue due bambine, una di 2 l' altra di 3 anni, e i 4 nipoti. Chissà come stanno...". La distanza non stempera l' ansia. Crea però un senso di straniamento nella voce della signora Maconi. "So anche che in casa nostra c' è un ragazzino di 10 anni colpito da un missile. Ha una brutta ferita alla guancia e non ci sono medicine per curarlo. Ho chiamato la sede dell' Unione europea a Monrovia, l' ambasciata americana, ma nessuno risponde. E' possibile che non si possa fare niente per i civili?".
Dal giorno in cui i Maconi sono andati via, passando le barricate a bordo della loro Volvo rossa, per poi essere portati in aereo in Sierra Leone, un gruppo di profughi è rimasto infatti nell' ex residenza consolare, a farsi scudo sotto la lacera bandiera italiana. Un altro drappello, tra cui il reverendo Sabu, approfittando di una tregua dei combattimenti, era andato via il giorno prima dell' evacuazione.
I 50 profughi erano arrivati a casa Maconi all' inizio di aprile, quando i primi combattimenti hanno rotto la tregua tra le fazioni firmata ad agosto. "Erano vicini di casa, gente venuta ad abitare da poco nel quartiere, rassicurata dalla nostra presenza. Si sono presentati in processione pregandoci di prendere almeno le loro mogli e i loro bambini". Il salone di casa, un grande locale a forma ottagonale, si è trasformato in un accampamento. "Per sicurezza, avevamo smantellato le camere da letto al piano superiore e portato tutti i materassi giù".
Di quei dieci giorni di convivenza blindata, la signora Maconi ricorda le chiacchiere con le donne, i bambini che giocavano a carte, non appena fuori si smetteva di sparare, i cappellini di carta e le barchette che lei faceva per distrarre i più piccoli. E poi le preghiere. "Pregavamo tutti, quando il rumore degli spari echeggiava più vicino".
Di etnie, di tribù, di ragazzi scappati dalle famiglie per andare in strada a sparare con le varie fazioni, la signora Monique preferisce non parlare. Così come degli orrori raccontati dalla stampa: riti stregoneschi sui cadaveri dei nemici, cannibalismo.
"Sono cose che esistono in tutta l' Africa. Ma lì, in casa nostra, l' unica preoccupazione era quella di rimanere vivi". E di scappare? "In quei giorni i liberiani sostenevano di voler restare nel loro Paese. Ma nelle ultime settimane la situazione è degenerata. E l' avvenire non riserva niente di buono".




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/05/96

Numero
21

Pagina
25

Titolo
AFRICA: GLI ALTRI 10 PAESI NEL TERRORE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E P. GIULIO ALBANESE

Sezione
STORIE

Occhiello
REPORTAGE

Sommario
Dall' Algeria allo Zaire, dal Sudan alla Sierra Leone, dalla Somalia al Rwanda... Guerre, torture, massacri. Alla radice, ragioni etniche e religiose. Ma spesso anche gli interessi, non proprio segreti, delle multinazionali.

Didascalia
LIBERIA, TUTTI CONTRO TUTTI Un combattente del Fronte nazionale
patriottico della Liberia (Nplf) spara con un mortaio nel quartiere
diplomatico di Monrovia, nei pressi dell' ambasciata degli Stati
Uniti.
STANNO PER UCCIDERLO
Un appartenente al gruppo etnico Krahn, dopo essere stato denudato,
tenta la fuga: verrà ucciso pochi istanti dopo da uomini dell' Nplf.
E' l' 8 maggio, a Monrovia.
ATROCITA' SENZA FINE Sopra: il corpo di un krahn in una strada di
Monrovia. Gli uomini dell' Nplf, dopo averlo ucciso, gli hanno
tagliato la testa con un machete. Il macabro
trofeo (sotto) è stato poi esposto su un tavolo, sulla linea
del fronte, nel quartiere diplomatico di Mamba Point.

Testo
Il Continente Africa, dopo la fine del colonialismo, non sembra riuscire a trovare pace. I focolai di guerra civile scatenati sia da motivi religiosi che etnici si accendono di continuo. Ecco quali sono, oggi, oltre alla Liberia i dieci Paesi maggiormente interessati dai conflitti interni.
ALGERIA FURORE ISLAMICO Dal 1992, da quando il Fis (Fronte Islamico di Salvezza), che aveva vinto le elezioni legislative nel dicembre 1991, è stato messo fuori legge, in Algeria vige lo stato d' emergenza. Gli integralisti hanno ucciso poliziotti, giornalisti, missionari, funzionari statali, stranieri e giovani studenti, scagliandosi con particolare violenza contro le donne che si rifiutano di indossare l' hidjab, il velo prescritto dalla legge islamica.
Anche la vittoria del presidente Liamine Zeroual alle elezioni di novembre non è servita a migliorare le cose. I civili continuano a vivere tra due fuochi: l' incudine del governo, paladino degli interessi occidentali legati al mondo del petrolio, e il terrorismo filo integralista.
ANGOLA TERRA CONTESA La guerra, che ha visto contrapposte fazioni appoggiate dall' Urss, da Cuba, dagli Stati Uniti, dal Sudafrica, dal 1975 a oggi avrebbe fatto nel Paese più di un milione e mezzo di morti, 70 mila mutilati dalle mine, 1.200.000 sfollati, 300 mila rifugiati. Alla fine del 1990 l' Unita, il partito antigovernativo guidato da Jonas Savimbi, controllava buona parte del territorio nazionale, tanto che l' anno dopo il presidente Dos Santos si è visto costretto a trattare.
Sembrava che si stesse avviando un vero processo di pace, ma le elezioni del 1992 hanno rimesso in discussione tutto. Savimbi ha accusato il presidente di aver gonfiato i risultati a suo favore e si è ricominciato a combattere.
Adesso sembra che il Paese stia tornando alla normalità. Savimbi ha promesso alle Nazioni Unite di disarmare entro il 15 giugno 50 mila dei suoi uomini (600 al giorno), su di un totale di 63 mila. Ma rimane il fatto che l' Angola rappresenta una delle più colossali riserve di materie prime dell' Africa nera. La De Beers, la multinazionale sudafricana che controlla l' 80 per cento del commercio di diamanti, per esempio, ha sempre desiderato poter avere il controllo dell' area diamantifera del Cuango.
BURUNDI TUTSI CONTRO HUTU Come per il vicino Rwanda, ci sono due etnie prevalenti che si fronteggiano da secoli: la minoranza Tutsi da una parte, tradizionalmente arbitra del potere, e la maggioranza Hutu dall' altra, esclusa da sempre dalle leve del comando. Il 21 ottobre 1993 è stato assassinato il presidente Melchior Ndadaye, eletto quattro mesi prima. Da allora si profila sempre più il rischio di una guerra civile. Nelle ultime due settimane si calcola che abbiano perso la vita almeno 2 mila persone, colpite dalle rappresaglie dell' esercito. Gli Hutu, aiutati dallo Zaire, sembra stiano organizzando gruppi antigovernativi. A Bujumbura il commercio più fiorente è quello delle bare.
MOZAMBICO UN PO' DI SPERANZA Dopo sedici anni di guerra civile, un milione di morti e danni per venti miliardi di dollari, in Mozambico è finalmente arrivata la pace. L' accordo di Roma del 4 ottobre 1992, siglato grazie alla mediazione della comunità di Sant' Egidio, ha infatti messo fine al conflitto tra i governativi del Frelimo e gli oppositori della Renamo. L' elezione nel 1994 del presidente Joaquim Chissano sembra aver avviato il Paese verso la democrazia. Il rischio che corre oggi il Mozambico, terra ricca di risorse, è però quello d' essere svenduto alle multinazionali occidentali, favorite dalla politica delle privatizzazioni. Le tensioni sociali restano forti, alimentate dalle pessime condizioni economiche.
RWANDA UN GENOCIDIO Dopo il genocidio del 1994, la situazione è sempre molto critica. Il governo filo Tutsi non sembra affatto intenzionato a realizzare l' integrazione etnica con gli Hutu. I rifugiati continuano a rimanere nei campi dello Zaire e della Tanzania, aspettando che il governo di Kigali si impegni a offrire le garanzie necessarie per un pacifico rientro in patria. Se da una parte è stato istituito un tribunale internazionale per giudicare i crimini commessi dalle Forze armate rwandesi filo Hutu ai tempi del genocidio, dall' altra parte la giustizia ordinaria in Rwanda continua a essere amministrata in modo sommario. Nelle prigioni vivono infatti ammassate in maniera disumana migliaia di persone in attesa del giudizio. Nel vicino Zaire, si trovano anche le basi dei guerriglieri Hutu che hanno giurato guerra al governo di Kigali.
SIERRA LEONE FRAGILE TREGUA La situazione sembra migliorata dopo le elezioni del mese scorso.
La guerra, che ha visto contrapposte le forze governative del presidente Strasser e i ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Fru) di Foday Sankoh, aveva una posta in gioco molto alta: il controllo delle miniere d' oro e di diamanti (la Sierra Leone è il quarto produttore mondiale). I governativi hanno per anni goduto dell' appoggio dell' "Executive outcomes", un' agenzia sudafricana di mercenari nota per i suoi interessi in Namibia e in Angola.
SOMALIA PULIZIA ETNICA Il ritiro dei Caschi blu nel marzo del 1995, dopo due anni d' intervento, ha lasciato il Paese in una situazione disastrosa.
I signori della guerra, Mohamed Farah Aidid, Osman Ato, Ali Madhi, che si combattono dal 1991, dalla caduta del dittatore Siad Barre, sono ancora in armi l' uno contro l' altro.
Mogadiscio, la capitale, è stata spartita, occupata, messa a fuoco e ripulita etnicamente dagli Habr-ghedir e gli Abgal, i due clan rivali della famiglia Hawiye, la più grande della Somalia centrale.
SUDAN 13 ANNI DI SCONTRI La guerra, scoppiata nell' agosto del 1955, con una pausa tra il 1972 e il 1983, ha visto contrapposto il nord di tradizione islamica al sud cristiano-animista. Si calcola che nell' arco degli ultimi tredici anni, abbiano perso la vita circa un milione e mezzo di persone.
Tra gli interessi in ballo, l' enorme bacino petrolifero collocato nelle regioni meridionali del Paese, oltre al fatto che il Sudan rappresenta un indiscutibile trampolino di lancio dell' Islam nell' Africa Equatoriale.
Da un anno e mezzo a questa parte, si registra un coinvolgimento "non dichiarato" nel conflitto dei Paesi limitrofi quali l' Uganda, l' Eritrea e l' Etiopia che appoggerebbero la guerriglia dello Spla (Esercito di Liberazione Popolare del Sudan) contro il governo sudanese di Khartum.
UGANDA GUERRA DI RELIGIONE Nonostante, domenica 12 maggio, il presidente Yoweri Museveni abbia vinto le elezioni, il nord del Paese è in balia del Lord' s Resistance Army (Esercito di Resistenza del Signore), una compagine antigovernativa, che controlla le regioni Acholi e Lango e sembra affianchi l' esercito sudanese nella lotta contro lo Spla (i guerriglieri cristiani del sud del Sudan). In occasione del confronto elettorale delle settimane scorse, il Lord' s Resistance Army ha chiesto al governo di Kampala di introdurre nella costituzione ugandese l' obbligo per tutti i cittadini di rispettare i "Dieci Comandamenti". Il gruppo di ribelli professa infatti una sorta di sincretismo cristiano animista.
ZAIRE MOBUTU PADRONE L' anarchia e il caos regnano sovrani. Da un trentennio il Paese è sotto il tallone del presidente padrone, Mobutu Sese Seko, che non sembra affatto disposto a mollare il potere, tenendo in ostaggio l' intero governo presieduto da Kengo Wa Tondo. Gli ospedali governativi non funzionano, gli insegnanti non ricevono la paga da anni, l' inflazione è alle stelle. Mobutu in compenso, grazie all' appoggio dei Paesi occidentali e delle multinazionali, ha racimolato un patrimonio personale di sei miliardi di dollari.
Possiede in Europa: un lussuosissimo appartamento nell' Avenue Foch a Parigi, una villa a Cap Martin sulla Costa Azzurra; cinque castelli, una tenuta e due residenze in Belgio; una villa di trenta camere a Savigny, presso Losanna; un castello sulla Costa del Sol in Spagna; un palazzo all' Estoril, presso Lisbona.
Senza contare le sue ville imperiali in Zaire, a Bangui e sul viale panoramico di Dakar.




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/05/96

Numero
18

Pagina
76

Titolo
SONO SOPRAVVISSUTO ALLE BOMBE DI ISRAELE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI KARIM DAHER

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA - LIETO FINE / 1

Sommario
Un lampo. Violentissimo. Un razzo stermina la famiglia palestinese di Noujoub. Ma lui si salva. "Epoca" racconta la storia di un prodigio. Fra gli orrori della guerra.

Didascalia
VITTIME INNOCENTI
In alto: all' alba di giovedì 18 aprile gli israeliani attaccano
Nabatyeh nel Libano meridionale. A destra: un razzo colpisce e
distrugge la casa di Noujoub, 19 anni, che rimane imprigionato tra
le macerie. Sopra: altri 9 componenti della famiglia, tra i quali
una bambina di 4 giorni, rimangono uccisi.
TRA LE MACERIE
Sopra e a sinistra: il salvataggio di Noujoub. Con lui è scampato
alla morte anche il fratello Ibrahim di 14 anni.

Testo
Un urlo soffocato sotto una lastra di cemento, una mano che si aggrappava disperata a un grata di ferro: Noujoub era vivo.
Respirava a fatica sotto le macerie della sua casa distrutta, ma era vivo. Sopravvissuto al grande tuono che aveva lacerato l' aria, uno di quei missili "intelligenti" lanciati dagli elicotteri israeliani su Nabatyeh, villaggio-mercato al sud del Libano, il ragazzo, 19 anni, muoveva gli occhi come biglie impazzite. Sono riusciti a salvarlo, assieme al fratello Ibrahim, 14 anni, tirandolo fuori, tra i calcinacci fumosi e insanguinati della sua abitazione. Ma gli altri della famiglia, 9 persone in tutto, tra cui una bambina di quattro giorni, erano già morti.
Era l' alba di giovedì 18 aprile, il giorno più tragico di questa nuova guerra israelo-libanese, le 6 e 50 del mattino, dicono i rapporti ufficiali, quando gli elicotteri di Shimon Peres hanno volato basso su Nabatyeh, distruggendo la casa di Noujoub e sterminando i suoi parenti.
Ma il peggio doveva ancora venire: qualche ora dopo, all' una e un quarto, gli obici dell' esercito d' Israele avrebbero lanciato proiettili da 155 millimetri sulla città di Cana, a sud di Tiro, proprio dove avevano base i Caschi blu delle isole Fiji, ammazzando 102 civili libanesi, tutti profughi che avevano cercato riparo presso le forze dell' Onu.
"Un tragico errore", l' ha definito il primo ministro israeliano Shimon Peres. Un errore, oltre che tragico, duro da digerire per lo stesso Stato d' Israele che con la guerra sperava di annientare in Libano le postazioni sciite degli hezbollah, e si è ritrovato invece isolato dai suoi alleati arabi, pressato dalla diplomazia occidentale, oberato da un bilancio di sangue di fronte al quale non ci sono giustificazioni che tengano.
A Nabatyeh, la mattina del 18 aprile, uno dei soccorritori aveva solo la forza di gridare: "Allah u akhabar, Allah u akhabar". Dio è grande. Tra le braccia teneva un involto, il cadaverino straziato della bambina di appena quattro giorni. L' uomo piangeva, si disperava, mentre il silenzio irreale della catastrofe e una paura pesante come afa avvolgevano le montagna alle spalle del villagio, le case abbandonate, le strade deserte. In quella povera famiglia sterminata, l' unica a non avere voluto lasciare Nabatyeh, credendo che la propria casa fosse un rifugio sicuro, sono morti tre ragazzi, uno di 8, uno di 11, uno di 13 anni, la madre Fawzié, 40 anni, un cugino, una coppia di vicini e una neonata. Oltre a Noujoub e Ibrahim si è salvato il padre Hassan Abed Alayan, partito in pellegrinaggio per la Mecca.
Shimon Peres ha cercato di giustificare i massacri del 18 aprile: "A Cana c' era una nostra unità che doveva impedire il lancio dei katiuscia degli hezbollah contro Israele", ha rivelato cinque giorni dopo. "I soldati si sentivano in pericolo e si è così deciso di reagire. Nessuno pensava che sul luogo ci fossero centinaia di profughi. Questo è chiaro. Mi assumo tutta la responsabilità". Ma per Nabatyeh? Anche qui Israele dichiara di aver bombardato per rispondere al tiro degli hezbollah, appostati a 300 metri del villaggio. Eppure... Nel villaggio, ancora sotto il mirino dei cannoni della Sla, la milizia alleata d' Israele, non è rimasto che l' eco di quel grido: "Allah u akhabar". Contro i troppi sbagli della guerra "intelligente".
(foto dell' agenzia Olympia Gamma)



Testata
Epoca

Data pubbl.
25/02/96

Numero
8

Pagina
100

Titolo
NOI, "BENZINAI" NEL CIELO DELLA BOSNIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
STORIE DI PACE

Sommario
Vivono a 12 mila metri. Su enormi aerei cisterna. Per rifornire in volo (decollando dall' Italia) i caccia Nato di pattuglia sull' ex Iugoslavia. "Epoca" è salita a bordo. E vi racconta una missione segreta con poca gloria ma molti rischi.

Didascalia
A bordo del KC-10A Extender americano: l' operatore Mike Cahill
controlla da una vetrata l' avvicinamento di un caccia F-15 Usa che
deve fare il "pieno".
Nella foto grande: il rifornimento di un F-18 americano, con una
sonda chiamata "drag" che deve agganciare l' attrezzo visibile sulla
carlinga del caccia. A destra: il pilota dell' aereo cisterna,
Thomas McBroom. Sotto: l' equipaggio; da sinistra, Gary Gems,
ingegnere di volo, McBroom, Cahill e il copilota Chris Zarnik.

Testo
Alle 10,30 del mattino, il mastodontico KC-10A Extender dell' Air Force americana, un aereo cisterna con il ventre zeppo di 200 mila litri di carburante, punta verso le coste croate il suo muso nerastro da squalo dei cieli. "Ci siamo", dice il copilota, Chris Zarnik, 30 anni, americano di origini polacche, capitano del 2nd Refueling Squadron (la Seconda squadra di rifornimento aereo), segnando con l' indice i geroglifici riportati sulla mappa aeronautica. "E' questo il limite fino a cui ci possiamo spingere: 50 chilometri dalla costa".
Gli aerei cisterna a disposizione della Nato, i "tanker" che ogni giorno decollano dagli aeroporti italiani verso l' Adriatico per rifornire in volo i cacciabombardieri impegnati in Bosnia a vigilare sul rispetto degli accordi di Dayton, non possono andar oltre. Il regolamento vuole che restino ai margini della "war zone", i territori di guerra della ex Iugoslavia: "Anche se questa dell' Ifor è un' operazione di pace", spiega il capitano, "non possiamo correre rischi. Su un aereo come il nostro basterebbe un niente per saltare in aria". La Croazia si intravede tra le nuvole, sulla sinistra, di fronte, sulla destra, mentre il KC-10A con la sua mole da Boeing comincia a disegnare spirali sul merletto di arcipelaghi che ornano le acque dell' Adriatico.
Contro Saddam. E' l' ultima missione del "tanker": 12 mila metri di quota e una velocità di 900 chilometri orari. Da qui a un paio di giorni, il KC-10A partito dall' aeroporto civile di Genova verrà rispedito nel New Jersey, in una delle due basi americane (la seconda è in California) che ospitano questo tipo di aereo. Ma rimarranno in Italia, a Pratica di Mare, Aviano, Palermo e Pisa, una quindicina di altre "cisterne volanti", prestate all' Implementation Force della Nato da Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna.
Al "ci siamo" del copilota, il sergente Mike Cahill, 32 anni, nato in Colorado, vissuto un po' dappertutto, diventato "benzinaio dei cieli" dopo un addestramento di sei mesi nel New Jersey, si dirige veloce verso la coda dell' aereo: "Entriamo in fase operativa". Il KC-10A, quattro uomini di equipaggio, ospita per tre quarti della sua lunghezza una fila di cisterne nascoste sotto il pavimento. Il suo carico di carburante è sufficiente a percorrere 18 mila e 400 chilometri. Una distanza pari a quella tra gli Stati Uniti e l' Arabia Saudita, dove è stato impiegato nel ' 91, durante la Guerra del Golfo, per rifornire i Phantom che si avventuravano sul Kuwait a lanciare i loro razzi sulle batterie e i radar delle truppe di Saddam.
Il sergente Cahill, che i tempi del Golfo li ricorda bene ("Quanti problemi con il rifornimento dei B-52..."), solleva una botola e si cala per la piccola rampa di scale, dentro una minuscola saletta ricavata sotto la coda dell' aereo. Davanti al posto di comando si apre una vetrata larga un paio di metri, affiancata da uno specchio e da una seconda finestra che si spalanca sul vuoto tra le gambe dell' operatore.
Cahill impugna una manopola. Dalla sinistra della coda viene fuori un tubo nero con una ventosa filigranata a forma di fiore, come uno di quegli organismi marini ingranditi al microscopio che si vedono sui manuali di biologia. E' il "drag", una delle due sonde che servono al rifornimento. L' altra, il "boom", è invece un braccio di metallo di 5 metri, con un' anima in fibra di carbonio che si allunga fluorescente tra le nuvole.
Cahill, manuale alla mano, sussurra qualcosa via radio: "Con i caccia dobbiamo sempre regolare la nostra andatura. Se arrivano troppo velocemente c' è pericolo di collisione". Non passa molto tempo. La sagoma di un Tornado tedesco appare capovolta a pancia in giù tra le sue gambe e subito davanti, oltre la finestra che fronteggia il posto di comando. Cahill la fissa dietro gli occhiali di metallo.
Il Tornado è sempre più vicino, come un enorme calabrone, con il muso puntato verso il vetro e il suo carico di missili Harm sotto le ali. E' uno degli aerei impiegati con la "Deny Flight", lo spiegamento per il rispetto dell' embargo aereo sull' ex Iugoslavia, e che avevano poi, durante l' operazione "Deliberate Force", bombardato le postazioni radar dei serbi.
"E' a una decina di metri da noi", sussurra il sergente, mentre manovra i movimenti del "drag". La sonda ondeggia. Cerca di catturare la grossa tenaglia che sta a destra della cabina di pilotaggio del Tornado. Ma l' operazione non riesce. Il caccia si avvicina ancora. Un riverbero illumina l' interno: il viso del pilota è nascosto dalla maschera a ossigeno e dal casco. Finalmente si aggancia. Cinque, sei, sette minuti e il "pieno" è completato.
Il pilota alza il pollice. "Ok, è fatta", sospira sollevato il sergente. "Il rifornimento in volo è sempre un' operazione delicata: dipende dalla bravura dell' operatore, da quella del pilota del caccia e dalle condizioni atmosferiche. Questa per fortuna è una missione di pace: se il tempo non è buono annulliamo tutto. Altra cosa il Golfo, quando si trattava comunque di bombardare...". Altra cosa anche di notte, con i rifornimenti fatti al buio.
Croissant e Coca-Cola. Si ritorna nella cabina di pilotaggio. "Il cielo sopra l' Adriatico è molto affollato", commenta il pilota, il capitano Thomas McBroom, 28 anni, faccia da vero yankee, dura e scolpita dai capelli rasati sulla nuca. Altre "cisterne" tagliano le nubi a poca distanza dal nostro aereo, mentre cinque o sei Tornado attendono in coda il loro turno per riprendere la rotta verso la Bosnia. Controllori di una pace tutt' altro che certa, gli aerei della Nato incombono in assetto da guerra, pronti a sganciare il carico di morte se qualcuno dovesse violare gli accordi firmati a Dayton.
"Il prossimo è uno dei migliori cacciabombardieri che abbiamo, un F-15E", annuncia il quarto uomo dell' equipaggio, l' ingegnere di volo, il tenente Gary Gems, 35 anni. "Non c' è niente di così avanzato dal punto di vista tecnologico". La lista che il tenente Gems tiene in mano prevede una decina di operazioni, anche se il "tanker" ha carburante necessario per una trentina di rifornimenti.
L' arrivo dell' F-15E americano offre l' occasione di vedere stavolta in azione il "boom" che si erge tentando di centrare il serbatoio, una fessura quadrata proprio sul dorso del caccia. Il rifornimento sembra più difficile del precedente. Uno schizzo di carburante si allarga sulla calotta dell' aereo. Ma poi il "boom" riesce ad agganciare l' aereo. Il pilota fa un saluto. Il viso è scoperto, si vede l' azzurro chiaro degli occhi.
Sono le due del pomeriggio. Il capitano Zarnik si riscalda un croissant. Gli altri trangugiano Coca Cola "light", mentre il pilota McBroom calcola altre tre ore di lavoro a ritmo serrato. Quasi subito infatti arrivano gli F-18 americani con gli AIM 120 e gli AIM 9, i missili aria-aria e le bombe a guida laser, gli F-16 turchi, ancora i Tornado e infine i Mirage 2000, i caccia francesi. Ce ne sono quattro in fila attorno al "tanker". Il sergente Cahill annota ogni litro di carburante erogato. "Finito", sorride. Si ritorna a Genova, lontano dalle incognite di guerra e di pace dell' ex Iugoslavia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/02/96

Numero
7

Pagina
8

Titolo
L' ITALIA SEGRETA CHE COMBATTE IN BOSNIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E GIANANDREA GAIANI Illustrazioni di Sergio Ardiani schede di Gianandrea Gaiani

Sezione
STORIE

Sommario
Non li vediamo, ma vivono a fianco a noi. Hanno armi potentissime. E sono pronti a scattare 24 ore su 24. I soldati Nato difendono la pace a Sarajevo anche dal nostro Paese. Volete capire dove sono e che cosa fanno? Seguiteci in questo giro tra le basi militari italiane. A cominciare da una che ha dell' incredibile. Quella di Vicenza.

Didascalia
L' OCCHIO DELLA NATO La sala comando del Centro per le operazioni
aeree di Vicenza, l' occhio elettronico dello spionaggio della Nato
in Bosnia.
L' ITALIANO VOLANTE Il generale Andrea Fornasiero, 59 anni,
comandante della forza aerea tattica della Nato.
IL NUMERO DUE Il generale Duilio Mambrini, 63 anni, braccio destro
dell' ammiraglio americano Leighton Smith.
FRONTE OCCIDENTALE Il generale Biagio Rizzo, 62 anni, già capo del
comando delle forze di terra del Sud Europa.
La dislocazione delle basi aeree in territorio italiano utilizzate
anche dalle Forze Nato impegnate in Bosnia.
Tornado
F 16 Falcon
G 222
A 10 Thunderbolt II
Tornado Adv
Mirage 2000
Jaguar
Amx
7 / A -18 Hornet
AV 8B Harrier / GR7
Breguet Atlantic
Lockheed C 130H
F 15 Eagle
Fregata classe Lupo
Fregate classe Maestrale
Navi per operazioni anfibie classe San Giorgio
Cacciamine classe Lerici
Trasporto costiero classe Gorgona
Blindato Fiat 6614
Blindato Centauro
Veicolo cingolato da combattimento VCC
Fucile Beretta 70 / 90
Mitragliatrice di squadra MG 42 / 59
Carroarmato Leopard I A5
Semovente cingolato M 109 L
Mitragliatrice pesante M 2 Browning.
Mortaio 120 mm.

Testo
"Vedete? Le luci verdi sono i segnali degli Awacs che stanno sorvolando la zona di Sarajevo. I puntini bianchi indicano invece la posizione delle truppe serbo bosniache. Sì, qui da Vicenza non c' è movimento di uomini, di armi, di aerei che i nostri radar non siano in grado di segnalare all' istante". Il generale Andrea Fornasiero, comandante della V Ataf, la forza aerea "tattica" della Nato, con base all' aeroporto militare di Vicenza, fa appena in tempo a indicare uno dei grandi schermi con la mappa della ex Iugoslavia, che il video si oscura all' improvviso. I militari impegnati ai computer hanno notato la presenza di due estranei all' interno del Caoc, centro per le operazione aeree, una specie di occhio elettronico dello spionaggio Nato aperto a 360 gradi sulla Bosnia, e hanno fatto scattare le misure di sicurezza. Il generale abbassa la voce e fa notare alcuni monitor rimasti accesi. "Ecco, a sinistra, i movimenti del Predator, l' areo senza pilota: fotografa tutto quello che accade a terra. A destra, invece, lo schieramento delle truppe Ifor così come viene spiato dai sensori "nemici". Sì, siamo anche in grado di controllare chi ci controlla. E sempre da qui, dall' Italia".
L' Italia. Nella missione Ifor per la ex Iugoslavia, non ci sono solo i 2 mila e 600 bersaglieri della brigata Garibaldi spediti sul fronte di Sarajevo. Ma centrali operative come questa del Caoc di Vicenza, una catena di comandi militari, più 20 aeroporti, 9 basi navali, 14 caserme. Tutti messi a disposizione dal nostro governo per un' operazione di pace che parte con il suono e il portento di una macchina da guerra.
Dalla pista di Aviano - dove rombano i reattori degli F-16 pronti a decollare verso i cieli della Bosnia - al porto di Ancona - dove le sirene dei cacciamine annunciano l' ennesimo pattugliamento in Adriatico - alla base di Bagnoli - dove gli alti ufficiali Nato si avvicendano al tavolo delle riunioni per studiare scenari e strategie - l' Italia, ex avamposto dell' Alleanza Atlantica nel Mediterraneo durante gli anni della cortina di ferro, si è trasformata adesso nel quartiere generale delle forze impegnate in Bosnia. Una specie di "portaerei" della Nato, per una missione che stavolta coinvolge anche gli ex Paesi, ex nemici, del patto di Varsavia. La ex Iugoslavia è vicina, a venti minuti di aereo da una base come quella di Aviano e a qualche ora di mare da un porto come quello di Ancona. L' Italia può essere quindi un' ottima base di transito. Almeno per materiale e truppe dei contingenti europei, visto che gli Stati Uniti hanno scelto l' Ungheria. Ma le ragioni dell' impegno sono anche altre. In Italia, a Bagnoli, si trova il comando delle forze alleate del Sud Europa. Dall' Italia erano già partiti gli aerei radar che per tre anni hanno controllato i cieli della ex Iugoslavia, i caccia che hanno bombardato le postazioni serbe, le corvette di pattuglia sull' Adriatico che dovevano far rispettare l' embargo di cibo e di armi: mezzi, armi, uomini pronti anche stavolta a far da supporto all' Implementation Force della Nato.
Sugli schermi della sala operativa del Caoc (sigla che sta per "Combineted air operations center"), il grande fratello che vigila sulla ex Iugoslavia non lascia un solo metro quadrato di terreno incontrollato. Gli aerei radar raccolgono dati in volo, li sintetizzano e li trasmetteno a Vicenza, da dove le informazioni vengono poi diramate tanto ai comandi Ifor della ex Iugoslavia, quanto alle navi che pattugliano l' Adriatico.
L' intelligence Nato usa strumenti come l' aereo E-8 Joint Star, un boeing 707 di fabbricazione americana, impegnato per la prima volta il 29 gennaio 1991, nella guerra del Golfo per sorvegliare le truppe irachene nella battaglia di Al Khafj in Arabia Saudita. Dotato di radar e computer, l' aereo riesce a localizzare qualsiasi bersaglio in movimento e quindi a trasmettere i dati a "camionette" blindate che funzionano da stazioni di terra.
Una di queste si intravede fuori dal prefabbricato bianco che ospita la sala operativa del Caoc di Vicenza, dietro una serie di container sormontati da antenne, protetti da filo spinato. "Terreno off-limits, il regno dell' intelligence americana", spiega il generale Fornasiero, 59 anni, occhi verdi, il viso abbronzato, che è accompagnato da un cane lupo di una quarantina di chili.
Intelligence, o meglio servizi segreti, che lavorano sì all' interno del Caoc, ma in completa autonomia, gelosissimi delle proprie informazioni. I dati riservati rimangono infatti tali anche nei confronti degli ufficiali delle altre nazioni. Poco più in là una fila di capannoni protegge le attrezzature francesi. "Quanto personale Nato lavora a Vicenza? Fatemi fare i conti..." Il generale Fornasiero tira una boccata dal sigaro: "In tempi normali 300 persone. Adesso siamo mille e duecento".
Anche se la V Ataf di Vicenza dipende dal comando aereo delle forze alleate del sud Europa che si trova a Napoli, il controllo delle operazioni aeree parte tutto dalla città veneta. "Da qui abbiamo guidato i caccia sulle postazioni serbe durante l' operazione Deliberate Force", dice il generale Fornasiero, "E da qui continuiamo a coordinare le attività di tutte le basi aeree interessate alla missione di pace".
In tutto venti aeroporti, con un totale di 358 aerei di cui 90 da trasporto: da quello di Aviano, gestito completamente dagli americani, a quello di Gioia del Colle, dove si trova schierato il più importante reparto italiano coinvolto in Bosnia: il 36° Stormo, una trentina di Tornado che hanno dato il cambio a quelli di Ghedi, impegnati la scorsa estate nelle incursioni sull' area di Goradze. O come l' aeroporto di Brindisi. Ex base logistica delle Nazioni Unite per le operazioni in Somalia e in Mozambico, messi alla porta i 100 addetti assunti dall' Onu qualche mese fa, predisposto oggi a ospitare, oltre agli Hercules e agli Spectre statunitensi, anche sei aerei tedeschi.
"Abbiamo una media di 170, 180 missioni al giorno, che servono a controllare la situazione, ma anche a proteggere le truppe dell' Ifor". Eventualmente a intervenire? "Se i serbi, i croati o i musulmani non dovessere rispettare gli accordi... L' ordine deve comunque arrivare dall' ammiraglio Leighton Smith, capo dell' Ifor".
L' ammiraglio Smith, comandante delle forze alleate del Sud Europa, che normalmente lavora a Napoli, è spesso a Sarajevo. Ma il suo vice, il generale Duilio Mambrini dalla base Afsouth di Bagnoli coordina programmi e strategie. Se Vicenza è il Grande occhio dell' Ifor, Bagnoli può essere considerata il cervello della missione. Costruita su due livelli (uno visibile, fatto di palazzine e vialetti che si inerpicano su una collina, l' altro sotterraneo, nascosto in bunker e tunnel antiatomici), la base ospita forze di Stati Uniti, Gran Bretagna, Grecia, Turchia e Italia. E' qui che si sono avviate in nome della "partnership for peace" (l' associazione per la pace) le prime esercitazioni con i Paesi dell' ex Patto di Varsavia, come la Romania e la Bulgaria. "Ed è da qui che coordiniamo la parte logistica dell' Ifor, i supporti via terra, aria, cielo che l' Italia offre alle forze in Bosnia", spiega il generale Mambrini.
Nato a Trieste, figlio del generale Renzo, che fu capo dello staff del viceré italiano dell' impero d' Africa durante la seconda guerra mondiale, Mambrini, 63 anni, passò l' infanzia ad Addis Abeba e poi in un campo di concentramento inglese. Adesso è quello che in termini militari si definisce l' "interfaccia" di Smith. Sta in collegamento costante con il comandante americano, che ha raggiunto più di una volta nella capitale bosniaca. "Ho girato parecchio a Sarajevo", racconta, "sia per controllare la situazione delle mine sia per dare un occhio ai militari italiani e ai loro alloggi. La città è ridotta a uno scheletro... Mi ha fatto pensare a Berlino nel dopoguerra". Il generale che possiede molto "savoir faire", ama definirsi "un operativo".
Da Napoli si coordinano anche le attività di mare dell' Ifor.
Navsouth, il comando delle forze navali del Sud Europa, ha il suo quartiere generale a Nisida, sulla stessa baia sulla quale si affacciano gli stabilimenti chiusi dell' Italsider. Il capo è l' ammiraglio Mario Angeli, 62 anni, ex addetto militare in Venezuela e in Ecuador, ex sottocapo di Stato maggiore della Marina, impegnato nel Golfo Persico, in Albania, in Somalia e in Mozambico, con una discreta esperienza anche sulla ex Iugoslavia. Per tre anni e mezzo ha guidato infatti la Sharp Guard, il pattugliamento dell' Adriatico per far rispettare l' embargo. Oggi, alleggerite le sanzioni a Serbia e Montenegro, l' ammiraglio mantiene una flotta nel canale di Otranto "pronta a riprendere il vecchio assetto in 5 giorni, se i serbi dovessero violare gli accordi". Ma soprattutto coordina i pattugliamenti antimine: 5 navi italiane e 2 greche che fanno scalo in alcuni dei 9 porti messi a disposizione dall' Italia, come quello di Ancona nelle Marche, di Grottaglie in Puglia, di Messina e di Augusta in Sicilia.
Se a terra le mine rappresentano la trappola numero uno per le forze dell' Ifor, in mare sembra andar meglio: "Ci sono tratti di costa che sono stati dichiarati minati dalle fazioni in guerra, ma per motivi tattici. I porti che pattugliamo noi, come quelli di Spalato e di Ploce, sono scali commerciali molto frequentati anche durante il conflitto...". In altre parole, niente mine nell' Adriatico? L' ammiraglio non risponde. Parla più volentieri del viavai di navi in Adriatico, comprese le portaerei e i mezzi anfibi che fanno capo a Striksouth, altro comando navale Nato alle dipendenze dell' ammiraglio statunitense Ronald Pilling. "Le mie navi servono a pattugliare, quelle di Pilling trasportano aerei e personale pronto a sbarcare a terra se ce ne dovesse essere bisogno. Hanno funzione di dissuasione". Dissuasione e difesa? Anche in mare valgono le stesse regole dell' esercito: "Possiamo sparare, certamente. Nel mio caso non devo aspettare ordini da nessuno. In acqua, il massimo livello di comando è il mio".
Forze navali in Adriatico, aerei schierati sulla sponda italiana. E per terra? Mentre a Sarajevo i bersaglieri della Garibaldi affondano nella neve, lamentano il mancato arrivo delle tute in Goretex, e se ne stanno accampati alla meno peggio in edifici senza porte, senza finestre, in Italia il nostro governo ha attrezzato di tutto punto 14 caserme del Friuli Venezia-Giulia. Si tratta di edifici che erano stati costruiti negli anni della guerra fredda per difendere la "soglia di Gorizia", e che rischiavano di essere smantellati. La missione Ifor ha offerto l' occasione di ristrutturarli e riadattarli per le truppe Ifor di passaggio.
Anche in questo caso il coordinamento è di una struttura Nato: Landsouth di Verona, il comando delle forze di terra del Sud Europa.
"E' da parecchio tempo che lavoriamo sulla Bosnia", spiega a Epoca, il generale Biagio Rizzo, 62 anni, che il 2 febbraio ha lasciato l' incarico, assunto dal generale Cesare Pucci. "A cominciare da quando si parlava di un intervento Nato per evacuare le truppe delle Nazioni Unite. Quell' ipotesi è caduta, ma le caserme devono essere pronte a ospitare le truppe in transito. Verrà il momento infatti in cui gli aeroporti di Tuzla e Sarajevo cominceranno a congestionarsi.
Per adesso, si parla di "attesa vigilante". Finora infatti, solo un convoglio è apparso all' orizzonte, il 18 gennaio, con Land Rover e autocarri dell' Ifor. Si è fermato una notte, ma in una caserma non compresa tra le quattordici predisposte: alla Brunner, di Villa Opicina, sulla frontiera con la Slovenia. Benvenuti sul fronte occidentale.
LE BASI ECCO IN QUALI AEROPORTI SONO IN AGGUATO GLI UOMINI NATO I turchi a Brescia. Gli spagnoli ad Aviano. Gli olandesi a Verona.
E poi... Mappa degli avieri (e dei velivoli) dislocati in Italia.
A supporto delle operazioni in Bosnia sono stati attivati 20 aeroporti militari e civili. Nelle schede sono evidenziati sia i reparti della Aeronautica Militare italiana che hanno sede nei diversi aeroporti sia le forze italiane e alleate assegnate alla Ifor Air Component.
Aviano (Pordenone) Militari: circa 4.000 statunitensi e 250 spagnoli.
Velivoli: 8 cacciabombardieri F15E Usa, 12 cacciabombardieri F16C / D Usa, 12 aerei da attacco A10 Usa, 12 cacciabombardieri F18 dell' Aviazione dei Marines Usa, 4 posti comando volanti EC 130 Usa, 6 aerei da guerra elettronica Bac Plowler dei Marines Usa, 8 cacciabombardieri EF18 e 2 cisterne volanti KC 130 dell' Aeronautica Spagnola, 2 aerei radar E 3B dell' Aeronautica Britannica.
Sistemi difensivi: batterie di missili terra-aria Ghedi (Brescia) - 6° Stormo cacciabombardieri Ami Militari: 1.600 italiani inclusi piloti e specialisti e 250 turchi.
Velivoli: 30 Tornado di cui 2 da ricognizione assegnati alla Nato.
Forze Nato: 8 caccia F16C turchi (più altri 10 mobilitabili).
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Istrana (Treviso) - 51° Stormo Cacciabombardieri Militari: 1.400 italiani più 350 francesi.
Velivoli: 12 aerei da attacco AMX di cui 6 assegnati al Comando Nato.
Forze Nato: 5 Mirage F1 da ricognizione; 3 Mirage F1 da caccia; 6 Jaguar da attacco al suolo (più 2 mobilitabili).
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Piacenza S. Damiano - 50° Stormo Cacciabombardieri Militari: 1.200 italiani più 600 tedeschi.
Velivoli: 15 Tornado; Forze Nato: 14 Tornado tedeschi da ricognizione, bombardamento e guerra elettronica.
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Rimini - Miramare - Squadriglia elisoccorso del 15° Stormo Militari: 150 italiani più alcuni olandesi.
Velivoli: 3 elicotteri da ricerca e soccorso HH 3.
Forze Nato: 3 aerei da trasporto C130 dell' Aeronautica Norvegese; 1 aereo da trasporto C130 dell' Aeronautica Olandese; 2 aerei da trasporto Fokker 27 dell' Aeronautica Olandese.
Sistemi difensivi: batterie di missili antiaerei Spada.
Cervia - 5° Stormo cacciabombardieri Militari: 1.200 italiani più 400 francesi.
Velivoli: 18 F 104 Asa da intercettazione.
Forze Nato 4 Mirage 2000 K / D da bombardamento francesi più 3 mobilitabili; 3 Mirage 2000C da caccia più 3 mobilitabili; Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Verona-Villafranca - 3° Stormo cacciabombardieri ricognitori Militari: 1.300 italiani più 500 olandesi; Velivoli: 12 AMX da attacco al suolo e ricognizione; Forze Nato:12 F 16 olandesi multiruolo e da ricognizione più 6 mobilitabili.
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada; batterie di missili terra-aria Patriot olandesi.
Rivolto - 2° Stormo cacciabombardieri Militari: 1.400 italiani inclusi piloti e specialisti.
Velivoli:12 Amx da attacco al suolo di cui 6 assegnati alla Nato alternati con gli Amx del 51° Stormo di Istrana.
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Treviso - Base militare priva di stormi da combattimento Militari: alcune centinaia Velivoli: nessuno assegnato; base utilizzabile per rischieramenti.
Forze Nato: nessuna assegnata ma possibile impiego per scalo aerei da trasporto per rischieramenti in caso d' emergenza.
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Vicenza - Scalo logistico e di collegamento del Comando Aereo Nato Militari: alcune centinaia.
Velivoli: nessuno assegnato stabilmente alla base.
Forze Nato: 1 Casa 212 da trasporto dell' Aeronautica Spagnola.
Napoli Capodichino - Squadriglia elisoccorso del 15° Stormo Militari: alcune centinaia inclusi forze Nato.
Velivoli: 4 elicotteri da ricerca e soccorso HH3.
Forze Nato: 1 aereo da trasporto Mystere Falcon 20 francese più altri velivoli da trasporto e collegamento al servizio del Comando Forze Alleate del Sud Europa di Bagnoli.
Ronchi dei Legionari - Trieste Aeroporto civile Impiegato dai velivoli cargo americani per sbarcare uomini e materiali destinati alla Task Force Eagle schierata a Tuzla.
Gioia del Colle - 36° Stormo cacciabombardieri Militari: 1.600 italiani più 500 britannici.
Velivoli: 30 Tornado da bombardamento 6 dei quali assegnati al Comando Nato e 4 Tornado Adv da caccia armati con missili aria-aria.
Forze Nato: 6 Tornado Adv da caccia dell' Aeronautica Britannica, 12 cacciabombardieri e ricognitori Harrier Britannici; Sistemi difensivi: batterie di missili antiaerei Spada.
Palermo - Aeroporto civile Base di 2 aerocisterne L 1011 britanniche impiegate per il rifornimento in volo degli aerei inglesi basati a Gioia del Colle.
Trapani Birgi - 37° Stormo intercettori Militari: 1.600 uomini incluso personale Nato.
Velivoli: 20 caccia intercettori F104 Asa.
Forze Nato: 8 aerei radar Awacs basati, a rotazione, anche in Grecia e Germania.
Sistemi difensivi: batterie di missili antiaerei Spada.
Brindisi - Base logistica e sede di squadriglia di elisoccorso del 15° Stormo Militari: alcune centinaia.
Velivoli: 4 elicotteri da ricerca e soccorso HH 3F.
Forze Nato: 2 cannoniere volanti AC130 Usa, 2 aerei da ricerca e soccorso HC130F Usa, 8 elicotteri da ricerca e soccorso MH 53J Sea Stallfon Usa, 3 elicotteri da attacco UH 60 statunitensi, 3 elicotteri da ricerca e soccorso Puma francesi.
Sistemi difensivi: batterie di missili antiaerei Spada.
Genova - Aeroporto civile Militari: personale dell' Aeronautica Usa.
Forze Nato: 5 cisterne volanti KC 10 Extender dell' Aeronautica Usa.
Pisa - 46a Aerobrigata da trasporto Militari: 2.000 italiani più personale Usa.
Velivoli:10 C 130 e 32 G 222 da trasporto di cui 1 C 130 e 4 G 222 posti sotto il Comando Nato.
Forze Nato: 10 cisterne volanti Kc 135 basate, a rotazione, anche in Francia.
Sistemi difensivi: batterie di missili contraerei Spada.
Sigonella - 41° Stormo antisommergibile Militari: 1.200 italiani più alcune centinaia di militari Usa e Nato.
Velivoli: 9 pattugliatori marittimi Atlantic, due dei quali assegnati al Comando Nato; Forze Nato: pattugliatori marittimi P3 Orion americani, portoghesi, spagnoli e olandesi, Atlantic tedeschi e francesi; Nimrod britannici schierati a rotazione sulla base.
Sistemi difensivi: missili contraerei Usa.
Cagliari Elmas - 30° Stormo antisommergibili Militari: 1.200 italiani più personale Nato.
Velivoli: 9 pattugliatori marittimi Atlantic dei quali 2 assegnati al Comando Nato a rotazione con il 41° Stormo di Sigonella.
Forze Nato: pattugliatori marittimi P3 Orion Usa, portoghesi, spagnoli e olandesi, Atlantic tedeschi e francesi, Nimrod britannici schierati a rotazione.
Le basi di Amendola, Grosseto e Grazzanise non ospitano velivoli nazionali o Nato coinvolti nelle operazioni in Bosnia, ma sono disponibili in caso di necessità. Il personale dell' Aeronautica posto sotto il Comando Nato ammonta a 650 uomini, inclusi piloti e specialisti.
GLI AEREI CACCIA PRONTI A COLPIRE A VELOCITA' DOPPIA DI QUELLA DEL SUONO Tornado, Falcon, Mirage: macchine straordinarie che utilizzano la più moderna tecnologia elettronica unita a una devastante potenza di fuoco.
Lo schieramento aereo messo in campo per la Bosnia dalla forza multinazionale Nato, è pronto a far fronte a qualunque evenienza di qualsiasi tipo, grazie alla varietà dei velivoli schierati, sia nelle basi a terra sia sulle portaerei in navigazione nell' Adriatico. L' "ombrello" è totale e consente di controllare minuto per minuto le attività delle forze "nemiche". In caso di necessità un attacco contro postazioni avversarie può essere ordinato nel giro di pochi secondi e l' obiettivo può essere colpito e annientato nell' arco di pochissimi minuti.
Tornado Cacciabombardiere per attacchi in profondità-biposto.
Velocità massima oltre Mach 2 (2.300 km / h). Armamento: 2 missili aria-aria Aim 9L Sidewinder, 2 cannoni da 27 mm e 9.000 kg di bombe di vario tipo e peso.
Raggio d' azione: 1.400 km aumentabili con rifornimento in volo.
F 16 Falcon Cacciabombardiere multiruolo monoposto. Velocità massima: 2.400 km / h. Armamento: 1 cannone da 20 mm, 6 missili aria-aria Aim 9L Sidewinder e bombe di vario tipo e peso fino a 5.400 kg di carico.
Raggio d' azione: tra i 1.000 e i 2.000 km a seconda del carico bellico imbarcato, aumentabile con rifornimento in volo.
G 222 Aereo da trasporto a medio / corto raggio, bimotore.
Velocità massima: 340 km / h. Autonomia: massimo 3.000 km.
Capacità di carico: 10 tonnellate.
A 10 Thunderbolt II Aereo da attacco al suolo monoposto.
Velocità massima: 700 km / h. Armamento: 1 cannone a canne rotanti Gatling da 30 mm, 7.200 kg di bombe e missili di vario tipo.
Raggio d' azione: 500 km aumentabili, con serbatoi supplementari.
Tornado Adv Caccia da superiorità aerea biposto.
Velocità massima: Mach 2,2 (2.300 km / h).
Armamento: 1 cannone da 27 mm, 4 missili aria-aria Skyflash e 2 Sidewinder.
Raggio d' azione: 750 km, aumentabili con il rifornimento in volo.
Mirage 2000 Cacciabombardiere multiruolo monoposto.
Velocità massima: Mach 2,35 (2.500 km / h). Armamento: 2 cannoni da 30 mm e 5.800 kg di bombe, missili e razzi inclusi 4 missili aria-aria Matra 550 / 55. Raggio d' azione: 700 km senza rifornimento in volo.
Jaguar Monoposto da attacco al suolo.
Velocità massima: Mach 1,6 (1.700 km / h). Armamento: 2 cannoni da 30 mm e 4.500 kg di bombe e razzi di vario tipo.
Raggio d' azione: massimo 1.100 km aumentabili con rifornimento in volo.
Amx Aereo da attacco al suolo monoposto.
Velocità massima: 1.000 km / h.
Armamento: 1 cannone da 20 mm e 3.500 kg di carico bellico, inclusi 2 missili aria-aria Sidewinder, bombe e razzi. Raggio d' azione: tra i 500 e i 1.300 km a seconda del carico bellico imbarcato.
7 / A -18 Hornet Monoposto, cacciabombardiere multiruolo.
Velocità massima: Mach 1,8 (2.000 km / h).
Armamento: 1 cannone da 20 mm. e 7.000 kg. di carico bellico, inclusi missili aria-aria Sidewinder e Advanced Sparrow, bombe e razzi.
AV 8B Harrier / GR7 Cacciabombardiere monoposto a decollo verticale Velocità massima: 1.075 km / h.
Armamento: 1 / 2 cannoni da 25 mm e 4.100 kg di bombe, razzi e missili aria-aria Sidewinder.
Raggio d' azione: 1.100 km, senza rifornimento in volo.
Breguet Atlantic Pattugliatore marittimo a lungo raggio.
Velocità massima: 615 km / h.
Autonomia: 12 / 18 ore di volo in pattugliamento. Armamento: siluri e bombe di profondità antisommergibile e antinave, missili aria-mare.
Lockheed C 130H Aereo da trasporto a lungo raggio quadrimotore. Velocità massima: 610 km / h.
Autonomia: 4.000 km senza rifornimento in volo.
Capacità di carico: massimo 20 tonnellate.
F 15 Eagle Cacciabombardiere multiruolo monoposto. Velocità massima: Mach 2,5 (2.700 km / h). Armamento: 1 cannone da 20 mm, 4 missili aria-aria Sidewinder e Sparrow e bombe di vario tipo fino a 6.800 kg di carico massimo. Raggio d' azione: 800 km con carico massimo di armi, senza rifornimento in volo.
LA MARINA IN ADRIATICO? INCROCIANO SILENZIOSE CINQUANTA NAVI Fregate canadesi, dragamine greci, portaerei americane... Ecco che cosa devono fare.
Le attività della flotta alleata schierata in Adriatico hanno richiesto un' abbondante disponibilità di porti attrezzati e di basi per il rifornimento delle unità navali, l' avvicendamento e il riposo degli equipaggi. Per far fronte a queste esigenze la Marina militare italiana ha messo a disposizione nove scali attrezzati situati tra il Friuli e la Sicilia sui quali orbiterà anche la maggior parte del traffico relativo al trasferimento dei contingenti di Ifor sul territorio bosniaco.
La Ifor Maritime Component può contare su una trentina di navi militari di vario tipo e nazionalità, tra le quali ben tre portaerei, mobilitabili su richiesta dei comandi superiori Nato.
Forze navali italiane Tre fregate:°Classe Maestrale e Lupo.
Pattugliatore: Cassiopea.
Cacciamine: Vieste, Lerici, Alghero.
Navi trasporto per operazioni anfibie: San Giorgio, San Marco.
Navi trasporto costiero: Gorgona e Lipari.
Rimorchiatore°d' altura: Atlante.
Totale: 2.500 uomini.
Più 600 fanti di marina del Battaglione "San Marco" Forze navali Usa Portaerei: America (con 60 aerei F14 Tomcat, F18 Hornet, A6E Intruder, EA 6B Prowler).
Portaelicotteri da assalto anfibio: Wasp (con 12 caccia Harrier e 30 elicotteri).
Incrociatore nucleare lanciamissili: South Carolina.
Incrociatori lanciamissili: Monterey e Normandy.
Cacciatorpediniere lanciamissili: Scott.
Fregata lanciamissili: Boone.
Navi per operazioni anfibie: Shreveport, Lasalle e Whidbey Island.
2.000 marine imbarcati con carri armati, veicoli corazzati e artiglieria.
Forze navali francesi Portaerei: Clemenceau (con 30 cacciabombardieri Super Etendard e 10 elicotteri).
Cacciatorpediniere lanciamissili :Jean Bart.
Rifornitore di squadra: Meuse.
Forze navali britanniche Portaerei: Illustrious (con 12 cacciabombardieri Sea Harrier e 12 elicotteri).
Fregata lanciamissili: London.
Rifornitore squadra: Olwen.
Forze navali greche Fregata: Hydra Dragamine: Avrà e Klio Attualmente in Adriatico con il compito di controllare il rispetto dell' embargo economico a Serbia e Montenegro, sono attive 14 fregate (l' italiana Lupo, due britanniche, due statunitensi, due olandesi, due spagnole, una canadese, una francese, una portoghese, una turca e una greca). Queste unità navali sono integrate nelle flotte Nato e Ueo assegnate all' Operazione°"Sharp Guard".
Complessivamente le navi in movimento in Adriatico sono una cinquantina che hanno a disposizione i porti di Trieste, Monfalcone, Venezia, Ancona (soprattutto per i cacciamine), Bari, Brindisi (base dei Fanti di Marina e delle navi per operazioni anfibie San Giorgio e San Marco), Taranto (la base più importante della Marina italiana), Messina e Augusta.
L' afflusso dei contingenti alleati ha comportato l' utilizzo per lo scarico di uomini e materiali anche dei porti di Napoli, Salerno e Civitavecchia.
Fregata classe Lupo Dislocamento: 2.500 tonnellate Equipaggio: 247 uomini. Armamento: missili antinave Teseo, missili antiaerei Aspide, un cannone da 127 mm, 4 cannoni da 40 mm, 6 tubi lancia siluri, un elicottero AB 212.
Trasporto costiero classe Gorgona Equipaggio: 32 uomini. Dislocamento: 630 tonnellate. Armamento: un cannone da 20 mm e 2 mitragliatrici.
Fregate classe Maestrale Dislocamento 3.000 tonnellate.
Equipaggio: 225 uomini. Armamento: missili antinave Teseo, missili antiaerei Aspide, un cannone da 127 mm, 4 cannoni da 40 mm, 8 tubi lancia siluri, 2 elicotteri AB 212.
Navi per operazioni anfibie classe San Giorgio Dislocamento: 5.0000 / 8000 tonnellate.
Equipaggio: 160 / 200 uomini. Armamento: 1 cannone da 76 mm, 2 cannoni da 20 mm, 1 / 3 elicotteri. Capacità di carico: 6 mezzi da sbarco, 33 veicoli, 330 uomini.
Cacciamine classe Lerici Dislocamento: 500 / 670 tonnellate.
Equipaggio: 41 uomini.
Armamento: 1 cannone da 20 mm e un veicolo subacquo cacciamine "Pluto".
Trasporto costiero classe Gorgona Equipaggio: 32 uomini. Dislocamento: 630 tonnellate. Armamento: un cannone da 20 mm e 2 mitragliatrici.
LE TRUPPE DI TERRA E I NOSTRI RAGAZZI A SARAJEVO SONO EQUIPAGGIATI COSI' Carriarmati Leopard, blindati Centauro, mitra pesanti. I 2.600 bersaglieri italiani in Bosnia fanno rispettare la pace con la forza delle armi.
L' Italia ha schierato in Bosnia, in base ai compiti previsti ,dagli accordi di Dayton, 2.600 uomini della Brigata Garibaldi, tutti volontari. Il loro armamento individuale è costituito dai fucili Beretta 70 / 90 calibro 5,56, che possono sparare sia colpi singoli, sia a raffica controllata e libera. La Brigata ha poi in dotazione 18 carriarmati Leopard I A5 del 131° reggimento Carri "Garibaldi"; 8 semoventi da 155 mm. M 109 L dell' 11° Reggimento Artiglieri; 50 veicoli da combattimento VCC 1 / 2 dell' 8° Reggimento Bersaglieri; 13 blindati Centauro e 8 blindati leggeri Fiat 6614 del Reggimento Cavalleggeri Guide di Salerno; 8 mortai da 120 mm dell' 8° Reggimento Bersaglieri.
Blindato Fiat 6614 Peso 7,6 tonnellate. Equipaggio: 1 più 10 fanti. Arrmamento: 1 mitragliatrice da 7,62 o da 12,7 mm.
Velocità: 100 km / h.
Blindato Centauro Peso: 24 tonnellate. Equipaggio: 4 uomini. Armamento: 1 cannone da 105 mm con 40 colpi e 2 mitragliatrici da 7,62 mm. Velocità massima: 108 km / h.
Veicolo cingolato da combattimento VCC I Peso: 13 tonnellate Equipaggio: 3 uomini più 6 fanti. Velocità massima: 60 km / h.
Armamento: una mitragliatrice da 12,7 mm.
Fucile Beretta 70 / 90 Calibro 5,56 (caricatore a 30 colpi). Tiro: a colpo singolo, raffica da 3 colpi, raffica libera.
Mitragliatrice di squadra MG 42 / 59 Calibro 7,62. Peso: 12 kg.
Cadenza: 800 colpi / minuto.
Carroarmato Leopard I A5 Peso 40 tonnellate. Equipaggio: 6 uomini.
Armamento: 1 cannone da 105 mm con 62 colpi e 2 mitragliatrici da 7,62 mm. Velocità massima: 65 km / h.
Semovente cingolato M 109 L Peso: 24,5 tonnellate. Equipaggio: 6 uomini. Velocità: 55 km / h. Armamento: 1 obice da 155 mm e una mitragliatrice da 12,7. Gittata di tiro: 25 mila metri.
Mitragliatrice pesante M 2 Browning.
Calibro 12,7 mm. Peso: 28 kg.
Cadenza: oltre 500 colpi / minuto.
Mortaio 120 mm.
Addetti al pezzo: 3. Portata massima: 6.500 metri.
Proiettili: 13,5 kg.



Testata
Epoca

Data pubbl.
04/02/96

Numero
5

Pagina
44

Titolo
BOSNIA, NON SI PUO' MORIRE COSI'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI Ha collaborato Gianandrea Gaiani

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
Ci mancava solo la bomba-trappola portata in camerata. Per i nostri soldati a Sarajevo i rischi sono ancora peggiori del previsto. E ora spunta un nuovo nemico, con un nome in codice: "incubo logistico".

Didascalia
A sinistra: la cerimonia funebre per i tre caduti di Sarajevo in un
hangar dell' aeroporto di Grazzanise (Caserta); manca la salma di
Gerardo Antonucci, 22 anni, trattenuta a Roma per gli esami medico
legali. Sopra: lo sbarco a Ciampino di Massimo D' Addio, 21 anni,
rimasto gravemente ferito. Sotto: una recente foto del
caporalmaggiore Antonucci.

Testo
"Nel caso ci si imbatta in un oggetto sospetto, occorre: non toccare, lanciare l' allarme, avvertire, riferire, localizzare, segnalare, evitare". Il Manuale del soldato (una quarantina di pagine in tutto consegnato a ogni militare italiano impegnato in Bosnia) parla chiaro sul pericolo di mine ed esplosivi in Bosnia. Eppure Alcino Jose Lazaro Mouta e Emanuel Reis Tavares, due caporali della brigata portoghese (che a Sarajevo divide mansioni, compiti e camerate con i bersaglieri italiani della Garibaldi), hanno pensato bene mercoledì 24 gennaio di portarsi in camera, come souvenir, proprio uno di questi "oggetti sospetti" trovati per strada. Ci hanno rimesso la pelle, insieme con un collega italiano, il caporale Gerardo Antonucci, mentre altri sette soldati, (6 italiani e un portoghese) sono rimasti feriti. L' "oggettino" era infatti una "cluster bomb", un ordigno formato da un cilindro simile a un rullino fotografico, lungo una decina centimetri, caricato con un centinaio di biglie di acciaio. E' esploso in mezzo ai soldati, seminando morte nella palestra dell' ex scuola che ospita le camerate, a 250 metri dall' ex ospedale dove si trova il comando del contingente italiano.
Che qualcuno abbia scambiato la missione di pace in Bosnia per una gita da boy scout? Dicono che i caporali maggiori portoghesi venissero da quattro anni di addestramento, e così pure i colleghi italiani arrivati a Sarajevo con la qualifica di "professionisti".
Eppure...
Come siano andate veramente le cose nessuno ancora è in grado di dirlo. Indagano i carabinieri incaricati dalla Procura di Roma.
Indaga una commisione presieduta dal vicecomandante del contingente italiano, il colonnello Di Grazia. Ma la prima impressione è che tra italiani e portoghesi sia già lite, e che colpe e responsabilità rimbalzino da una parte all' altra.
Gli italiani sostengono che i due caporali avrebbero trovato l' ordigno per strada, mentre un portavoce dello Stato maggiore portoghese ha dichiarato in televisione che la bomba si trovava sul tetto di un edificio bonificato male dagli artificieri italiani. In un caso o nell' altro, perché un oggetto "sospetto" come una "cluster bomb" è arrivato dentro una camerata? Il Manuale del soldato non solo spiega come bisogna comportarsi ogni volta che si mette piede in strada, ma illustra anche tutti i tipi di ordigni seminati in Bosnia. Non c' è mina, da quelle antiuomo a quelle anticarro, che non sia classificata (lunghezza, larghezza, altezza, colore, forma peso, dimensioni) in una scheda. Sono disegnate persino le bombe confezionate con materiale di fortuna: quelle con chiodi e viti legati con un filo di ferro e collegati a una carica di tritolo e quelle che all' apparenza sembrano lattine di bibite e sono invece imbottite di sfere, chiodi, bulloni.
Esistono inoltre, in queste come in ogni altra missione, regole rigidissime sul comportamento che i militari devono tenere ogni volta che maneggiano armi da fuoco. Per esempio: all' ingresso di ogni base militare, i soldati che rientrano da attività operative hanno l' obbligo di scaricare i fucili e di verificare che il colpo non sia in canna. Bombe a mano o ordigni esplosivi in dotazione vanno riposti nei depositi. Ordini ancora più perentori su tutto ciò che si trova per strada, mine, bombe, razzi appartenuti ad altri eserciti: solo gli specialisti delle unità BOE del Genio (Bonifica ordigni esplosivi) sono autorizzati a individuarli, rimuoverli, disinnescarli e quindi distruggerli.
Una tragedia dell' imprudenza, forse dell' ignoranza o addirittura della stupidità? Oppure, se si vuole essere clementi, una delle tante trappole che questa missione riserva alle forze Nato? Certo, a un solo mese dall' inizio delle operazioni, il tributo dell' Italia è abbastanza alto. Due vittime: il caporale Gerardo Antonucci, e il comandante dei carabinieri di Mostar, maggiore Ermanno Fenoglietti, morto il 27 dicembre in un incidente d' auto. Sette feriti: sei nell' esplosione, un altro, il caporal maggiore Elio Sbordoni, sotto il fuoco dei cecchini, la notte del 4 gennaio. Tornano in mente gli "incidenti" delle precedenti missioni. In Mozambico: 2 morti, il tenente Fabio Montagna e il sergente maggiore Salvatore Stabile e 22 feriti. In Somalia, su 11 caduti, 4 sono stati vittime del caso: i paracadutisti Giovanni Strambelli e Jonathan Mancinelli, uccisi da un colpo partito dal loro fucile, il sergente maggiore Roberto Cuomo, morto di malaria e il soldato Tommaso Carrozza, scomparso in un incidente stradale. E ancora otto morti, sempre in Bosnia, prima della missione di pace.
Ma "the logistic nightemare", l' incubo logistico di cui parlavano gli ufficiali americani all' inizio della missione in Bosnia, sta rivelando molti più rischi che in qualunque altra spedizione. A parte le mine (3 milioni in Bosnia, altrettanti in Croazia secondo stime Ifor), ci sono ancora armi leggere e pesanti in mano a serbi, musulmani e bosniaci; milizie allo sbando; volontari islamici, pronti secondo fonti statunitensi, a preparare attentati al contingente Nato; cecchini a piede libero. Senza contare le condizioni logistiche nelle quali i militari operano: a meno 10, meno 20 sotto zero, dentro strutture prive di tutto. Gli italiani, in particolare. Nei due edifici scelti come basi, l' ex ospedale pediatrico e l' albergo Biokovo, mancano porte, finestre, servizi igienici. L' hotel Biokovo si trova inoltre in una delle zone più pericolose dell' intera Bosnia, il quartiere nord orientale di Vogoska, dove sorgono uno stabilimento della Volkswagen e una fabbrica di armi. Un' area strategica che i serbi dovrebbero consegnare ai musulmani, secondo gli accordi di Dayton, tra il 3 febbraio e il 19 marzo.
E allora, c' è da giurarci per i soldati italiani ci sarà poco da divertirsi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
21/01/96

Numero
3

Pagina
46

Titolo
IO, IL PRIMO ITALIANO FERITO A SARAJEVO

Autore
DI ELIO SBORDONI FOTO DI RICCARDO GERMOGLI testo raccolto da Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
ATTUALITA'

Sommario
Una raffica di mitra. E il soldato Elio Sbordoni si ritrova a terra in un lago di sangue. Due settimane dopo, al sicuro in un ospedale romano, ha scritto tutta la verità su quella notte. Che "Epoca" pubblica in esclusiva.

Didascalia
Elio Sbordoni, 21 anni, con la fidanzata Concetta, 22 anni,
all' ospedale militare Celio di Roma. Sbordoni è stato colpito al
braccio il 4 gennaio.
Sopra: papà Francesco, mamma Lucia e la sorella Emma, 16 anni.
In alto: Elio a 5 anni e con la sorella. A destra: appena arruolato.
Nell' altra pagina: oggi.

Testo
Come pensate che sia la Bosnia? Credete davvero alle immagini che trasmette la televisione e a quelli che parlano di pace, "tutto a posto", "finita la guerra"? Hanno mostrato persino la gente che balla in discoteca, a Sarajevo... Io non rispondo nemmeno, a chi mi domanda che cosa ne penso. Basta vedere il mio braccio destro. Il proiettile che i cecchini mi hanno sparato addosso all' alba del 4 gennaio mi ha spappolato l' osso e hanno dovuto mettere due chiodi dentro per rinsaldarlo. Ora sono in ospedale, al Celio di Roma, e penso ai miei compagni rimasti laggiù. Pentito? No, sono un militare...
E' vero, avevo studiato per fare l' esperto forestale. Tre anni di scuola a L' Aquila ed ero anche in gamba. Ma poi ho visto il bando di concorso dell' esercito per volontari a ferma prolungata e ho deciso di prendere quest' altra strada. Nella vita si deve provare tutto. Io amo il rischio, l' alta velocità per esempio: correre in moto, oppure in macchina. Pratico la king-boxe, che è un incrocio tra la boxe e le arti marziali. E mi piacciono le belle donne. Così dopo il Car, ho fatto subito domanda per restare nell' esercito altri 3 anni. Nel 1994 mi avevano già mandato in missione, a Palermo per l' operazione "Vespri siciliani". Ho sempre preferito gli incarichi operativi.
Ma veniamo a questa maledettissima Bosnia... Quando se ne è cominciato a parlare, 4 o 5 mesi prima degli accordi di pace, mi trovavo a Caserta nell' Ottavo Reggimento Bersaglieri, un reparto addestrato proprio per eventuali impieghi all' estero. Felici di andare a Sarajevo certamente non eravamo, non è come andare il sabato sera in discoteca. Però l' idea di mettere a posto, sistemare, fare un po' di ordine tra questi che si sparano addosso, perché no? Se ne parlava ogni giorno di più, fino a quando abbiamo saputo che la nostra partenza era assicurata. E lì addestramento continuo e duro, come non se ne ha idea. Siamo stati trasferiti a Persano (vicino a Salerno), che è un' area molto più attrezzata delle altre, dove è cominciata l' attività di documentazione.
Venivano a trovarci ufficiali che erano già stati in missione nella ex Iugoslavia, colonnelli, pezzi grossi a spiegarci come stavano le cose e mostrarci le armi in dotazione ai bosniaci. Il clima era agitato. Ci si spostava in continuazione, carica, scarica mezzi, prepara le armi, vaccini, pillole. Ho lasciato tutte le mie cose, e forse anche i miei pensieri, a casa a Castelvecchio Subequo dove abita la mia famiglia. Dopo la licenza di Natale, ero già pronto per la missione.
Il 27 dicembre siamo partiti da Salerno. Tre giorni di navigazione.
La prima notte non ricordo di aver vissuto mai niente di simile.
Mare forza 7 e tutti gettavano l' anima. Sdraiati sulle scale, aggrappati alle travi, impantanati nella melma, con i marinai che ci davano una mano a vomitare... Io mi ero assopito su un gradino, all' ultimo piano. Poi all' improvviso una botta della nave e mi sono trovato ai piedi delle scale tutto ammaccato con un altro che mi era caduto addosso. Un unico desiderio: toccare terra. Due giorni dopo, finalmente, l' arrivo al porto di Ploce. Volete che descriva il paesaggio? Rocce, montagne, la sensazione di essere arrivati al Polo Nord. Il mare era calmo, ma feceva un freddo... Abbiamo scaricato i mezzi e passata la notte a bordo della nave. Al mattino si sono formate due colonne, una davanti, la seconda, dove ero io, dietro a copertura.
Viaggio interminabile. Si è fatto nuovamente buio e noi ci siamo ritrovati bloccati in mezzo alle montagne. C' era molto ghiaccio e i mezzi pesanti non ce la facevano a salire. Alle nostre spalle una fila interminabile di camion e auto di civili. Quella notte è stata ancor più terribile dell' altra passata in nave. Non potevamo neanche camminare, scivolavamo. Mi ricordo che l' unica cosa calda che avevo era la bocca. Quando ci siamo rimessi in cammino, abbiamo attraversato tunnel con le pareti di ghiaccio. Le campagne erano allagate, come immense paludi gelate, avremmo potuto pattinarci sopra.
Finalmente Sarajevo: niente che fosse intero, nemmeno un cartello stradale. C' era gente ai bordi della strada. Alcuni erano contenti del nostro arrivo, altri per niente. Ma quello che mi meravigliava era vedere quei civili con le armi in mano, come se andassero a caccia in una jungla. Tutti barboni, pezzenti, comprese le donne.
Belle ragazze? Neanche una. La nostra destinazione era Vogoska: una cittadina con pochissimi abitanti che non è stata tanto bombardata, anche se alberghi e ristoranti sono tutti incendiati. Lì, all' hotel Biokovo, c' erano già i militari della prima colonna che ci avevano preceduti. Abbiamo scaricato e fatto un giro per visitare le strutture. Dappertutto bombe, "fili d' inciampo" collegati alle mine, perché quelli lì, serbi o bosniaci, si sono divertiti a seminare trappole. Niente porte, né finestre.
Era il penultimo giorno dell' anno. A me toccava la guardia di notte. Ho lavorato senza chiudere occhio fino alle 3 e mezzo del pomeriggio successivo, quando finalmente ho potuto mettere qualcosa di caldo sotto i denti. Caviale e champagne, naturalmente. Scherzo: erano le solite razioni "Kappa".
La notte dell' ultimo dell' anno ero di nuovo di guardia e i botti li ho sentiti tutti. Invece che petardi sparavano con le contraeree e con i bazooka. C' erano dei ragazzini in giro con una mitragliatrice Mg, che, non si scherza, è un' arma di reparto. Ma non c' è da stupirsi. Un collega ha visto un bambino con le ciabatte ai piedi. E' andato per regalargli degli anfibi e quello in segno di riconoscenza voleva dargli una pistola calibro 9.
Era una trappola? Intanto continuavano a sparare e i miei pensieri andavano secondo i proiettili. Mi dicevo "attento a te e ai tuoi compagni". Lì a Sarajevo ero con un gruppo di amici molto affiatati e, notti a parte, in quei giorni abbiamo sempre lavorato assieme per sistemare le condutture del gas, dell' acqua, i cavi elettrici. Io sono un geniere, specializzato... Tra una cosa e l' altra si è arrivati alla notte del 4 gennaio. Al mattino del giorno prima ero stato a visitare un ospedale. Lì non era un problema di finestre, mancavano le pareti, le scale, c' erano buchi da un piano all' altro fatti dalle granate. Nel pomeriggio sono tornato alla base, all' hotel Biokovo. Ho montato di guardia dalle 9 alle 11. Poi ho dormito, ma non era un sonno tranquillo, ero in allerta. Alle 3 nuovamente il piantonamento. Tutto sembrava come le altre notti.
Sparavano, ma a questo c' eravamo abituati. A un certo punto, all' entrata si è presentata un donna sulla cinquantina. Gridava cercando di farci capire che voleva passare. Sembrava ubrica. Io e il mio amico l' abbiamo bloccata ed è mentre tornavamo alle nostre postazioni che è cominciato il fuoco. Sparavano a raffica dai palazzi di fronte, quelli che di giorno avevamo visto abitati da famiglie normali. Ci siamo messi a correre per cercare riparo dietro i mezzi. Ma i proiettili cadevano da ogni parte, bucavano anche i mezzi. Quando mi hanno colpito, lì per lì non ho provato dolore. Il freddo, la temperatura era a meno 12, mi aveva come anestetizzato.
Ho impugnato il fucile e solo dopo mi sono accorto che perdevo sangue e non sentivo più il braccio. Dovevo salvarmi, perché se uno di noi cade diventa un peso per gli altri. Ho urlato al mio amico di andare avanti, ma lui mi ha afferrato e mi ha trascinato dentro. In infermeria hanno cominciato a tagliare la manica della giacca. Ma non c' era modo di tamponare la ferita. Qualche ora dopo ero all' ospedale dei francesi sotto i ferri. E adesso, eccomi qui, ancora qualche giorno ricoverato. E poi a casa, a continuare la convalescenza. Che prima o poi ci avrebbero sparato addosso lo sapevamo bene. Ma non immaginavo che per me la festa sarebbe finita così presto.




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/01/96

Numero
2

Pagina
30

Titolo
OCCHIO, RAGAZZI ... NON E' UNA GITA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
L' ITALIA IN BOSNIA

Sommario
Il primo colpo a segno dei cecchini di Sarajevo, il 4 gennaio, ha ferito un nostro geniere. Un episodio che conferma quanto sia difficile e rischiosa l' operazione della Nato in Bosnia. Che cosa accadrà adesso? Cambierà qualcosa per le nostre truppe? Ecco, una per una, le risposte ai tanti nuovi interrogativi sulla missione italiana nei Balcani.

Didascalia
QUI CI HANNO SPARATO Un posto di controllo italiano nel quartiere di
Vogoska. E' in questa zona - dove nell' albergo Biokovo ha sede
anche il quartier generale del contingente - che è stato colpito da
un cecchino il geniere Elio Sbordoni, in servizio di guardia al
parco veicoli. Il cecchino ha sparato certamente da una delle
finestre degli edifici che si vedono sullo sfondo e dai quali, già
durante la notte dell' ultimo dell' anno, erano stati esplosi
numerosi colpi di kalashnikov e di fucile.
RITARDATARI
Un bersagliere
della Brigata Garibaldi in posa sul molo di Salerno per la foto
tessera da applicare al suo documento di riconoscimento dell' Infor.
MEZZANOTTE
I bersaglieri della Brigata Garibaldi festeggiano l' anno nuovo a
Sarajevo.

Testo
William Perry, il segretario della Difesa statunitense aveva avvertito proprio il giorno prima dalla base di Aviano: "E' una missione a rischio. Avremo delle perdite". A poco più di 24 ore, all' alba del 4 gennaio, il proiettile sparato da un cecchino ha colpito a un braccio un militare italiano, Elio Sbordoni, geniere abruzzese di 21 anni. A dispetto della pace, degli accordi di Dayton, dei 60 mila uomini spediti dalla Nato, la Bosnia rischia ancora di essere una trappola. "Hell in a cold place", l' inferno in un posto freddo, come titolava la rivista americana Newsweek? Sulle incognite, non solo meteorologiche, di questa missione, i militari italiani non hanno dubbi. Se ne sono accorti sin dal loro arrivo a Sarajevo, quando i primi 212 bersaglieri, partiti il 27 dicembre dal porto di Salerno, hanno trovato mine ad ogni bordo di strada, le strutture destinate ad accoglierli devastate. E, prima ancora del ferimento del geniere, una grana che non li tocca direttamente, ma che ha allarmato non poco le intere forze Nato: il rapimento di 16 musulmani da parte dei serbi, e il loro rilascio a singhiozzo dopo forti pressioni.
Le scadenze della missione vanno comunque rispettate. Altri 300 soldati italiani hanno raggiunto Sarajevo per l' Epifania. Entro il 20 gennaio l' intero contingente, 2 mila e 356 uomini, sarà lì al completo schierato in uno dei punti più difficili della Bosnia: una fascia di 300 chilometri quadrati, da Sarajevo a Goradze, in parte sotto il controllo musulmano, in parte sotto quello serbo-bosniaco.
Il contingente italiano, formato dai bersaglieri della Brigata meccanizzata Garibaldi, con una compagnia del genio guastatori e un gruppo di incursori paracadutisti del battaglione Col Moschin, andrà sotto il comando francese a completare le file della "Implementary force" (Ifor): 60 mila uomini reclutati dai 16 Paesi dell' Alleanza atlantica più i contingenti di 16 Stati non-Nato, chiamati a mettere in atto gli accordi di Dayton.
Un' operazione su cui il governo italiano sta scommettendo molto.
"Abbiamo coinvolto l' Esercito, l' Aeronautica, la Marina, per un totale di oltre 6 mila uomini", spiega l' ammiraglio Guido Venturoni, capo di stato maggiore della Difesa. "Per non contare le basi navali, gli aeroporti, le caserme messe a disposizione della Nato. Un apparato che impiega almeno 11 mila persone". E che fa dell' Italia il centro strategico della missione in Bosnia, tanto più che proprio dalla base Af-south di Bagnoli, vicino a Napoli, quartier generale delle forze alleate del Sud Europa, si tengono le fila dell' operazione.
Come andrà a finire? Vediamo quali sono le prospettive, le incongnite e i compiti del nostro contingente.
Perché a Sarajevo? Quella assegnata ai soldati italiani è un' area delicatissima, che comprende da un lato Pale, quartier generale delle milizie di Karadzic e di Mladic (che hanno subìto gli accordi di pace loro malgrado), dall' altra l' enclave musulmana di Gorazde.
Più il versante est di Sarajevo. In particolare due quartieri. Il primo è Vogoska, un gruppo di palazzoni che i serbi dovrebbero restituire ai musulmani. Qui gli italiani hanno trovato sistemazione in un ex albergo, il Biokovo, che con il ferimento di Sbordoni, si è già rivelato un posto infido, esposto al fuoco dei cecchini. Il secondo è Grabivica, quartiere musulmano, dove i nostri dovrebbero andare a occupare un ospedale, ridotto a brandelli dopo un martellamento di mortai e cannoni durato tre anni, a 500 metri dalle artiglierie di Mladic. Perché una zona così delicata? "Gli italiani operano sotto comando francese", dice il generale Duilio Mambrini, vicecomandante della base Af-south di Bagnoli. "E i francesi erano già lì come Caschi blu, prima che avvenisse il trasferimento di autorità dall' Onu alla Nato". Il motivo dell' aggregazione italo-francese, a dispetto degli screzi tra Dini e Chirac all' ultimo vertice europeo di Madrid, è presto spiegato: "Una lunga tradizione di esercitazioni congiunte. Così come con i portoghesi, che saranno integrati nel reggimento italiano". In realtà, sarebbe stato il presidente serbo Slobodan Milosevic a proporre all' inviato americano Richard Holbrooke, molto prima degli accordi di Dayton, la presenza italiana a Sarajevo. Merito dei rapporti, più che buoni, tra il nostro governo e quello serbo? "Siamo ben accetti a Belgrado", dice il generale Mambrini, "ma la nostra presenza sarà comunque equidistante".
Chi comanda realmente? Quale autorità possiede in Bosnia un generale come Agostino Pedone, comandante del contingente italiano? Viene in mente l' anarchia delle truppe multinazionali in Somalia, dove ciascuna operava secondo un proprio criterio. E lo scontro tra italiani e americani sulla linea da adottare, morbida per il generale Bruno Loi, comandante del nostro contingente, dura per l' ammiraglio Howe, comandante Usa. O ancora la battaglia del 2 luglio 1993 al check point Pasta, quando il generale Loi attendeva da Roma l' ordine di sparare con l' artiglieria pesante.
"Scordiamoci la Somalia, così come il Libano, il Kurdistan, il Mozambico", dice l' ammiraglio Gianpaolo Di Paola, responsabile della politica militare dello stato maggiore della Difesa. "Con gli accordi Dayton si cambia pagina. Non si tatta più di una missione sotto egida Onu, ma di un' operazione Nato". La differenza è sostanziale: l' Alleanza atlantica possiede una forza militare che le Nazioni Unite non hanno, e una struttura verticistica. "La catena di comando Nato è rigorosissima e mette fuori gioco le autorità nazionali", aggiunge l' ammiraglio Di Paola. Il generale Pedone non prenderà ordini dall' Italia, ma direttamente dal generale francese Robert Rideau, il quale a sua volta dipende dal generale britannico Michael Walker, capo del comando alleato delle forze di reazione rapida. Questi risponde al comandante supremo del teatro, l' ammiraglio Leigthon Smith. Su tutti, George Joulwan, "saceur" della Nato, cioè comandante supremo delle forze alleate d' Europa, che risponde solo al Consiglio Atlantico.
I militari potranno sparare? Le regole di ingaggio sono definite "robuste". Al contrario dei Caschi blu, i militari Nato potranno sparare non solo per autodifesa ma anche per proteggere terzi.
"L' uso della forza", spiega l' ammiraglio Venturoni, "è previsto inoltre contro chiunque impedisca di svolgere i compiti assegnati".
Compiti che l' accordo di Dayton sintetizza in quattro punti: separazione delle parti, controllo dello spazio aereo, controllo della linea di demarcazione tra i territori assegnati alla federazione croato-musulmana e ai serbi, garanzia di libertà di movimento per i civili. I militari non hanno invece l' incarico di disarmare le milizie. E nemmeno (cosa sulla quale già si polemizza) incarichi di polizia che li costringerebbero a intervenire in un caso come quello del rapimento dei 16 musulmani da parte dei serbi.
Per il contingente italiano, lo stato maggiore della Difesa ha preparato anche un galateo che invita i soldati a rispettare usi e costumi locali, a un attegiamento corretto con le donne, specie le musulmane con il chador, a evitare alcol e droghe. Anche se è bene accettare caffè, birra, rakja, l' acquavite locale, in segno di amicizia.
Quali pericoli corrono i militari? Il primo, evidentissimo, è quello dei cecchini che hanno già sparato sull' hotel Biokovo. Stanno ancora in giro, incontrollati e incontrollabili. Ci sono poi le mine, anticarro e anti-uomo, che i guastastori del contingente hanno cominciato a rimuovere. Altro pericolo, per gli italiani, quello di trovarsi in una zona a cavallo tra territori musulmani e territori serbo-bosniaci. Se ricominciassero a sparare, i nostri si troverebbero tra due fuochi.
Chi sono i nostri amici? L' Italia ha adottato ufficialmente una politica di "equidistanza". Ma che cosa faranno i militari che si troveranno, per esempio, a controllare Pale, quartiere generale di Karadzic e Mladic, indicati dal Tribunale dell' Aia come responsabili di crimini di guerra? "Non spetta al contingente tenere contatti con le autorità politiche", dice il ministro Riccardo Sessa, consigliere diplomatico del ministero della Difesa. "Ci saranno rapporti, ma solo per quello che riguarda le attività spicciole". Il resto rientra nella trama di relazioni diplomatiche tessute in questi anni dal governo italiano. In primo luogo con i serbi di Belgrado, città nella quale dal 1992 a oggi il ministero degli Esteri ha tenuto un suo incaricato d' affari, Laura Mirachian.
Tutti i ministri degli ultimi governi sono passati dalla capitale serba, anche nel momento più duro dell' embargo internazionale: Emilio Colombo, Beniamino Andreatta, Antonio Martino, fino a Susanna Agnelli. E a proposito della Agnelli risale a dicembre l' incontro semi-segreto con il ministro degli esteri serbo bosniaco Aleksander Buha, che ha suscitato più di una polemica sulla politica "filo-serba" italiana. Alla Farnesina minimizzano: "Si doveva creare una copertura diplomatica per i nostri militari". Come a Beirut, dove furono proprio i contatti diplomatici a salvare il contingente italiano dagli attentati che fecero strage tra francesi e americani? In Bosnia la Farnesina sembra più attiva che in Somalia, dove nel momento più difficile dell' operazione, quello coinciso con l' agguato del "Pasta", i militare dovettero vedersela solo con se stessi. Sarebbe stata infatti attivata in Bosnia una rete diplomatica ispirata alla filosofia del "confidence building", la creazione di un clima di fiducia con la popolazione civile. In nome dell' equidistanza, alla Farnesina ricordano anche la valanga di aiuti umanitari portati a tutti, bosniaci compresi.
L' Italia inoltre, superato lo smacco di esser stata tenuta fuori dal gruppo di contatto, è adesso presente in tutte le sedi decisionali: nel Consiglio di sicurezza, all' interno del G-8, alla presidenza dell' Unione Europea, e dell' Ecmm, la missione degli osservatori europei.
Esiste un piano di fuga? Nessuno sembra prendere in considerazione l' ipotesi che le milizie si rivoltino contro le forze Nato e che queste siano costrette ad evacuare. "Il piano d' emergenza Unprofor, approntato per la difesa dei Caschi blu non serve più", spiega il ministro Sessa. "Adesso abbiamo 60 mila uomini, supportati da armamenti pesanti, da forze di cielo e di mare, in grado di autodifendersi".
Chi paga la missione? Per l' Italia si tratta di una spesa di 30 miliardi al mese. Con la "manovrina" di 5 mila 285 miliardi di fine anno, è venuto fuori un aumento di 22 lire al litro sulla benzina verde. Strano, ma vero, è questo il contributo pagato dai cittadini per sovvenzionare la pace.
Che utile ne trarremo? La Bosnia dovrà essere ricostruita: migliaia di chilometri di strade, reti elettriche, decine di migliaia di abitazioni, centrali telefoniche, acquedotti, gasdotti, ferrovie, fabbriche. Un affare dalle dimensioni impressionanti, nel quale sarà avvantaggiato chi sarà sul posto. La Germania si è fatta avanti da tempo (tutto nella ex Iugoslavia si paga in marchi), in Croazia e nella stessa Sarajevo, dove esiste uno stabilimento della Volkswagen. In lizza anche la Francia, ma soprattutto in Serbia. E l' Italia? I buoni rapporti con Belgrado conteranno anche per il nostro Paese? Intanto la pace, poi si vedrà.




Testata
Epoca

Data pubbl.
03/12/95

Numero
48

Pagina
104

Titolo
LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Occhiello
Storie & drammi

Sommario
Diciassettemila bambini uccisi. E 50 mila donne stuprate. Ecco i nomi, i volti e le lacrime che hanno scandito questi quattro anni di orrore.

Didascalia
LEI NON CE L' HA FATTA
Una delle immagini-simbolo della guerra vissuta dai bambini: Irma
Hadzimuratovic, 5 anni, ferita a Sarajevo dallo scoppio di una
granata. Paralizzata alle gambe e incapace di parlare, Irma l' 8
agosto 1993 venne trasportata da un aereo britannico a Londra. Ma il
primo aprile 1995, nonostante due anni di cure, la bambina è morta.
VITA QUOTIDIANA IN TRINCEA
Da sinistra, in senso orario: una donna rischia la vita per fare la
spesa; una ragazza ferita a Sarajevo; una musulmana violentata dai
serbi.
IL MIRACOLO DI ALADIN
E' il 9 luglio 1994: a Bihac una granata amputa la gamba destra di
Aladin Hodzic, 5 anni. Curato a Budrio, vicino a Bologna, ora il
piccolo è in grado di camminare e persino di tirar calci al pallone.
FU IL PRIMO A VENIRE IN ITALIA
Kemal Karic, 4 anni: nel 1992 fu fatto espatriare di nascosto da un
giornalista. Non aveva la gamba destra: ora cammina e vive con la
famiglia del suo salvatore.

Testo
A fine agosto di que-st' anno, Dzenana Dedic, una brunetta di 29 anni che lavora a radio Mostar, seduta al tavolino di un bar all' aperto sulla Neretva, la parte della città musulmana, con voce un po' assente e un po' svagata diceva: "Non ricordo più quando ho pianto l' ultima volta. Dopo il ferimento di mio marito, dopo il terrore di perderlo quando l' ho visto straziato da una granata, sono diventata di pietra. Non c' è stato tempo per le lacrime, non c' è stato spazio per i sentimenti". Mentre Dzenana parlava le sirene che annunciano i bombardamenti hanno cominciato a suonare, ma la ragazza non ha nemmeno alzato gli occhi. E' rimasta impassibile, con la sigaretta incollata tra le dita e il volto di marmo.
Quattro anni di guerra nella ex Iugoslavia hanno fatto scempio persino del dolore. Anche della paura. Per le donne, i bambini, gli anziani, le vittime civili di questo conflitto c' è stato un solo sistema di sopravvivenza: l' abitudine all' orrore. Quello apocalittico raccontato dai giornali, la macabra epopea dei 50 mila stupri di massa, i figli nati dalla pulizia etnica, le fiumane bibliche di profughi, le bombe ai mercati, gli aerei della speranza che trasportavano bambini mutilati negli ospedali d' Europa. E quello quotidiano vissuto nelle proprie case, dietro i vetri infranti dalle granate, senza acqua, senza luce, senza cibo, nel gelo di tre lunghi inverni a 10, 20, 30 gradi sotto zero.
"Così hanno stuprato una mia amica". Se Dzenana è sopravvissuta in silenzio al suo, l' orrore delle profughe di Srebrenica, bombardata a luglio dai serbi, è rimbalzato da una parte all' altra del mondo, urlato in faccia a un manipolo di indifferenti Caschi blu, sulla pista dell' aeroporto di Tuzla. Raccontavano le donne di 16 mila uomini, mariti, padri, figli, fratelli, spariti, e di migliaia di compagne stuprate dagli uomini di Karadzic. Zafra Turkovic, mamma musulmana, si è salvata fingendo di essere svenuta mentre i miliziani afferravano la sua vicina. Ma, dopo, ha ricordato tutto perfettamente: "Qualcuno aveva puntato un dito verso la sventurata, e subito due uomini l' hanno presa per le gambe, mentre un terzo cominciava a violentarla. Poi altri quattro si sono buttati su quel povero corpo, a turno. Lei si dibatteva, urlava, si disperava.
Quelli le hanno ficcato uno straccio in bocca e quando hanno finito, l' hanno lasciata lì come una bambola di pezza".
Un paio di mesi prima, il 25 maggio, in piazza Capjia a Tuzla, i serbi avevano bombardato i caffè affollati di giovani. Anche quell' orrore è rimasto nelle anime dei superstiti, come sogno o allucinazione. Ena, studentessa di 20 anni, si è risvegliata con passo da fantasma tra i tavolini in frantumi: "Cercavamo i feriti tra i cadaveri, tastavo il polso a tutti quei ragazzi. E l' odore del sangue era così forte. C' era sangue dappertutto, ne ero ricoperta. Le notti che sono seguite alle sere del massacro sono state orribili. Appena andavo a letto mi si ripresentavano certe immagini, sempre le stesse: la grande luce, il corpo di un giovane decapitato, quello di una ragazza tagliata in due, e un' altra, stesa per terra che aveva l' aria di dormire".
I bambini: Irma, Aladin, Leyla... Voci dall' inferno. Ma anche volti destinati a rimanere nella memoria, come simboli dolenti della follia che per quattro anni ha squarciato questo pezzo d' Europa.
Volti di bambini soprattutto: 17 mila uccisi, 34 mila feriti mentre giocavano in strada, stavano in casa, o accompagnavano i genitori.
Tra loro, alcuni sono destinati a entrare nella storia. Come Irma Hadzimuratovic, 5 anni, completamente paralizzata da una scheggia di granata: un Hercules C-130 inglese l' 8 agosto 1993 si è levato sui cieli di Sarajevo per cercare di metterla in salvo in un ospedale di Londra. La bambina è morta il primo aprile di quest' anno. Ma il suo caso è servito comunque a lanciare una gara di solidarietà tra gli Stati occidentali, tutti pronti ad accogliere altre piccole vittime contendendosele, come Kemal Karic, 16 mesi, senza una gamba, portato al centro protesi di Budrio, vicino a Bologna nel maggio 1992 da un terzetto di giornalisti volenterosi; Aladin, 5 anni, Sanja, 7, mutilati dalle granate, anche loro nei mesi scorsi a Budrio, oggi sono in grado di saltellare sulle nuove gambe artificiali e giocare con i coetani. Lejla Jesarevic, 12 anni, con il suo occhio trasformato in uno zampillo di sangue, metafora stessa della cecità della guerra, finita per caso nell' obiettivo di un giovane fotografo di Memphis, Robert King, è stata curata in Italia e ha recuperato la vista. Ma nessuno forse si ricorda di Dejan Zvizdalo, 8 anni, i due arti troncati di netto da una granata, lasciato a Sarajevo, proprio nei giorni in cui Irma partiva per Londra, perché di etnia serba. I Caschi blu non volevano prendersi la responsabilità di portarlo via ...
A Sarajevo un bambino su due, dice un rapporto Unicef, ha visto morire almeno un familiare ed è stato sfiorato dai cecchini, uno su cinque soffre di incubi e uno su quattro pensa che non valga più la pena vivere.
Le madri separate dai figli. L' orrore, appunto, può essere anche questo: la sopravvivenza quotidiana. Come quella di cui parlava Dzenana ad agosto, la ragazza di Mostar est, scappata a ovest durante l' offensiva croata del 1993, costretta ad aspettare il permesso per settimane ogni volta che vuol visitare la madre rimasta dall' altra parte della Neretva. O può essere la zavorra dei ricordi. Sempre a Mostar est, Dzeko Munevera, 43 anni, infermiera, piange quando racconta dell' assalto croato: "Hanno preso i miei figli. Ho chiesto di poterli baciare per l' ultima volta. Sono rimasta 6 mesi senza vederli, chiusa in un campo di concentramento.
Mi rimarrà per sempre nelle orecchie lo scoppio delle granate di quel giorno".
A Sarajevo il pomeriggio in cui, qualche settimana prima dell' accordo di pace, incontriamo Alma Suljevic, 32 anni, scultrice guerrigliera, è appena scoppiato un temporale. La pioggia percuote violenta i palazzi anneriti dal fumo di Ciglane, periferia a sud ovest della città, ma Alma se ne sta estasiata dietro le finestre a guardare la pioggia. "Finalmente un tuono", dice. "Niente è più rassicurante di un boato scatenato dalla natura dopo tanto rumore di bombe e di spari". Da qualche mese la scultrice ha ripreso pennelli e scalpelli, ma non rinuncia a mostrare le pistole che tiene in casa, eredità di un anno passato a combattere con la brigata Sanjak, la più dura. "Ero sul ponte all' inizio della guerra, quando i serbi hanno cominciato a sparare sulle donne che manifestavano. Ho deciso di arruolarmi". Con lei una cinquantina di altre donne, tra le quali Dinka, insegnante d' inglese. Ha preso il kalashnikov quando ha scoperto che il marito l' aveva lasciata per andare a combattere dalla parte dei serbi. "Per un anno abbiamo mangiato solo fagioli, dormito dentro ai capannoni o sull' erba.
C' erano volte in cui fumavo anche 5 pacchetti di sigarette a notte". Adesso Alma è tornata all' attività artistica, anche se con 30 chili in più, presi a causa dello stress. Ma c' è un' immagine che le è rimasta in mente: il corpo di una soldatessa di 20 anni, all' obitorio: "Era molto bella. Quando sono andata per il riconoscimento, ho trovato due uova nelle tasche: erano la cena del fratellino".
La voglia di resistere. Ma dalla vittime della ex Iugoslavia, oltre ai racconti degli orrori, sono arrivate in questi anni anche voci di speranza e gesti di resistenza. E' stato proprio a Sarajevo, nel cuore del conflitto, che una bambina di 12 anni, Zlata Filipovic, si è messa a scrivere un diario diventato un best seller internazionale. Ed è stato sempre qui, che un gruppo di donne, guidate da una distinta signora con le meches, Nurdzihana Dozic, è riuscito, anche quando in città mancava la carta o saltava l' elettricità, a mandare in stampa un giornale femminile, Zena 21, diventato una sorta di manifesto della sopravvivenza: "Abbiamo voluto dare un supporto psicologico ed educativo alle nostre lettrici", dice il direttore, "incoraggiandole a ritrovare un ruolo e un' identità". Essere donna a Sarajevo, spiega il direttore, significa tremare ogni volta che il proprio bambino va in cortile a giocare, non vedere il proprio marito per mesi e mesi perché si trova al fronte, fare la spesa correndo sotto il tiro dei cecchini.
Lejila Akmaisa, 45 anni, una bionda preside che da mesi lavora a Sarajevo per un nuovo liceo interetnico, si entusiasma quando parla del suo progetto: "Una scuola per ragazzi di valore", spiega seduta dietro una grande vetrata disegnata da una ragnatela di nastro adesivo anti granata, "che tenga conto del merito e non dell' appartenza a una o a un' altra etnia". Lejila è tornata a Sarajevo dopo due anni passati nei campi profughi della Dalmazia, della Bulgaria e della Turchia dove era stata dal governo bosniaco per organizzare cicli di lezioni destinati ai figli dei rifugiati.
"Per due anni sono rimasta senza vedere mio marito, spesso senza neanche la possibilità di sentirlo al telefono. Tornare è stato uno choc: come rinascere la seconda volta". Lejila, che era andata via con le due figlie ha trovato l' appartamento bombardato, i mobili ammassati in corridoio. Una delle due ragazzine si è seduta al pianoforte in mezzo alle macerie e ha cominciato a suonare: "Una scena surreale", dice la preside. Ma il peggio è stato dopo: "Vedere uscire mio marito ogni mattina per andare in ufficio, a fianco del palazzo presidenziale dove a giugno hanno ricominciato a bombardare... Lo guardavo e pensavo che poteva essere l' ultima volta".
Il terrore della morte. Da un' altra parte della città, c' è chi questa terribile ultima volta l' ha vissuta proprio all' inizio della guerra. Kanita Focak, 43 anni, ex architetto di origine croata, sposata a un musulmano, ha perso il marito durante il primo mese di assedio, quando suo figlio Firas aveva solo due anni: "Eravamo seduti in salotto a chiacchierare. Un proiettile di contraerea ha squarciato il muro, mandato in frantumi lo specchio e ha preso in pieno petto mio marito". E' rimasta sola, Kanita, costretta a fare la barista nel piccolo locale sotto casa: "C' erano giorni in cui mancava anche il caffè", dice. "Altri che mi rifugiavo in salotto e rimanevo per ore immobile sul divano a sfogliar l' album di famiglia. Anche adesso, mi guardo in foto e non mi riconosco: sono invecchiata di colpo, i miei occhi hanno preso la stessa espressione che oscura ormai lo sguardo della gente di Sarajevo". Firas, il bambino che oggi ha 5 anni, le saltella attorno con un sorriso da furetto.




Testata
Epoca

Data pubbl.
19/11/95

Numero
46

Pagina
10

Titolo
ISRAELE GLI UOMINI CHE NON VOGLIONO VIVERE IN PACE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTOGRAFIE DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
INTEGRALISMO La nuova frontiera dell' odio

Sommario
Yitzhak Rabin assassinato da un ebreo come lui: siamo andati a vedere chi sono e come vivono i coloni ebrei che non vogliono la pace. E come mai hanno provato la stessa gioia dei loro nemici, gli estremisti islamici. Quei fanatici religiosi che in Algeria sgozzano e decapitano le donne perché rifiutano di avvolgersi nel chador. 4 novembre: un fanatico religioso uccide Rabin, l' uomo del dialogo. L' assassino ha agito da solo. Ma il suo gesto è stato approvato dagli ebrei ultras. Chi sono questi coloni estremisti? Cosa insegnano ai loro figli? Siamo andati a vedere la violenza quotidiana degli insediamenti israeliani. Dove vive anche un rabbino italiano.

Didascalia
NIPOTE DI TROTZKY
David Axelrod, nipote di Leone Trotzky, colono dell' insediamento di
Kfar Tapuach. A sinistra: Yitzhak Rabin, ucciso il 4 novembre da un
estremista religioso.
VITA DA COLONI
Sopra: una famiglia di coloni nell' insediamento di Qaryut Rachelle.
A fianco: Shimon Ansbacher, uno dei primi coloni e fondatore
dell' insediamento di Ma' aleh Adumin. In mezzo: il rabbino Eliezer
Waldman nella sinagoga Shalom al Israel di Gerico, città sotto
l' autorità autonoma palestinese. In fondo a sinistra: il rabbino
Marc Tzvi con la moglie Rachelle di fronte alla valle del Giordano.
IN DIFESA DELLA TERRA DEGLI AVI
In alto nella foto grande: Shmuel
Mushnik, colono di Hebron, nel mausoleo dove sono conservati i resti
dei pionieri ebrei uccisi dagli arabi nel 1929. Sopra: in casa di
Baruch Nachshom, dove sul soffitto campeggia un' enorme stella di
David.
A destra: un militare e un bambino nell' insediamento di Bet
Hadassa.

Testo
Gersham Nativ, rabbino di origini italiane di Kiryat Arba, insediamento colonico a due chilometri da Hebron, in Cisgiordania, è appena rientrato a casa. Presta un orecchio alla tivù, scambia qualche parola in ebraico con la moglie Zeeba. "Sono confuso e innervosito", dice commentando l' assassinio di Yitzhak Rabin, il premier israeliano ucciso il 4 novembre a Tel Aviv. "Viviamo in una zona dove la gente non capisce più qual è la differenza tra religione e politica. Non si può giustificare con la Bibbia l' assassinio di un capo di Stato".
Il rabbino, aspetto da ultraortodosso, la kippah in testa, la barba folta che gli proietta un' ombra nera sul viso, non condivide affatto le parole di disprezzo pronunciate dai suoi vicini di casa.
Ma non per pietà o per ragionevolezza. "Rabin si era messo in lotta con la società israeliana", dice Nativ, "ma ucciderlo è controproducente: non si fa che accelerare il processo di pace".
Quella del rabbino italiano rischia però di essere una voce isolata, nell' insediamento di Kiryat Arba, dove settemila coloni ebraici vivono il loro apartheid in territorio palestinese come in una roccaforte blindata. Aggressivi e agguerriti più che mai, guidano automobili con i vetri infrangibili, girano sempre con i mitra a tracolla e inneggiano a Yagal Amir, lo studente assassino, come al loro ultimo eroe. L' uomo che ha agito in nome della loro stessa ideologia, la difesa dell' Eretz Israel, la Grande Israele, riscattandoli dal "tradimento" dei trattati di pace.
"Tradimento" che sui coloni pesa come un macigno. Arrivati nei territori occupati dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, i pionieri messianici erano stati spinti infatti proprio dal governo con mutui praticamente gratuiti, sgravi fiscali, facilitazioni nell' orario di lavoro, presidi militari, reti stradali separate.
Così sono riusciti a creare 165 insediamenti che oggi sono divenuti i bastioni dell' integralismo e dell' ortodossia.
Nessun accordo con gli arabi. Lo stesso Gersham Nativ era arrivato a Kiryat Arba sull' onda dell' entusiasmo sionista di quegli anni.
Quando gli si parla delle sue origini (è nato a Catania da famiglia cattolica), fa un gesto di disappunto con la mano. Ricorda più volentieri, seduto in un soggiorno zeppo di mobili e di testi talmudici, l' incontro a Gerusalemme con Zeeba, divenuta poi sua moglie, a quei tempi giovane e ostinata esponente del Gush Emunim (Blocco della fede), uno dei primi movimenti ortodossi. "Siamo venuti a Kiryat Arba nel 1971", racconta Nativ, "e non esisteva nulla. Eravamo 34 famiglie in tutto. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a costruire le nostre case". Zeeba, che si era già messa in testa a un gruppo di donne in una prima occupazione di alcuni edifici al centro di Hebron, gli stava a fianco. Esattamente come adesso, che porta il capo rasato secondo l' usanza delle donne ortodosse, coperto da una cuffia di lana, invecchiata dal peso di 8 figli, ma sempre molto determinata. "Con gli arabi è impossibile qualsiasi accordo", dice in un inglese sciolto e veloce. "Sono degli assassini. Non rispettano neanche le loro figlie e le loro sorelle.
Come possiamo fidarci di loro?".
La vita da coloni non è facile: uscire dall' insediamento è sempre un rischio. "Il governo ci ha dovuto fornire un autobus blindato per difenderci dalle pietre e dalle molotov dei palestinesi", aggiunge Nativ. "Qui per fortuna abbiamo scuole interne per i bambini. Ma ci sono altri insediamenti dove serve la scorta militare persino per accompagnare i ragazzi alle lezioni".
Fuori dalla finestra le case di Kiryat Arba, sembrano quelle di un comune quartiere residenziale, degradato nella sporcizia e nella miseria. Ma tra i giardinetti brulli che circondano i palazzoni grigi, coloni delusi e rabbiosi imbracciano il loro mitra persino sulla scale di casa. Poco lontano dall' appartamento di Nativ, un altro pioniere, Baruch Nachsom, anche lui barba fino al petto e cappello in testa, ha creato in salotto una piccola sinagoga, con una stella di David che campeggia su un drappo di velluto. "Qui teniamo lezioni talmudiche e preghiamo secondo il nostro rito", spiega. Uomo di fede, Nachsom di mestiere fa il pittore. Dipinge paesaggi idilliaci fatti di vegetazioni rigogliose: sogna l' Eden per riscattarsi dalla sindrome dell' accerchiamento.
A pochissimi chilometri da Kiryat Arba c' è infatti Hebron: 100 mila palestinesi avvinghiati alla loro terra con la stessa determinazione dei coloni ebraici. Ma anche qui i pionieri non hanno rinunciato a far sentire la propria presenza. Hanno occupato il centro storico in 450, creando un insediamento conficcato come un cuneo tra gli antichi resti ottomani. Millecinquecento soldati israeliani proteggono il loro passaggio in mezzo alla popolazione palestinese, lungo la salita che porta dal suk arabo alla scuola talmudica. Un muro fatto di cemento a blocchi impedisce lo scambio di candelotti e pietre, ma non riesce a far barriera contro la tensione quotidiana.
Shmuel Mushinik, ebreo russo, ogni giorno scende nei sotterranei dell' insediamento, a vigilare sul mausoleo che nasconde le reliquie degli ebrei sterminati durante un attacco arabo del 1929. Guardiano del martirio del suo popolo, Mushinik si alimenta di fantasmi per giustificare la sua vita sulle barricate. "Hebron è terra ebraica.
Ci hanno cacciato con la forza, ma il nostro sangue bagna ancora queste pietre".
Rockstar integralista. L' eco dell' odio dei 130 mila coloni rimbalza di insediamento in insediamento, dai dintorni di Gerusalemme ai lembi più estremi della Cisgiordania, alla distesa sabbiosa della striscia di Gaza, dove le radio diffondono ogni giorno i notiziari di Canale 7, la stazione pirata dei coloni che trasmette da un mercantile ancorato al largo di di Tel Aviv. E dove risuonano gli inni al Messia di Mordechai Ben David, star del rock hassidico che, dagli Stati Uniti, appoggia e raccoglie fondi per i guerrieri d' Israele armati di mitra: è stato lo stesso governo ad autorizzarli, e l' esercito a permettere ai riservisti di tenere le armi. David Axelrod, pistola in mano, nel desolato insediamento di Tapuah, in Cisgiordania, racconta di suo zio, Lev Trotzky, il leader militare della rivoluzione bolscevica. E di quella cinquantina di famiglie, reduci come lui dalla diaspora russa, che sono arrivate qui per costruire il nuovo Stato. Arrivate e rimaste sole. "Nessun altro vuol venire ad abitare in questo quartiere. Il governo ci considera un covo di estremisti. Ci ha persino tagliato l' acqua".
Anche se i suoi sogni sono morti a Oslo, la città delle trattative di pace, Axelrod è certo: "La fede nella Grande Israele è più viva che mai".




Testata
Epoca

Data pubbl.
12/11/95

Numero
44

Pagina
84

Titolo
IO, SCRITTORE TRA I BIMBI DI CALCUTTA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CULTURA

Sommario
Ha salvato 5 mila piccoli dalla lebbra. Costruito ospedali. Scavato canali. Un missionario? No, Dominique Lapierre è uno scrittore, e di enorme successo. Che a Epoca ha raccontato la sua avventura. Straordinaria.

Didascalia
Dominique Lapierre, 64 anni, a Calcutta.
Il suo best-seller, "La città della gioia" (Mondadori), ha venduto 7
milioni e mezzo di copie nel mondo.

Testo
"Un libro sulle bidonville di Calcutta? Oh mio Dio, Dominique...
Levati pure questo capriccio. Ma poi torna a occuparti di cose più serie". Era il 1985. L' editore francese Robert Laffont accettava l' ultima proposta di Dominique Lapierre, giornalista e autore di fortunati best-seller, con un sorriso sconcertato. Eppure quel libro, La città della gioia, su cui nessuno aveva scommesso una lira, quel "capriccio" di uno scrittore innamorato dell' India, non solo sarebbe diventato uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi dieci anni (7 milioni e mezzo di copie vendute in tutto il mondo, traduzioni in 31 lingue, un film da 27 milioni di dollari), ma avrebbe dato il via a un' avventura umanitaria senza precedenti.
Lapierre, che all' India aveva già dedicato il suo precedente best-seller, Stanotte la libertà, scritto con Larry Collins, aveva promesso che avrebbe devoluto la metà dei ricavati dai diritti d' autore alle bidonville di Calcutta. E l' ha fatto: 6 milioni di franchi (quasi 2 miliardi di lire) su 12 guadagnati. Ha sovvenzionato scuole, ospedali, centri di riabilitazione, "in una bidonville", dice, "dove si accalcano 75 mila persone, il cui reddito giornaliero non supera le 100 lire, dove c' è un latrina ogni 3 mila persone e un pozzo d' acqua ogni 4 mila". In quest' inferno Lapierre vanta di aver salvato 5 mila bambini dalla lebbra, costruito 55 pozzi, 5 chilometri di canali di irrigazione, sconfitto la tubercolosi in migliaia di famiglie, con una rete di interventi umanitari che oggi assorbe 750 milioni l' anno.
L' avventura è diventata missione, ma sopratutto un impegno economico. Se La città della gioia continua a occupare i primi posti in classifica per la narrativa, i diritti d' autore non bastano più a sovvenzionare i programmi di Lapierre. Lo scrittore-benefattore, che continua a vivere in un villa vicino a Saint-Tropez, a parte due mesi l' anno passati a Calcutta, ha indossato l' abito del pellegrino. Insieme alla moglie, Dominique gira l' Europa, fa conferenze, cerca donatori...
La scorsa settimana è arrivato in Italia, prima a Ravenna poi a Bologna, ospite dell' Associazione "Baby nel cuore", per una proposta di adozioni a distanza: "E' un' esperienza straordinaria", dice con inguaribile entusiasmo, "vedere quanta gente si riesce a mobilitare attorno a un progetto umanitario. Chi partecipa alle conferenze paga il biglietto, 25 o 30 mila lire, ma è sicuro che ogni soldo versato arriverà alla gente di Calcutta".
La passione di Lapierre, ex inviato di Paris Match, per l' India comincia nel 1971 ai tempi di Stanotte la libertà, una storia dell' indipendenza indiana che aveva fruttato 5 milioni di copie e ispirato il film sulla vita di Gandhi. "Era come se avessi un debito verso quel Paese", racconta, "sentivo che dovevo tornare per riscattarlo". Con 50 mila dollari ricavati da quel primo best seller, Lapierre e moglie nel 1981 partono per Calcutta. Madre Teresa presenta loro James Stevens, un inglese, ex commerciante di camicie, che aveva investito i suoi beni in un lebbrosario.
"Quando siamo arrivati noi quell' uomo, rimasto senza una lira, era sul punto di dover chiudere tutto. Gli abbiamo regalato i 50 mila dollari e deciso che avremmo lanciato un appello a Parigi".
L' iniziativa frutta 4 mila lettere, accompagnate da assegni, titoli bancari, donazioni. Ma Lapierre vuole fare di più. Si trasferisce a Calcutta per due anni: vuole scrivere un libro. "Giro per le bidonville in mezzo agli scarafaggi, la spazzatura, le malattie della baraccopoli. Raccolgo voci, annoto suoni, colori, odori. E scopro qualcosa di incredibile: un universo di gioia, di generosità, di capacità di godere la vita più che in ogni altra parte del pianeta". Il libro che ne viene fuori, un' epopea un po' idilliaca, dei poveri di Calcutta, a dispetto dello scetticismo dell' editore, smuove le coscienze di centinaia di migliaia di lettori. "La gente mi scrive da tutte le parti del mondo. C' è chi manda denaro, chi si offre volontario, pronto a partire per l' India". Lapierre si lancia nell' avventura umanitaria, con l' aiuto di un sacerdote svizzero, quel padre Lambert protagonista del suo libro, mobilitando soprattutto personale locale.
Per un privato che entra nel gioco gestito dalle grandi agenzie internazionali, si aprono subito difficoltà inimmaginabili. "Non basta mandare soldi ai poveri. Bisogna vedere come vengono impiegati. Per esempio, decidiamo di costruire un pozzo. Dove raccoglieremo l' acqua? Dagli indù, dai musulmani, dagli "intoccabili"? Chi ci darà il terreno? Chi costruirà la fossa? Ma il rischio è tornare un anno dopo e scoprire che il pozzo si è otturato e che nessuno si è preoccupato di farlo funzionare. Se prima non si educa la gente, si rischia di sperperare denaro, esattamente come fanno l' Unicef e le grandi organizzazioni umanitarie". Altro problema: i rapporti con le autorità indiane. "Ho dovuto minacciare il ministro dell' Elettricità del Bengala di fare uno sciopero della fame davanti al suo ufficio se non mi avesse fornito una linea elettrica per un tubercolosario. L' ha fatto, solo che l' elettricità c' era solo alle tre del mattino...".
La crociata di Lapierre si combatte su tutti i fronti, compreso quello occidentale. A cominciare dalle banche: "La Barclays, per esempio... Ho dovuto insultare il direttore, dirgli che è un ladro, che ruba i soldi dei poveri, prima di riuscire a far diminuire le spese per i cambi di valuta". Inutile anche una richiesta di fondi alla Commissione europea: "Bruxelles elargisce miliardi per i progetti umanitari, a condizione però che metà sia destinata alle strutture. Ma non servono grandi ospedali se non c' è chi li fa funzionare".
Per Lapierre il sistema è solo uno: "Scuotere le coscienze". Come ha fatto in una scuola di un quartiere "bene" di Parigi: "Ognuno di voi porti un secchio", ha detto ai piccoli allievi. "Metta dentro dell' acqua e provi a sollevarlo. Non ce la fate? Ecco: pensate che ogni ragazzino di Calcutta comincia la sua giornata così, alle 5 del mattino". I bambini sono rimasti stralunati.




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/08/95

Numero
32

Pagina
88

Titolo
EX IUGOSLAVIA SOLO QUEST' UOMO PUO' DECIDERE LA FINE DELLA GUERRA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA

Sommario
Ormai la battaglia divampa in Croazia e le bombe cadono sulle coste adriatiche. Come reagirà all' escalation Slobodan Milosevic? Ecco chi è e che pace vuole il capo della Serbia.

Didascalia
Militari serbi di Bosnia all' attacco dell' enclave musulmana di
Bihac: per difenderla, la Croazia ha schierato 100 mila uomini.
Slobodan Milosevic, 54 anni, presidente della Serbia.

Testo
Fuoco! Nella ex Iugoslavia la parola è passata di nuovo alle artiglierie e ai carri armati. Ma l' iniziativa è sempre nelle mani del presidente serbo Slobodan Milosevic, che, da tempo, ha smesso la pelle del lupo per indossare quella dell' agnello voglioso di pace.
"Ci vuole più coraggio per smettere di combattere che per cominciare", ha scritto nella lettera spedita il primo agosto al presidente bosniaco Aljia Izetbegovic e al comandante delle forze serbo-bosniache, Ratko Mladic. Parole al vento? Di certo Franjo Tudjman, presidente della Croazia, le ha ignorate. Dopo quarantotto ore ha scatenato una massiccia offensiva militare contro Knin, la roccaforte delle milizie serbe di Krajina: caschi blu colpiti, bombe sull' Adriatico, civili massacrati. Insomma, una vera e propria escalation di sangue che dalla Bosnia ha dilagato in Croazia. Come reagirà adesso Milosevic? Certo la sua lettera di "pace" era eloquente: "E' tempo di passi drastici: la pace non si ottiene con le armi, ma solo con i negoziati". E, in effetti, l' ex "brontosauro bolscevico" dalla testa quadrata, il viso grassoccio, gli occhi piccoli e furbi, 54 anni, di cui 16 vissuti da grande burattinaio della scacchiera iugoslava, è stanco. Ha paura di uno scontro diretto con i croati (che nel giro di tre anni si sono riarmati potentemente) ed è sempre più riluttante a inseguire il sogno di una grande Serbia per via militare.
Ecco la storia della sua conversione. Tutto comincia un anno fa. Ad agosto 1994 dichiara di voler chiudere i rapporti con i serbi di Bosnia, in particolare con il presidente Karadzic che si oppone al piano internazionale di pace. L' intenzione viene ribadita anche tre settimane fa, quando la sua foto compare in copertina sul settimanale americano Time, accompagnata da una frase eloquente: "Pace in sei mesi".
Uno degli obiettivi di Milosevic è di convincere l' Occidente ad abolire le sanzioni internazionali che da tre anni affamano la Serbia. Ma il presidente, forte dell' appoggio russo, potrebbe anche aver fretta di concludere il conflitto per realizzare l' ultima delle sue ambizioni: una rifondata Confederazione iugoslava con a capo la Grande Serbia.
Tutta la sua carriera si è svolta all' ombra di questo obiettivo.
Persino la sua nascita, il 20 agosto 1941, a Pozarevac, sud-est di Belgrado, è segnata da una componente "etnica": viene alla luce durante l' invasione nazista, nel mezzo della guerra fratricida tra croati fascisti, partigiani comunisti, serbi monarchici. L' ambiente familiare non lo aiuta: il padre, Svetozar, pastore ortodosso del Montenegro si separa presto dalla madre, Stanislava, insegnante e attivista comunista. Ma non è la separazione che sconvolge il giovane Milosevic, piuttosto il suicidio di entrambi i genitori. Una tragedia familiare che peserà sul carattere depresso del futuro presidente.
Slobodan, sin da giovane sempre vestito con sobrietà ed eleganza, si innamora di una compagna di liceo Mirjana Marcovic, una ragazza bruna, che porta un fiore tra i capelli in ricordo della madre comunista, morta nelle prigioni dei collaborazionisti fascisti. La donna destinata a diventare moglie e alleata di ferro di Milosevic (almeno fino a qualche settimana fa, quando ha accusato ufficialmente il marito di aver distrutto la sua famiglia e ufficiosamente di voler svendere la causa serba in cambio dell' abolizione delle sanzioni) appartiene alla nuova nomenklatura di Belgrado. Il padre e lo zio erano stati partigiani di Tito. La zia è segretaria del presidente e, si dice, anche amante. La stessa Mirjana conosce e frequenta l' entourage titino. Insieme a lei Slobodan decide di spostarsi a Belgrado per studiare legge. Conosce quello che diventerà il suo pigmalione: Ivan Stambolic, nipote di uno dei più potenti leader comunisti serbi. Più anziano di Slobodan di cinque anni, Ivan fa da battistrada: dova va l' uno, arriva poi l' altro. Cominciano con la Technogas, la più importante industria mineraria serba: prima la dirige Stambolic, subito dopo Milosevic.
Stessa cosa alla Beobanka, il maggiore istituto di credito di Belgrado. Poi, arriva la politica. Nel 1984 Milosevic diventa segretario della Lega dei comunisti di Belgrado, quattro anni dopo segretario nazionale del partito. Da quella posizione controlla l' esercito, la televisione, l' autorevole quotidiano Politika. Gli manca però il consenso delle masse. Tito è morto nel 1980. Il comunismo da solo non basta a sostenere la traballante confederazione iugoslava. C' è bisogno di una nuova ideologia: quella nazionalistica, sempre viva nella psicologia collettiva dei serbi, schiacciati da secoli di sconfitte e umiliazioni. Milosevic ripesca un memorandum pubblicato dall' Accademia delle scienze e delle arti contro Tito e il Kominter. Si appella alla storia, all' antico ma sempre bruciante ricordo della battaglia del Kosovo, nel 1389, quando i Turchi sbaragliarono i serbi di Lazar Hrebeljanovic.
Comincia la sua riscossa. E proprio dal Kosovo. A Polje, vicina Pristina, nel 1987, davanti ai dimostranti serbi che protestano contro le angherie della maggioranza albanese, Milosevic tuona: "Nessuno ha il diritto di maltrattarci. E nessuno lo farà più".
Accusa Tito: "Noi serbi siamo i soli ad aver perduto la nostra nazione in tempo di pace". Attacca gli albanesi: "Le mani dell' Islam sulla nostra terra". Stronca i croati: "Terroristi fascisti". Liquida gli sloveni: "Agenti del Vaticano".
Quando nel 1989 diventa presidente, le folle lo applaudono ritmicamente, gli studenti che osano protestare si trovano di fronte i carri armati. La Grande Serbia ingoia, con l' abolizione dell' autonomia concessa da Tito, il Kosovo e la Vojvodina.
Milosevic cita Lenin, si batte per il potere degli organi centrali, ma nello stesso tempo annuncia: "I serbi hanno diritto di vivere in un proprio Paese. Se dobbiamo combattere, combatteremo". Detto e fatto. Milosevic ai primi sentori di secessione accetta la sfida.
Prima contro la Croazia, poi contro i musulmani bosniaci. Mladic, il generale della pulizia etnica, diventa il suo braccio armato.
Karadzic, il presidente serbo-bosniaco, il suo microfono.
LA SVOLTA DEL 1992 Quell' anno, Milosevic sembra però pronto alle dimissioni, in cambio della revoca delle sanzioni e qualche altra contropartita personale (si parla, addirittura, della direzione di una banca negli Stati Uniti, uno yacht, una villa in California...).
L' accordo con gli Usa sfuma. Milosevic resta al potere. E trova comunque modo di arricchirsi. Tanto che la moglie, Mirjana, viene accusata di aver ritirato 278 mila franchi svizzeri dalla Dafiment, una banca fallita, attraverso la quale si sospetta passino i traffici illegali di Belgrado: dal contrabbando alle armi.
Oggi il presidente "pacifista" rinnega quei legami con i signori della guerra. Di più: li chiama "bloody liars", "fottuti bugiardi".
Dice di non saper nulla degli stupri etnici. Rinnega persino il nazionalismo: "La Iugoslavia deve essere la Nazione di tutti: serbi, croati, musulmani, sloveni". In un Grande Stato. Con capitale Belgrado. Peccato che gli slavi di Croazia contro questa idea abbiano preso le armi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
16/07/95

Numero
28

Pagina
82

Titolo
STO CON I SERBI E FACCIO I MILIARDI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI RICCARDO GERMOGLI

Sezione
STORIE

Occhiello
CRONACA ESCLUSIVO

Sommario
"Il presidente Milosevic? Un amico fraterno. Il comandante Arkan? Gli ho pagato le spese del matrimonio". Storia (tutta da leggere) di un ex emigrante molisano che giura di essersi laureato a Cambridge, di avere una casa a Hollywood e di arricchirsi con la guerra. C' è da credergli? Vediamo un po' ...

Didascalia
Giovanni Di Stefano, 40 anni, con la terza moglie Mirjana, serba: si
sono sposati a Termoli 15 giorni fa con una cerimonia fastosa.
FOTOSTORIA (CON AMICI INFLUENTI E GIOIELLI) DI UN PAPERONE DI
PROVINCIA
L' infanzia in un paese vicino a Campobasso, l' emigrazione in
Inghilterra,
i serbi... E il padre che dice: "Da lui non voglio soldi, non si sa
mai".
Anni Sessanta: Giovanni Di Stefano a un pic-nic coi familiari. Nato
a Petrella Tifernina (Campobasso) il primo luglio 1955, Di Stefano
dice: "Venni alla luce a mezzogiorno, mentre le campane
suonavano...".
Di Stefano (al centro) ha studiato in un college di Londra e
sostiene di essersi laureato a Cambridge.
Emigrato con la famiglia a Londra nel 1960, il piccolo Giovanni
diventa presto John.
A lezione di piano: in piedi il padre Carmelo, operaio in
Inghilterra.
Giovanni Di Stefano con la madre Michela, che oggi ricorda: "A
scuola era bravissimo, in inglese era il primo".
I genitori e il nonno (al centro) di Giovanni Di Stefano. Papà
Carmelo dice: "Cosa fa mio figlio? Non lo so e non mi fido".
La casa di Petrella Tifernina dove passano l' estate i genitori di
Di Stefano.
Con la prima moglie Josephine e con Michael, uno dei loro tre figli.
Le nozze del comandante serbo Arkan, marzo ' 95: Di Stefano, in alto
a destra, avrebbe pagato tutte le spese del matrimonio.
Due settimane fa, a Termoli, nel giorno del matrimonio con la terza
moglie Mirjana.
La tessera di generale di "prima linea" che Di Stefano avrebbe
ricevuto dal presidente serbo Milosevic.
L' orologio di platino e brillanti donato da Arkan a Di Stefano.
Giovanni Di Stefano nella Mercedes 600 Sl che ha fatto arrivare da
Belgrado per il suo matrimonio: valore 250 milioni.

Testo
Ricco, sembra ricco. Nelle sue scorribande finanziarie (Inghilterra, Stati Uniti, Belgrado dove vanta contatti con i vertici della nomenklatura serba) Giovanni Di Stefano, 40 anni, imprenditore, figlio di emigrati molisani, soldi deve averne fatti. E tanti. Basta vederlo sul terrazzino dell' Hotel Mistral di Termoli, riviera adriatica, quattro stelle e 6 piani di cemento, dove si è rivelato agli occhi dell' Italia due settimane fa. Celebrando all' insegna dello sfarzo e del clamore le terze nozze con Mirjana Stanic, sua segretaria a Belgrado. Coperto d' oro dalla testa ai piedi. Catenone al collo, anello con brillanti, fede nuziale con solitario. Persino gli occhiali sono d' oro massiccio. Per non parlare della macchina.
Una Mercedes 600 che due scagnozzi gli hanno portato dalla Serbia, "roba da 250 milioni", fa notare lui. Tanto oro, ma ciabatte di plastica blu e i bermuda a fiori...
Il problema, però, è un altro: capire come tanti soldi, "200, 300 milioni di dollari l' anno", a sentir lui, più o meno 320 miliardi di lire, siano arrivati nelle tasche di un figlio di emigrati di Petrella Tifernina, provincia di Campobasso. E perché il gotha di Belgrado (sbandieratissima la sua amicizia con il capitano Arkan, uno dei più discussi e sanguinari signori della guerra nella ex Jugoslavia, e con lo stesso presidente Milosevic) gli dia tanto credito. Al punto da farlo generale di "prima linea" dell' ex armata federale, "50 mila uomini al seguito", e da mettergli in mano la proprietà di un' emittente televisiva, di radio, giornali e di una compagnia aerea. Tanto più che lo stesso Di Stefano racconta di essersi fatto tre anni di carcere in Inghilterra, ai quali vanno aggiunti, ma su questi lui tace, fogli di via dall' una e dall' altra parte dell' Oceano.
Una biografia leggendaria. Ovvi i sospetti: traffico d' armi, di valuta, contrabbando di merci. "Uff...", sbuffa lui, aggrottando le sopracciglia. "Nessuno l' ha mai potuto dimostrare". E per dare la sua versione dei fatti si lancia ("posso parlare in inglese?") nei dettagli della sua intricatissima biografia. Il debutto è epico.
"Sono nato il primo luglio 1955, a mezzogiorno esatto, mentre suonavano le campane della messa". Sembra di vederli a Petrella Tifernina, papà Carmelo, mamma Michela, il nonno reduce della marcia su Roma, tutti attorno al pargolo, destinato qualche anno più tardi a fare il suo ingresso trionfale nel villaggio a bordo di una Rolls-Royce con quattro guardaspalle di scorta. "Un attimo", dice lui. "Prima vengono le umiliazioni, le angherie, le sofferenze patite in Inghilterra come figlio di immigrati". Papà Carmelo, come tanti altri di Petrella, cinque anni dopo la nascita di Giovanni parte infatti per Northampton, destinazione una fabbrica di scarpe, dieci ore di lavoro al giorno per 4 sterline alla settimana.
Moglie e figlio lo seguono l' anno dopo. Giovanni, che presto sarà John, è piccolo, ma sveglio. A 11 anni vince una borsa di studio che gli permette l' accesso alla prestigiosa Wellingborough School.
Da lì a Cambridge il passaggio è semplice. Meno semplice capire se Di Stefano si è laureato o no. Lui sostiene di aver preso "bachelor, master e PhD" in fisiologia, di aver addirittura insegnato all' Università.
Il padre, che d' estate vive ancora a Petrella, in una casa modesta di pietra grigia, è scettico: "Io di mio figlio so poco. Soprattutto dei suoi affari. Non gli ho mai chiesto soldi, perché non si sa mai, se combina qualche guaio... In quanto all' università, ci andava sì, ma poi si è stancato. Lavorava come benzinaio, commesso, rappresentante". Laurea o no, John-Giovanni usa Cambridge come trampolino di lancio. "Uff... Un sacco di contatti. Gente importante. John Major, per esempio, l' ho conosciuto lì".
Affari mirabolanti. Amicizie altolocate, ma sposa un' infermiera, Josephine Rogins, dalla quale ha tre figli, Michael Santino, Anthony John e Anna Mary. Cominciano gli affari. Il primo: una compravendita di videocassette per corrispondenza da Hong Kong: "Le acquistavo a 5 sterline, le rivendevo a 7". Roba da non crederci, ma a sentir lui nel giro di 2 anni, aveva 5 milioni di sterline in banca, cioè 13 miliardi di lire. Fonda una società, l' Italian International Financing: vende dollari allo Zimbabwe e al Sud Africa, nel periodo dell' embargo. "Quelli con i dollari compravano armi, lo sapevo, certo. Sarà stato "politically uncorrect", ma chi se ne frega... Non era affar mio". La polizia la pensa diversamente: il 17 giugno 1984, il primo arresto. Tre anni di carcere, dice lui, per frode in commercio. Cinque anni, secondo i rapporti ufficiali del tribunale criminale di Londra, presso il quale risulta incriminato per una faccenda più complessa: avrebbe incanalato i soldi dei piccoli risparmiatori su una finta banca, la Facati, poi avrebbe chiuso i battenti portandosi via due miliardi. "La galera? Ottima esperienza", dice lui. "Lì ho imparato a conoscere la gente".
Fuori dal carcere, il matrimonio con l' infermiera fallisce, ma Di Stefano si consola tirando un colpo mancino addirittura alla British Airways, le linee aeree britanniche, in quel momento interessate all' acquisto delle British Caledonian. "Come? Facendo un' offerta più alta di quella, ridicola, della British". Risultato: l' apertura di un' inchiesta sulla compagnia di bandiera britannica, che riuscirà a concludere l' affare, "ma al giusto prezzo", dice Di Stefano. Poi, ecco l' America. Los Angeles. Villa a Beverly Hills.
Secondo matrimonio con Tanja, altra segretaria che lo pianterà da lì a due anni. E una nuova avventura: l' acquisto, niente meno, della Metro Goldwyn Meyer. "Dietro l' affare di Giancarlo Parretti, ci sono io", sostiene. Peccato poi sia finita male, con Parretti in carcere, sospettato dal giudice Falcone di riciclare soldi della mafia, i legali del Crédit Lyonnais, che avevano finanziato l' operazione, scatenati: lo stesso Di Stefano costretto ad abbandonare gli Stati Uniti. E Parretti? In un articolo apparso sul Corriere della Sera, dichiara al giornalista Renzo Cianfanelli che Di Stefano si è inventato tutto. "Cianfanelli. Uff...", fa lui. "Non metterà più piede a Belgrado".
Gli amici di Belgrado. Già Belgrado. A sentir lui ci sarebbe arrivato nel 1992 per mezzo di Radojica Nikcevic, uomo d' affari montenegrino assassinato nell' ottobre del 1993 da killer ignoti. E lì, a dispetto dell' embargo, dell' inflazione galoppante, della guerra con la Bosnia, Di Stefano diventa proprietario della Sandhurst Assets Corporation, una società che registra entrate per 300 miliardi: grazie a questa società, il Rockefeller di Petrella Tifernina controlla una società inglese, la Montgomery Portfolio, una banca, la Sumadija, una stazione radiotelevisiva, la Pingvin, un giornale e una compagnia aerea, la Italo-Jugoslav Airlines. Tutto con il beneplacito di Milosevic, che avrebbe addirittura mandato il figlio Marko, in incognita, alle nozze di Di Stefano a Termoli. E con la benedizione del capitano Arkan il quale, per ricambiare il conto del suo matrimonio che Di Stefano avrebbe pagato per intero, gli ha regalato un orologio tempestato di diamanti. Oltre ad avergli messo di scorta alcune delle sue "tigri". Come Sasha, 23 anni, montagna di muscoli, cranio rasato che vigila notte e giorno all' Hotel Mistral. "Inglese? No, lui parla solo serbo E' un consiglio di Arkan: se non capiscono, non mettono il naso tra i tuoi affari".
Un lavoro misterioso. Ma in questo John Di Stefano è molto abile. Il padre dei suoi affari non sa niente. Parenti e amici, neanche a parlarne. Angelo Di Stefano, per esempio, marito di una cugina, presidente pidiessino di una commissione regionale, ricorda "tante vacanze passate assieme, pranzi e cene pagati da Giovanni". Unica nota su Belgrado: "Si fanno business che non ne hai idea". E così, anche il sindaco di Petrella, Antonio Di Lallo, compagno d' asilo di Giovanni: "Lo conosco eccome, da bambino mi spaccò una bottiglia in testa". Ogni altra notizia è un sentito dire: "Anni fa aveva un ufficio di rappresentanza al Mistral di Termoli con 10 linee telefoniche e segretarie da sballo. Tentava affari con gli imprenditori locali. Voleva costruire un aeroporto...". Se il sindaco di Petrella e il cugino hanno accettato l' invito al matrimonio, gli altri politici del Molise hanno rifiutato. In compenso non mancavano, allarmati dall' arrivo dei "serbi", uomini dei servizi, poliziotti e carabinieri. Compresi quelli del Ros di Campobasso, che su Di Stefano hanno già un fascicolo nel cassetto, con le sue truffe tra Londra e Los Angeles e persino una in Italia.
Non si sbilanciano. Ma lasciano intendere: "Non è tutto oro quello che luccica". A dispetto del catenone al collo, l' anello con i brillanti, l' orologio di Arkan.
Le foto del servizio sono dell' agenzia Massimo Sestini



Testata
Epoca

Data pubbl.
15/01/95

Numero
2

Pagina
110

Titolo
CINQUE PUNTI PER CAPIRE COSA SUCCEDE

Autore
A CURA DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
DOSSIER

Testo
1 CHI COMBATTE E CHI POTREBBE ESSERE IL VERO VINCITORE La prima guerra combattuta da Mosca in regime post-comunista, il primo atto di forza di Eltsin contro la secessionista repubblica musulmana di Cecenia (1 milione e 200 mila abitanti su un territorio grande più o meno come il Trentino) rischia di trasformarsi per la Russia in una clamorosa disfatta. Perlomeno di immagine. Con 12 mila soldati, armati solo di fucili e scarsa artiglieria pesante, per quasi un mese, dall' 11 dicembre, sono riusciti a respingere l' offensiva di aria e di terra dell' ex Armata Rossa. Mentre a Mosca a Capodanno Eltsin brindava alla presa imminente della capitale, Grozny, i guerriglieri ceceni contrattaccavano distruggendo 250 carri armati russi. Il bilancio: migliaia di vittime tra i civili, centinaia tra i soldati, un' ondata di profughi.
2 PERCHE' E' SCOPPIATA LA GUERRA E CHE INTERESSI CI SONO IN BALLO La crisi cecena si apre il primo novembre 1991, quando il presidente Dzhokhar Dudaev proclama l' indipendenza. Eltsin tenta di domare la rivolta, ma il Parlamento si oppone a qualsiasi azione militare.
In Cecenia si organizza un fronte pro-russo che, tra luglio e dicembre 1993, lancia una guerriglia su vasta scala. Ma è solo a dicembre 1994 che l' esercito russo decide di intervenire. Eltsin dichiara che l' operazione è diretta a liberare il popolo di Cecenia dalle bande armate e dai clan mafiosi. I motivi sono però anche altri: la difesa dell' "integrità" territoriale russa, la paura che altre repubbliche possano seguire l' esempio. E infine gli interessi economici: la Cecenia è attraversata da ferrovie e gasdotti, le sue raffinerie producono 4 milioni di tonnellate di petrolio l' anno.
3 CHI E' IL LEADER CECENO, IL GENERALE DZHOKHAR DUDAEV Il grido di battaglia del leader ceceno è: "Indipendenza o morte".
Nazionalista fino al fanatismo, il generale Dudaev ha cancellato l' opposizione interna: l' anno scorso ha sciolto il Parlamento.
Appena nato, nel 1944, Dudaev fu deportato in Kazakhstan insieme a gran parte del suo popolo: Stalin accusava i ceceni di collaborazionismo con i nazisti. Tornato in patria nel 1957, ha abbracciato la carriera militare: nel 1991 è diventato presidente di un Paese diviso in 130 clan, pronti a battersi tra loro, ma ora compattissimi. I suoi avversari lo accusano di aver lasciato proliferare la mafia cecena che controllerebbe, soprattutto a Mosca, traffico d' armi, di auto rubate, il racket sulle attività commerciali e sulla vendita del petrolio.
4 PERCHE' L' "INVINCIBILE ARMATA ROSSA" SI E' FATTA RIDICOLIZZARE Era l' esercito del terrore, una forza gigantesca con quasi 4 milioni di soldati e 5 milioni di personale addetto ai compiti più diversi. Oggi l' ex Armata Rossa viene messa in difficoltà da un pugno di guerriglieri. Com' è successo? A parte la tenacia delle truppe di Dudaev, la crisi nasce soprattutto dalla defezione di ufficiali e soldati, stanchi di combattere guerre "fratricide". Il primo a ribellarsi è stato Ivan Babichev, il generale al comando di un terzo delle forze mandate in Cecenia che, il 15 dicembre, si rifiuta di lanciare un assalto contro la popolazione civile, definendolo "un atto criminale". Contro l' intervento anche due viceministri della difesa, il generale Valeri Mironov e Boris Gromov, l' uomo che aveva guidato il ritiro dall' Afghanistan, mentre altri 6 generali vengono destituiti per "indecisione e inerzia".
5 LE ALTRE REPUBBLICHE IN CUI PUO' SCOPPIARE LA BOMBA ISLAMICA Dudaev si dichiara "partigiano di uno stato islamico a direzione civile". I suoi soldati combattono al grido di "Allah è grande". Il peso dell' Islamismo si fa sentire nel conflitto ceceno, ma trova echi tanto in Caucaso, dove pesa l' influenza di Iran e Turchia, quanto nelle altre ex repubbliche sovietiche. Da quando è crollato l' impero, gli scenari di guerra, non ancora religiosa, ma comunque condizionata dall' Islamismo, si sono moltiplicati dappertutto. In Caucaso, Armeni cristiani ed Azeri musulmani si sono combattuti fino al maggio scorso per il possesso del Norgorno Karabakh, così come in Georgia si scontrano ortodossi con osseti e Abkhazi islamici. A Oriente c' è guerra in Tagikistan, ma potrebbero essere contagiati dal fondamentalismo anche Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakhstan, tutti Paesi musulmani.




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/08/94

Numero
32

Pagina
114

Titolo
QUESTA DONNA DA' DA MANGIARE AL MONDO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
E' IN ITALIA IL QUARTIER GENERALE CONTRO LA FAME

Sommario
Ruanda e Armenia, Georgia ed Eritrea... Sulla Terra 18 milioni di persone rischiano oggi di morire per mancanza di cibo. Si può far qualcosa per salvarle? Ci prova ogni giorno, proprio da Roma, un' agenzia dell' Onu guidata da una signora molto decisa. E altrettanto piena di problemi: "Per esempio, devo trovare subito 211 miliardi di lire". Da due anni dirige il Programma alimentare mondiale dell' Onu. Fu una sua lettera a Boutros-Ghali a dare il via all' invasione della Somalia

Didascalia
Profughi ruandesi in Zaire. L' Africa è in cima alle preoccupazioni
del Programma alimentare mondiale, l' agenzia Onu che lotta contro
la fame.

Testo
L' ultima "emergenza" ha avuto il ritmo ossessivo di un morto al minuto: in Zaire, dove il colera e la denutrizione hanno lasciato più di centomila cadaveri tra i profughi ruandesi. Ma il rischio della fame incombe anche su altri fronti: "Se il conflitto in Ruanda ha messo in pericolo di vita 4 milioni di profughi, nel Corno d' Africa, a causa delle guerre e delle carestie, potremmo assistere a un' ecatombe di 16 milioni di persone. Più due milioni e 300 mila persone a rischio nelle ex repubbliche sovietiche". La mappa dell' emergenza-cibo arriva dal Pam, il Programma alimentare mondiale, una delle più importanti agenzie umanitarie dell' Onu, con quartier generale a Roma, in via Cristoforo Colombo. E per bocca di una donna: Catherine Bertini, 44 anni, italo-americana, direttore esecutivo di quest' organismo che funziona da "pronto soccorso" contro la fame nel mondo. Quella provocata dalle calamità naturali, dalla povertà e soprattutto dalla guerra. Il suo intervento di questi giorni, alla ricerca di appoggi finanziari per il Ruanda, è anche una corsa contro il tempo: "Abbiamo bisogno di 132 milioni di dollari (più di 211 miliardi di lire) per comprare 184 mila tonnellate di cibo. E' il minimo indispensabile per assicurare la sopravvivenza dei profughi e degli sfollati fino alla fine dell' anno".
Non è la prima volta che Catherine Bertini si trova ad affrontare emergenze "apocalittiche" (per sua stessa definizione) come questa.
Ex viceministro repubblicano dell' Agricoltura negli Stati Uniti sotto l' amministrazione Bush, dal 1992, da quando ha lasciato la sua casa di New York per gli uffici romani del Pam (seguita dal marito, Thomas Haskell, fotografo free-lance), questa donna dalla corporatura minuta ma dal viso illuminato da occhi scuri, vivacissimi, ha coordinato programmi d' aiuto in 88 paesi del Mondo, amministrando una struttura con 1.880 dipendenti e un bilancio che l' anno scorso era di 1 miliardo e 500 milioni di dollari (circa 2 mila e 400 miliardi di lire). Dalla Bosnia alla Somalia, dalla Cambogia al Sudan, dall' Angola al Mozambico, nel 1993 ha sfamato 43 milioni di persone nel mondo, distribuendo 3 milioni di tonnellate di cibo.
Per la Somalia, anzi, Catherine Bertini ha fatto qualcosa di più. A novembre 1992, una sua lettera al segretario dell' Onu Boutros-Ghali, in cui minacciava di sospendere gli aiuti, è servita da detonatore alla missione militare. Prova di forza o di potere, fatto sta che pochi giorni dopo il suo appello George Bush preparava i marines per lo sbarco sulle spiagge di Mogadiscio.
Oggi una foto di Catherine Bertini che chiacchiera con Bush campeggia negli uffici romani del Pam, accanto a una con Reagan. La Bertini non parla italiano, nonostante il nonno di Frosinone, la nonna del Molise, padre e madre calabresi.
Epoca: Signora Bertini, prendendo spunto dal Ruanda, cosa c' è che non funziona nel meccanismo degli aiuti umanitari? Bertini: Il problema è preparare programmi che servano veramente allo scopo. E questo non sempre succede. Bisogna sempre compiere una missione preliminare per capire quali sono i bisogni reali: innanzitutto quanto e quale cibo mandare. Per i profughi ruandesi di Goma siamo riusciti, per esempio, a organizzare da Entebbe, in Uganda, convogli in grado di trasportare 400 tonnellate di cibo al giorno, l' 80 per cento di quanto serve nei campi.
Epoca: In Ruanda, un mese e mezzo fa, i vostri funzionari dichiaravano di avere 4 mila tonnellate di cibo nei magazzini, ma di non poterle prelevare. Cosa è successo? Bertini: Parte di quel cibo purtroppo è stata saccheggiata. Ma adesso la nostra gente entra ed esce regolarmente da Kigali e la distribuzione è ricominciata. Il nostro obiettivo, anzi, è convincere i profughi a ritornare in patria.
Epoca: Il quotidiano francese Le Monde vi ha accusato di aver trascurato alcune aree del Paese. Addirittura di non aver esaudito il vostro mandato. E' vero? Bertini: In Ruanda abbiamo un accordo con la Croce Rossa Internazionale. Noi ci occupiamo della parte est, loro della parte ovest. Quando è cominciato l' esodo dei profughi verso la Tanzania, in 5 giorni eravamo già pronti a intervenire. Così in Zaire: il 16 luglio, 48 ore dopo che un milione di profughi si era rifugiato a Goma, avevamo creato il ponte aereo con Nairobi in Kenya ed Entebbe in Uganda.
Epoca: Eppure sui ritardi scrive anche Graham Hancock, ex corrispondente dall' Africa orientale per The Economist. In un suo libro, I signori della povertà, vi ha accusato di aver bisogno di 196 giorni per intervenire in caso di emergenza. E' possibile? Bertini: Il problema è dei Paesi donatori. Ogni volta che scatta un' emergenza noi lanciamo loro un appello. C' è chi risponde immediatamente con denaro o con derrate alimentari. C' è invece chi prende tempo, chi chiede un rapporto completo sui bisogni, sulle condizioni del Paese, sul sistema di trasporti che vogliamo utilizzare... Si può arrivare anche a 196 giorni.
Epoca: E nel frattempo la gente muore di fame? Bertini: No, noi fortunatamente abbiamo, nei nostri depositi sparsi per il mondo, derrate normalmente destinate ai programmi di lungo termine. Se i donatori non rispondono subito, interveniamo attingendo a queste.
Epoca: Programmi di lungo termine? Bertini: Sì, il Pam in alcuni Paesi lavora anche per sostenere lo sviluppo. Purtroppo, le emergenze, e parlo di quelle scatenate dalla guerra, hanno quasi sempre il sopravvento: nel 1993, il 94 per cento dei nostri interventi sono stati compiuti in aree belliche.
Epoca: Quali difficoltà incontrate in zona di guerra? Bertini: Una volta che i viveri vengono scaricati dagli aerei o dalle navi, bisogna portarli nelle zone tagliate fuori dagli eserciti in lotta. Si tratta di negoziare il passaggio dei nostri camion, spesso check-point per check-point, e sempre senza nessuna garanzia. In qualsiasi momento i nostri convogli possono essere bloccati. E' successo in Angola, in Bosnia, in Mozambico. Anche in Ruanda.
Epoca: In Angola vi ostacolava l' Unita. Nella ex Iugoslavia, i serbi. In Ruanda le associazioni umanitarie sono state invece accusate di operare solo nelle zone controllate dal Fronte patriottico. Anche voi? Bertini: Non si tratta di essere d' accordo con una fazione o con l' altra. Dipende da chi controlla la zona quando noi passiamo.
Purtroppo l' okay di una parte non ci protegge mai del tutto contro gli attacchi. Abbiamo avuto diverse vittime in questi anni. Due autisti in Uganda, quattro in Angola l' anno scorso. I loro camion si erano rotti. Mentre aspettavano i soccorsi sono stati massacrati.
Epoca: E i saccheggi? In Somalia la Croce Rossa era del parere che se qualcuno assalta un camion bisogna lasciar fare. E' un modo per far arrivare il cibo alla gente. Lei che cosa ne pensa? Bertini: Non sono d' accordo. Però se qualcuno ti punta un fucile alla testa, non resta che consegnare tutto. E' il prezzo che dobbiamo pagare. Per questo abbiamo bisogno di scorte armate.
Epoca: Anche in Tanzania, nel campo di Benaco avete denunciato furti...
Bertini: Sì, è vero. Insieme all' Acnur, l' Alto Commissariato per i profughi, con il quale abbiamo un accordo per la distribuzione degli alimenti nei campi, abbiamo dovuto adottare alcune misure di sicurezza. Per esempio posti di blocco fuori e dentro Benaco, bolle d' accompagnamento per il trasporto del cibo, divieto ai camion non autorizzati di caricare derrate alimentari.
Epoca: Succede anche che i viveri rubati vengano venduti sul mercato nero, come nella ex Iugoslavia. E che addirittura servano per comprare armi. Cosa fate per impedirlo? Bertini: Noi controlliamo la distribuzione del cibo fino al momento in cui viene dato in consegna alle "Organizzazioni non governative" che spesso si occupano di farlo arrivare alla gente. O fino a quando non viene riposto nei magazzini. Che fine faccia dopo non lo sappiamo. Nella ex Iugoslavia negli ultimi due anni abbiamo perso però soltanto 688 tonnellate di cibo su 800 mila trasportate. Non mi sembra molto. E abbiamo tracciato strade commerciali, riaperto campi all' agricoltura... Giorni fa una donna di Sarajevo mi diceva che adesso i prezzi sul mercato sono addirittura scesi perché di cibo ce n' è tanto.
Epoca: E la Somalia? Quando ha scritto a Boutros-Ghali lei parlava di un sentimento di "frustrazione". Adesso che i Caschi blu occidentali hanno abbandonato il Paese? Bertini: Eravamo in una situazione disperata. Le nostre navi venivano attaccate. Non si poteva girare per le strade. Adesso la situazione è più stabile. La gente ha cibo, sta ricominciando ad allevare il bestiame, i bambini sono tornati a scuola. E anche le fazioni sembrano più pacifiche. Non lo giudicherei un fallimento.
Anzi, mi sembra un successo Epoca: Grazie ai mass media, anche? Bertini: Sì, i mass media hanno avuto il loro ruolo. Ma non esagererei. Nello stesso periodo in cui fotografi e cameramen facevano a gara per riprendere i bambini che morivano in Somalia, noi stavamo lavorando anche nell' Africa del Sud, colpita da una spaventosa siccità. E in Paesi come l' Angola e il Mozambico per di più c' erano gli strascichi della guerra. Diciotto milioni di persone stavano rischiando la vita, molti di più dei 2 milioni e mezzo della Somalia. Nessuno ha scritto una riga.
Epoca: Dove scatteranno le prossime emergenze? Bertini: L' Africa rimane sempre un buco nero. Nella parte orientale abbiamo 16 milioni di persone che rischiano di morire di fame per la siccità e per gli effetti delle guerre civili. Etiopia, Eritrea, Sudan, la stessa Somalia... In Burundi si è riaccesa la guerra civile... Un' altra emergenza è quella delle ex repubbliche sovietiche. Guerre e guerriglie rendono impossibile il decollo dell' economia, mettendo a rischio 2 milioni e 300 mila persone.
Parlo dell' Armenia, dell' Azerbaigian, della Georgia, del Tagikistan, del Kirghizistan.
Epoca: I Paesi donatori, che si muovono per l' Africa, non sembrano altrettanto sensibili verso le ex repubbliche sovietiche...
Bertini: E' così. Abbiamo chiesto 93 milioni 650 mila dollari per un anno (circa 149 miliardi di lire). Ne abbiamo raccolti solo 20.
Inoltre, per trasportare il cibo dobbiamo ristrutturare la ferrovia transaucasica e i porti di Poti e Batumi in Georgia.
Epoca: E i progetti a lungo termine? Bertini: Il Pam spende un miliardo e 600 milioni di lire al giorno per sostenere progetti ambientali. Una delle nostre formule è "Food for work", cibo in cambio di lavoro. In Cina per esempio abbiamo creato allevamenti per il pesce. Nella Repubblica dominicana aiutiamo la gente a coltivare i campi.
Epoca: Le polemiche infuriano sugli sperperi dell' Onu. Come fa lei a controllare un' agenzia con 1880 dipendenti e un bilancio di un miliardo e 500 milioni di dollari? Bertini: Sa quanto spendiamo per il nostro staff? Il 6 per cento del budget annuale: 96 milioni di dollari (circa 152 miliardi di lire).
E' una cifra molto bassa rispetto alle altre agenzie. Abbiamo inoltre un comitato di controllo che vigila sulle spese, a cominciare da quelle per l' acquisto del cibo. I trasporti incidono parecchio. Ma sui costi del personale... La nostra gente lavora anche 18 ore al giorno, e spesso rischia la pelle.

BOX
SE NON SI FA QUALCOSA SUBITO, QUI MORIRANNO A MILIONI SOMALIA La Somalia, e tutto il Corno d' Africa, è una delle zone del mondo dove la fame è endemica. Nei prossimi mesi in quest' area rischiano di morire 16 milioni di persone. Ciò nonostante, secondo Il Pam-World Food Programme, l' intervento umanitario Onu in Somalia è considerato "un successo".
GEORGIA Colpita dalla crisi economica che ha travolto molte delle repubbliche ex sovietiche e da una sanguinosa guerra civile, la Georgia ha almeno 250 mila sfollati bisognosi d' aiuto. Il Pam ha chiesto per loro 22 miliardi e 500 milioni di lire. Nell' ex Urss l' emergenza tocca anche Tagikistan e Kirghizistan.
AZERBAIGIAN Nella repubblica ex Urss dell' Azerbaigian (nella foto: rifugiati azeri al confine con l' Iran), la guerra ha provocato 600 mila sfollati. Per nutrirli, il Pam chiede cibo per oltre 25 miliardi di lire. Nella confinante repubblica dell' Armenia la situazione è simile: necessari 20 miliardi per 350 mila rifugiati.
RUANDA E' l' emergenza più catastrofica che il Pam si trova a dover affrontare. Nell' area, secondo i calcoli del Programma alimentare mondiale, ci sono 4 milioni di persone, tra profughi e sfollati, che hanno bisogno di aiuti umanitari. Il costo dell' operazione fino alla fine dell' anno sarà di 211 miliardi di lire.
COME MAI L' ONU HA SCELTO ROMA Tutto partì agli inizi del secolo. Quando uno studioso Usa incontrò il re d' Italia.
Il Pam, Programma alimentare mondiale - World Food Programme, nasce nel 1963 all' interno della Fao (Organizzazione per l' Agricoltura e l' Alimentazione). Ma in pochissimo tempo estende il proprio mandato, trasformandosi nel "braccio alimentare" dell' Onu. Come la Fao, però, per una curiosa tradizione che si tramanda dall' inizio del secolo, ha la sua sede centrale a Roma.
Era il 1905 quando David Lubin, un signore californiano appassionato di scienze agronome, riuscì a ottenere dal re d' Italia Vittorio Emanuele III quanto negatogli da altri governi: le sovvenzioni per la creazione di un istituto internazionale per l' agricoltura, una sorta di organismo ante-litteram per la cooperazione. Lubin si proponeva infatti di promuovere, attraverso l' istituto, lo scambio e l' assistenza tra le Nazioni. Sede scelta fu appunto Roma, divenuta da quel momento capitale mondiale dell' alimentazione. L' istituto di Lubin esiste ancora, a Villa Borghese.




Testata
Epoca

Data pubbl.
31/05/94

Numero
21

Pagina
30

Titolo
GUARDATE QUEST' UOMO: E' L' EROE ITALIANO IN RUANDA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
HA SALVATO 200 NOSTRI CONNAZIONALI MENTRE LA GUERRA CIVILE FACEVA 500 MILA MORTI

Sommario
Quando a Kigali, il 6 aprile, è scoppiato l' inferno, il console Pierantonio Costa non ha avuto esitazioni. Sfidando la ferocia sanguinaria delle fazioni in lotta, ha percorso il Paese per 5 giorni con la sua Toyota, portando a termine un' operazione quasi impossibile. E anche decine di bambini orfani, raccolti nelle missioni, gli devono la vita. "C' erano barricate ogni 500 metri. Sentivamo i colpi di machete sul nostro pulmino, le raffiche di mitra. Il console in testa proteggeva il passaggio" "I missionari non capiscono mai quando il pericolo è reale"

Didascalia
Sono trecentocinquantamila i profughi fuggiti dal Ruanda e raccolti
dall' Onu in campi sterminati e privi di tutto ai confini con la
Tanzania

Testo
Non ha lasciato l' Africa. Si è solo trasferito a Bujumbura, capitale del Burundi. Ma da lì Pierantonio Costa, 55 anni, console onorario d' Italia a Kigali, continua a far la spola con il Ruanda, per tentare di salvare quanta più gente possibile. Mentre il massacro infuria - 500 mila cadaveri in un mese e mezzo di guerra, corpi fatti a pezzi con il machete, aggrovigliati in mucchi senza sepoltura, 350 mila profughi in fuga verso lo Zaire, il Burundi, la Tanzania - il console è tornato altre sei volte oltre frontiera.
Eppure la sua parte, Pierantonio Costa, unico rappresentante italiano in Ruanda, l' aveva già fatta: cinque terribili giorni, dal 6 aprile, quando è scoppiato il conflitto etnico-politico tra le milizie governative hutu e i ribelli tutsi, per raccogliere ed evacuare gli occidentali, tra i quali 200 italiani. In quell' occasione il console onorario, titolo pro-forma che spesso non significa nulla ma che in questo caso significa, eccome, si era meritato un' onorificenza al merito e al valore civile dal nostro ministero degli Esteri per "l' esemplare e coraggioso comportamento tenuto".
A bordo della sua Toyota, con la scorta di due gendarmi ruandesi armati di mitra, mentre i cannoni risuonavano su Kigali e le barricate tagliavano le strade dentro e fuori città, il console correva da un angolo all' altro del Paese per raccogliere i connazionali, proteggere la gente in fuga. "Ha tenuto contatti con tutti", racconta il medico Giandomenico Colonna, volontario in Ruanda per la Fondazione Tovini di Brescia, "grazie ai walkie-talkie che ci aveva distribuito per comunicare in caso di pericolo".
Si è esposto in prima persona e ha continuato a farlo anche in questi giorni. L' ultima "trasferta": da Bujumbura, sempre al volante di una macchina privata (non più la Toyota, rimasta all' aeroporto di Kigali), fino a Nyanza, per organizzare l' uscita di due padri congregazionisti, Eros Barile e Vito Misuraca, rimasti in Ruanda con 200 orfani. Un intervento che gli strappa un commento polemico: "I missionari fanno sempre di testa loro, non capiscono mai quando il pericolo è reale".
IN AFRICA DA 40 ANNI Stempiato, occhi chiari sul viso bruciato dal sole, il console, di origini "profondamente venete" per sua stessa definizione, ma africano d' adozione per i quasi 40 anni passati tra Zaire e Ruanda, proviene da una famiglia la cui storia si perde in lontani ricordi coloniali. Il padre Pietro Giuseppe, nativo di Montebello Vicentino, è una figura carismatica che nessuno dei Costa può fare a meno di ricordare. Agronomo, partito nel 1911 per la Somalia, per la costruzione del villaggio Duca degli Abruzzi, venne poi mandato in Angola per liquidare i beni della Banca di Roma. Dopo una leggendaria traversata a piedi dell' Africa, durata 8 mesi, approdò sulle rive del lago Kivu in Zaire. Da Mariangela Colombo, ragazza milanese, sposata a 40 anni, ebbe 7 figli (di cui uno morto). Ma incinta del sesto, il futuro console Pierantonio, la donna, di salute cagionevole, volle tornare in Italia. Pierantonio Costa nacque così a Mestre il 7 maggio 1939. Studiò a Vicenza e Verona e a 15 anni, quando la famiglia, dopo la morte della madre si era spaccata, metà in Africa metà in Italia, decise di raggiungere lo Zaire, per aiutare il padre nelle piantagioni di arance e caffè.
Nel 1965, una nuova frontiera: padre e figlio si trasferiscono in Ruanda, da tre anni indipendente dal Belgio. Qui avviano una nuova attività commerciale, con ramificazione anche in Burundi, dove vive il fratello Arturo: un' azienda per la ricostruzione di pneumatici e un negozio di macchinari, al centro di Kigali, dove dal 1989 ha anche sede il consolato.
Pierantonio, carattere riservato, uomo di poche parole, ma "autorevole, molto autorevole anche in famiglia" (dice uno dei nipoti, Luca Crivellaro che vive a Roma), ha sempre avuto buoni rapporti con la comunità occidentale di Kigali. Se facesse o no affari, se politicamente stesse da una parte o dall' altra, questo è un argomento che nessuno vuol toccare. Di certo: "E' stato un console diverso dai precedenti", dice Guido Acquaroli, agronomo, 7 anni in Ruanda per l' organizzazione "Amici dei popoli" di Bologna.
Ufficio aperto tutti i giorni, segretaria (Renata Tomini, giovane donna dinamica ed efficiente) sempre al suo posto, lui lo si poteva contattare anche in negozio o a casa, senza imbarazzo. "A maggio di due anni fa gli chiesi aiuti alimentari per 700 rifugiati. Il giorno dopo Pierantonio era lì con un camioncino carico di roba raccolta dalle associazioni umanitarie".
Presidente del Rotary, sposato con una signora svizzera, Marian, che invece è socia dei Lion' s, Pierantonio Costa ha tre figli: Olivier, 22 anni, Caroline 20, studenti universitari in Belgio ( "perché il futuro dei giovani", sostiene il padre, "non può essere in Africa"), e Matthieu, 12 anni. "Kigali", dice, "era un posto dove si viveva abbastanza bene. Anche se sapevamo tutti che il Paese nascondeva sotto un' apparente prosperità problemi molto seri".
UN CONFLITTO TRIBALE Problemi che di anno in anno si sono fatti sempre più drammatici, nello scontro tra la maggioranza hutu che ha preso il potere con la partenza dei belgi e la minoranza tutsi, vecchi "persecutori" ed ex casta dominante. Nel 1990, quando gli esuli tutsi danno vita al Fronte patriottico ruandese, oggi protagonista nella guerra civile, la comunità occidentale entra in stato d' allarme. Nell' agosto 1993, però, hutu al governo e tutsi firmano gli accordi di Arusha, che avrebbero dovuto garantire un ministero di transizione allargato all' opposizione. Speranze illusorie. A ottobre, l' assassinio del neo-presidente hutu nel vicino Burundi, Melchior Ndadaye, mette in allarme anche il Ruanda.
I diplomatici internazionali preparano i primi piani di evacuazione, mentre il console allerta gli italiani. A febbraio, quando si comincia a capire che gli impegni promessi rimarranno sulla carta, la tensione è talmente alta che Costa pensa ai walkie-talkie. "Siamo stati convocati nel suo ufficio", ricorda Guido Acquaroli, "per le prove generali". Il 6 aprile, dopo l' uccisione del presidente hutu Habyarama, le radioline entrano in funzione. Pierantonio Costa si mette all' opera. L' amicizia personale con un colonnello dei gendarmi gli garantisce un paio di uomini di scorta, con i quali può avventurarsi nelle zone di pericolo per il recupero di civili, missionari, volontari. Guido Acquaroli che si trovava a Musha, 45 chilometri da Kigali, per un progetto di elettrificazione, viene tirato fuori proprio dal console: "Eravamo circondati da hutu armati di machete. I tutsi della zona si erano rifugiati in chiesa con una suora spagnola, 3 italiane, 2 novizie ruandesi. Quando è arrivato Pierantonio è cominciata la fuga. Una barricata ogni 500 metri.
Sentivamo colpi di machete sul nostro pulmino, raffiche di mitra. Il console in testa proteggeva il passaggio, parlando in Kiswhaili".
SALVATA IN EXTREMIS Un' altra italiana, Roberta Brusaferri, 31 anni, l' ha chiamato per radio mentre era assediata nella camera blindata dell' associazione per la quale lavorava, alla periferia di Kigali: "I miliziani hanno sfondato la porta. Mi hanno derubata, ma sono viva".
"Abbiamo lavorato in équipe", dice il console, includendo nel gruppo oltre la fidata segretaria, il signor Bettega, direttore dell' azienda italiana Astaldi, e il figlio Olivier, che dal Belgio era arrivato in vacanza pasquale a Kigali. All' aeroporto è stato lui a tenere il conto degli occidentali in partenza sul C-130 mandato dall' Italia, con i paracadutisti del Col Moschin. "Loro sì che hanno fatto molto", dice ancora il console che, imbarazzato, cerca di mettersi al riparo dagli eroismi attribuitigli, "si sono fatti sparare addosso per cercare dei religiosi che non volevano muoversi. Mentre l' Onu, con i 2 mila e 500 caschi blu presenti in quel momento, non è stata capace di muovere un dito".
Non ha molta fiducia nel futuro prossimo Pierantonio Costa. Tornerà a Kigali? O finirà altrove la sua avventura africana? "Tornare...
nei limiti in cui si possa ancora vivere in Ruanda. Ma questo sarà un lungo massacro".




Testata
Epoca

Data pubbl.
24/05/94

Numero
20

Pagina
126

Titolo
CON I NOSTRI A HEBRON MA APPENA ARRIVATI GIA' COMINCIANO A LITIGARE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
MISSIONE PALESTINA

Sommario
Pietre dai palestinesi. Proteste dagli israeliani. Minacce dai fondamentalisti islamici. Ma, ha scoperto "Epoca", i veri problemi dei 35 carabinieri italiani inviati nei Territori sembrano essere altri. E cominciano da un comandante norvegese "troppo invadente".

Didascalia
ATTACCATI 8 maggio: attaccati a sassate gli osservatori, tra cui 35
carabinieri. L' esercito israeliano ha usato i lacrimogeni. Foto
piccole: gli osservatori controllano gli effetti di una
perquisizione in una casa palestinese; i tre comandanti della
missione.
"I NORVEGESI CI AFFIDANO TUTTI I RUOLI PIU' INGRATI. E POI SI
LAMENTANO"
PRIMI AFFARI Ambulanti di fronte al quartier generale della
missione, alla periferia di Hebron.
PATTUGLIA Un osservatore norvegese. Le pattuglie sono formate da tre
uomini, un norvegese, un italiano e un danese.
"TROPPO AMICI" I carabinieri (qui, uno di loro) sono accusati dai
norvegesi di fraternizzare troppo con la popolazione.
L' ARRIVO I 160 osservatori occidentali al loro arrivo a Hebron
l' 8 maggio. La missione durerà 3 mesi. Rinnovabili.
"C' E' UN FORTE RISCHIO DI ATTENTATI"
BRIEFING Riunione al quartier generale. Le palazzine degli
osservatori sono state affittate a 96 milioni di lire al mese.
AL SUPERMARKET Il carabiniere Giuseppe De Francesco.
GRUPPO MISTO Tra gli osservatori norvegesi, una decina didonne.
RADIO AL POSTO DEI MITRA In primo piano, il tenente Tommaso
Leonetti. Sullo sfondo: il vicecomandante italiano, Elio
Tagliaferri.

Testo
"Che siete venuti a fare?", domanda un ragazzino con un gran sorriso sdentato. "Noi volevamo i poliziotti palestinesi". Il carabiniere, di guardia alle quattro palazzine bianche che fanno da quartier generale per gli osservatori internazionali a Hebron, gli risponde secondo il manuale: "A difendere i vostri diritti". Il ragazzino incalza: "E come? Se non avete nemmeno un fucile". Il carabiniere, che si chiama Michele Romanelli, 31 anni, già reduce dalla Somalia, divisa bianca sulla quale trionfa a lettere rosse la scritta Tiph (Temporary international presence in Hebron), non si scompone. Ma tra sé e sé, walkie-talkie impugnato come un mitra, commenta: "Già, senza armi. Qui possono farci a pezzi. A chi chiediamo aiuto? Agli israeliani che sono contro i palestinesi che noi dobbiamo aiutare? Strana missione...".
La prima volta d' Israele. Strana missione, sì. Ma anche missione storica, questa cui partecipano 35 carabinieri italiani, in mezzo a 160 osservatori internazionali. E' la prima volta infatti che Israele accetta, anche se a malincuore, la presenza di "controllori" stranieri sul suo territorio. Uomini di Norvegia, Italia, Danimarca, qui a Hebron a garanzia dei diritti civili dei palestinesi, in base a una risoluzione Onu votata dopo la strage del 25 febbraio alla Tomba dei Patriarchi, quando un colono kamikaze massacrò una trentina di fedeli arabi. Arrivano, i carabinieri italiani, proprio mentre la pace, firmata al Cairo il 4 maggio dal primo ministro israeliano Rabin e dal leader dell' Olp Arafat, getta le prime basi per una vera autonomia dei palestinesi dei Territori.
E' una missione a rischio, nello stesso tempo. La pace ancora fragile e contrastata non tocca direttamente Hebron, per la quale Arafat è riuscito a ottenere solo la presenza degli osservatori, e non il ritiro dell' esercito israeliano, come a Gaza e a Gerico. A Hebron c' è ancora l' Intifada. Gli osservatori si trovano tra più fuochi: i fucili dell' esercito israeliano e le pietre dei palestinesi, scagliate contro di loro già il giorno dell' arrivo, l' 8 maggio. I fondamentalisti islamici e i 5 mila coloni ebrei che dai loro insediamenti guardano la città. Come se non bastasse, proprio contro gli italiani arriva un pesantissimo attacco da Gerusalemme. La nomina a Roma "di ministri neo-fascisti" ha scatenato la rabbia dei maggiori quotidiani israeliani, Jerusalem Post e Yediot Aharanot, che hanno chiesto il ritiro immediato dei carabinieri da Hebron (e addirittura la riduzione delle relazioni diplomatiche con l' Italia).
Hotel Quebec. "Problemi grossi", commenta il carabiniere Romanelli mentre continua la sua guardia. Indica la folla. "E intanto dobbiamo ascoltare questi qui che si lamentano perché magari gli israeliani gli hanno sequestrato una macchina". Assediato da curiosi e questuanti, il quartier generale degli osservatori, nome in codice "Hotel Quebec", è una corte dei miracoli, dove i palestinesi, pur scettici sull' intervento internazionale, riversano quotidiane lamentele.
Gli israeliani hanno dichiarato l' "Hotel Quebec" zona militarizzata. Ma non c' è nemmeno un muro di recinzione a proteggere le quattro palazzine, affittate a 96 milioni di lire al mese da un commerciante di Hebron che a inquilini locali le darebbe allo stesso prezzo per un anno. Dentro, sacchi a pelo, arredi spogli, armadietti dai quali spuntano spaghetti e conserve di pomodoro. Fuori sono già apparsi i venditori ambulanti, mentre il proprietario del supermercato di fronte, per celebrare i nuovi affari, offre caffè a tutti.
Tra un viva e un abbasso Arafat, tra bombe giocattolo che i bambini si divertono a far esplodere a sorpresa, osservatori e palestinesi comunicano in inglese. Unico a conoscere l' arabo, un norvegese. Tra gli italiani c' è invece un carabiniere, Nazario Palazzo, 33 anni, che sa l' ebraico per aver lavorato all' ambasciata di Tel Aviv. Gli tocca così contrattare l' installazione dei telefoni con i tecnici israeliani che arrivano, mitra a tracolla.
All' "Hotel Quebec", oltre agli arabi, a lamentarsi sono i carabinieri di guardia. "I lavori pesanti sono tutti nostri", dice Leonardo Malcuori, vicebrigadiere del battaglione Tuscania, "perché i norvegesi rifiutano di farli". La frase svela la "guerra" in corso tra gli italiani e il comando generale dell' operazione, che è appunto norvegese: "Non condividiamo la loro politica. Non accettiamo il loro criterio di disciplina", protestano i carabinieri. I norvegesi vorrebbero che i nostri tenessero maggior distacco dalla popolazione. Eppure hanno delegato loro tutti i compiti di sicurezza. I carabinieri, tra i quali 15 paracadutisti del Tuscania, a confronto dei colleghi norvegesi e danesi, civili o al massimo poliziotti, sono infatti un po' i Rambo della situazione, per le passate esperienze in zona di guerra, dal Libano alla Somalia (istintivamente simpatizzerebbero con gli israeliani: "L' esercito più figo del mondo", confessa un ufficiale). Ma qui l' essere una squadra scelta, "fin troppo scelta" di guerrieri, gioca a loro sfavore. Il tenente Tommaso Leonetti di Santo Janni, nobile e ricca famiglia napoletana, 7 anni in Inghilterra in collegio militare, ne sa qualcosa. E' lui il responsabile della sicurezza. "Già". Sorriso sarcastico. "In caso di pericolo lanciamo l' allarme via radio". E poi? "E poi niente. Non abbiamo armi. Siamo qui, chiusi in una strada di periferia, dentro condomini che avevamo già sconsigliato di usare come quartier generale".
I carabinieri ribadiscono: "Noi obbediamo solo al nostro comandante". Cioè al colonnello Pietro Pistolesi, che corre da una parte all' altra di Hebron su una Tempra bianca, per tenere i contatti con le autorità, in particolare con il comitato congiunto israeliano-palestinese, al quale gli osservatori fanno rapporto.
Pistolesi, lui, non protesta ufficialmente contro il suo superiore norvegese. Ma sulla missione ha qualche dubbio: "I palestinesi si aspettano che noi blocchiamo gli israeliani. Ma non è questo il nostro compito". Qual è allora? "Possiamo parlar con loro, trattare...". Niente di più. E' Israele che decide i margini di manovra degli osservatori.
L' elmetto in borsa. Quattro pattuglie al giorno setacciano la città. Tre uomini a bordo: un italiano, un danese e un norvegese.
Nessuna arma. Solo un borsone di tela verde per nascondere giubbotto antiproiettile ed elmetto, forniti dai danesi. Nessun blindato e nemmeno una jeep. Ma una decina di Fiat Uno, pitturate di bianco, i vetri ripassati da una pellicola antischegge, con le quali gli osservatori percorrono Hebron. Aree "calde" comprese. La peggiore: la Tomba dei Patriarchi, chiusa dopo la strage del 25 febbraio. Un check-point israeliano separa qui la comunità palestinese, che si affolla nell' antico suk, dall' insediamento ebraico di 450 coloni armati, a difendere i quali ci sono anche 1.500 soldati. Un muro di cemento taglia in due Hebron, ma non riesce a impedire rappresaglie e controrappresaglie. Anche gli osservatori in pattuglia fanno da bersaglio. Al ritorno, le loro Uno mostrano vetri infranti dalle sassate. Nella parte ovest della città, una loro macchina è stata anche bloccata da quelli di Hamas che l' hanno rimandata indietro, marcando così la loro zona off-limits.
Il più bello di tutti. Hamas, appunto. Il gruppo fondamentalista contrario al processo di pace promosso dall' Olp, con la Jihad Islamica rappresenta il 60 per cento della popolazione di Hebron, contro il 30 dell' Olp. Dalle sue file era partita una minaccia di morte agli osservatori, poi rinnegata, anzi attribuita a una macchinazione dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani. "Hamas non è contro la presenza internazionale", dice Hatem Shihadeh, pediatra vicino ai fondamentalisti. "A condizione che non offendano la nostra moralità". Messaggio rassicurante? Niente affatto. Gli ufficiali italiani parlano di fazioni "che potrebbero preparare un attacco", gruppi arabi che non vogliono che la popolazione collabori con gli osservatori.
La gente non crede del tutto ai protettori senza armi. Ma li usa lo stesso come fossero angeli custodi. Al mercato un vecchio protesta contro i coloni che "buttano pietre e sparano sui palestinesi". A un incrocio di periferia, un carabiniere viene invitato in casa di un commerciante che gli mostra i fori dei proiettili di gomma sparati dagli israeliani contro i vetri. Davanti a una scuola la gente lancia accuse ai militari che avrebbero tirato un lacrimogeno sui bambini. L' unico gesto che non parli di odio, a Hebron, arriva da due ragazzine con il chador in testa: di fronte all' "Hotel Quebec" hanno offerto una rosa al più giovane degli osservatori, il carabiniere Paolo Siniscalchi, 21 anni, autoproclamatosi il più bello della missione.




Testata
Epoca

Data pubbl.
17/05/94

Numero
19

Pagina
42

Titolo
E' MORTA PER CIO' CHE SAPEVA: MA NESSUNO INDAGA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
Parla il padre di Ilaria Alpi

Sommario
La famiglia ne è sicura: l' inviata Rai uccisa in Somalia aveva scoperto qualcosa. Traffici così sporchi e pericolosi da costarle la vita. E che coinvolgono qualcuno in Italia. "Da Mogadiscio sono tornate le sue valigie: ma tutti gli appunti di 10 giorni sono spariti. Chi li ha presi? " "Il Governo non ha nessun interesse a fare chiarezza su quello che è successo. Ci troviamo di fronte un muro di reticenza"

Didascalia
VOGLIONO CERTEZZE I genitori di Ilaria, Luciana e Giorgio Alpi
nella loro casa di Roma. "Nessuno ci ha avvertito della morte, e ora
nessuno ci dice come vanno le indagini".
NON AVEVA PAURA Ilaria Alpi, 33 anni, giornalista del Tg3: è stata
uccisa il 20 marzo a Mogadiscio. Studentessa di arabo
all' università americana del Cairo, era entrata in Rai con un
concorso. Oltre che in Somalia, era stata inviata anche nella ex
Iugoslavia.
MORTI ASSIEME Ilaria Alpi con Miran Hrovatin, 45 anni, il cameraman
friulano ucciso con la giornalista da un commando di somali. La
scena della tragedia è stata ricostruita così: due camionette hanno
sbarrato la strada alla jeep degli italiani. La scorta armata di
Miran e Ilaria (una o più persone, non è stato possibile appurarlo)
non ha reagito al fuoco.

Testo
"C' entrano con la morte di mia figlia gli interessi della cooperazione italiana in Somalia? So solo che ogni volta che si accenna a questa "pista" cala il sipario. Perché allora non mi dicono chi ha ucciso Ilaria, chi ha ordinato la sua esecuzione?". A due mesi dall' omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3, ammazzata a Mogadiscio insieme al cameraman Miran Hrovatin, il padre Giorgio denuncia a Epoca l' indifferenza e la reticenza del governo italiano a far chiarezza sulla morte della figlia. Una morte scomoda, che potrebbe portare dalle strade di Mogadiscio, infestate di banditi diposti a uccidere per pochi soldi, dritto alle stanze del nostro ministero degli Esteri.
Nella babele di ipotesi, formulate all' indomani dell' agguato, se ne affaccia infatti una che collegherebbe l' uccisione di Ilaria a una sua inchiesta su alcune navi "donate" dalla cooperazione italiana alla Somalia. E su un peschereccio, in particolare: il Farah Omar, sequestrato (con tutto l' equipaggio a bordo) dai guerriglieri somali nel porto di Bosaso, a nord del Paese, dove la giovane reporter del Tg 3 si era recata nei giorni precedenti all' agguato. Insomma, Ilaria aveva scoperto qualcosa su traffici strani tra uomini d' affari somali e cooperatori italiani? Un' ipotesi scartata quasi subito: "Solo l' Indipendente", dice Giorgio Alpi, "l' ha presa in considerazione con titoli molto forti: "Ilaria uccisa perché sapeva troppo. Tra i mandanti anche gli italiani". E se fosse vero?".
L' inchiesta di Ilaria Alpi sul sequestro del peschereccio è documentata in un' intervista al sultano di Bosaso, Abdullay Mady Mussa, che il Tg3 ha mandato in onda dopo la morte: "C' è una frase che mi ha lasciato interdetto", ricorda il padre. "Ed è quando il sultano domanda a mia figlia: "Siete sicuri voi italiani di aver fatto pulizia con Mani pulite?". Cos' altro ha detto a microfono spento? Quali informazioni aveva preso mia figlia a Bosaso da poter causare la sua morte? Perché nessuno indaga in questa direzione?".
Domande su domande. Ma soprattutto un' angosciante solitudine. Nel salotto di casa Alpi, al quartiere di Vigna Clara a Roma, i genitori di Ilaria raccolgono dispacci di agenzia, ritagli di giornali, filmati in videocassetta: frammenti di quella che chiamano "la nostra piccola inchiesta personale". Il padre, urologo in pensione, al polso l' orologio della Folgore portato da Ilaria come regalo dalla Somalia, legge con voce roca ma ferma gli appunti scritti su un paio di fogli. Raccontano il suo viaggio alla ricerca della verità dopo la morte dell' unica figlia, la storia di lei, studentessa di arabo al Cairo, poi giornalista non lottizzata al Tg3, il disinteresse delle autorità che hanno già dimenticato l' omicidio di Mogadiscio. Ultimo macabro saluto alla missione italiana in Somalia.
Epoca: Perché ha il sospetto che Ilaria sapesse "altro" da quello che ha detto in tivù? Alpi: E' rimasta a Bosaso 4 giorni: avrà pure raccolto delle informazioni. Ilaria sognava di scrivere un libro sulla Somalia. E poi, c' è la faccenda delle valigie. Quando ci è stata recapitata la sua roba abbiamo trovato quattro bloc-notes vuoti. Ilaria era una grafomane. E' possibile che in 10 giorni in Somalia, non abbia scritto nulla? L' unica indicazione era un nome a matita, in seconda pagina, su uno di questi quadernetti: Schifco-Viareggio.
Epoca: La Schifco è la società alla quale sono intestate le navi donate dal governo italiano alla Somalia...
Alpi: Appunto. Sappiamo che è di proprietà di un portaborse dell' ex dittatore Siad Barre, Mugne Omar Abdalla. Sono notizie già scritte da altri. Ma una cosa è riportarle in Italia, un' altra probabilmente fare un' inchiesta direttamente in Somalia.
Epoca: Lei pensa che qualcuno abbia nascosto i bloc- notes di Ilaria? Alpi: Non so. Attaccato alla valigia c' era un documento del ministero della Difesa che avvertiva del sequestro di alcuni numeri telefonici.
Epoca: Ci sono due indagini aperte, una alla procura di Milano una a quella di Roma. Potrebbero essere i giudici ad aver preso gli appunti? Alpi: A me risulta solo che all' interno della grande inchiesta sulla cooperazione, due magistrati, Vittorio Paraggio a Roma e Gemma Gualdi a Milano, abbiano chiesto alla Rai di poter vedere le cassette di Ilaria. Ma niente che metta in collegamento la sua morte con il suo lavoro.
Epoca: Le sembrano insufficienti le indagini fatte in Somalia? Alpi: Quali indagini? Se il nostro ambasciatore, Mario Scialoja, non si è neanche degnato di spedire un telegramma con le condoglianze di rito... Giù c' erano gli uomini del Sismi (i servizi segreti militari, ndr). Cosa hanno fatto? Mistero. L' unico che si è pronunciato è stato il generale Fiore: ha accusato il fondamentalismo islamico. Un' entità astratta.
Epoca: E il ministero degli Esteri? Ci sarà stato pur qualcuno che ha tenuto i contatti con voi? Alpi: Nessuno. La notizia della morte di nostra figlia l' abbiamo avuta da un amico che l' aveva sentita in tivù. La settimana dopo abbiamo preso noi contatti con l' unità di crisi della Farnesina.
Abbiamo incontrato il ministro plenipotenziario Plaja, che aveva prelevato le salme a Luxor. Non ci ha saputo dare ragguagli.
Epoca: E dall' Unosom, il comando Onu in Somalia? Alpi: Nulla, solo quello che riferisce l' Ansa. Un comunicato del 26 marzo informa che 12 caschi blu (tra loro solo un italiano), hanno fatto un sopralluogo. Tre giorni dopo il responsabile Unosom ha giudicato il rapporto insufficiente. Il sospetto è che gli uomini di scorta a Ilaria e Miran fossero d' accordo con gli assalitori.
Epoca: Lei ci crede? Alpi: Da altre notizie risulta che la scorta, formata da un solo uomo armato (e non da tre come ha dichiarato Pier Luigi Cerri, capo del personale Rai) abbia sparato. Mi chiedo perché scorta e autista siano rimasti a piede libero, senza che nessuno si sia preoccupato di interrogarli.
Epoca: Cooperazione a parte, ci potrebbero essere altri moventi all' omicidio? Alpi: Decine. Il 28 marzo i giornali scrivono che Ilaria potrebbe essere finita in mezzo a una questione di "Contrasti e interessi all' interno del clan Murosade, di cui fa parte la direttrice dell' albergo Amana (di fronte al quale è stata uccisa la Alpi, ndr)". Ma Ilaria dormiva all' Hotel Sahafi. Ancora il 28 marzo: "Rapimento per riscatto". Ma non è stata toccata una lira di quello che avevano. Altra pista: "Prigionieri somali maltrattati dagli italiani che per vendetta avrebbero colpito a caso i due giornalisti". L' unica ipotesi che nessuno ha preso in considerazione è che Ilaria abbia dato fastidio a qualcuno.
Epoca: Si saprà mai la verità? Alpi: Vorrei che la sua morte servisse almeno a scoperchiare il pentolone della cooperazione. Ma so già che non verremo a capo di nulla. Una bambina di una scuola di Roma ha scritto una poesia, dedicata a Ilaria: "Era lì per noi. Era lì per portarci notizie.
L' hanno uccisa perché portava pace. L' hanno uccisa perché era lì per noi". Dice tutto, no?



Testata
Epoca

Data pubbl.
10/05/94

Numero
18

Pagina
126

Titolo
COME SI SALVANO 46 BAMBINI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI NINO LETO

Sezione
STORIE

Occhiello
RUANDA

Sommario
Fuga dall' inferno: dalla lotta tribale che sta devastando il Paese africano alla sicurezza dell' Istituto Cerris per l' infanzia di Verona. Storia di una drammatica odissea "Li ho strappati alla morte: senza il nostro intervento li avrebbero trucidati". Maria Pia Fanfani racconta i pericoli e le paure della carovana che ha portato in Italia i bambini ruandesi: "Un' avventura tra massacri e profughi, lungo strade zeppe di cadaveri in putrefazione". E annuncia: "Tornerò a salvarne altri". Con lei è arrivata anche Amelia Barbieri, la missionaria laica che aveva sempre rifiutato il rimpatrio per non lasciare soli, in balia della guerra, i "suoi" orfanelli. Retroscena e indiscrezioni di un blitz umanitario che ha commosso tutta l' Italia. Che è riuscito grazie a queste due donne. E alle loro diverse concezioni della carità e della solidarietà.

Didascalia
PUBBLICITA' E INTRAPRENDENZA
Maria Pia Fanfani, 72 anni, all' aeroporto di Orio al Serio
(Bergamo) con alcuni dei 46 bambini ruandesi portati in salvo il 28
aprile.
UMANITA' E DEDIZIONE
Amelia Barbieri ("nonna Amelia"), 76 anni, da 11 missionaria laica
in Ruanda: fino all' ultimo ha voluto rimanere accanto ai bambini.
FINALMENTE IN SALVO Sopra: la missionaria laica Amelia Barbieri e
l' inviato speciale dell' Onu Maria Pia Fanfani all' aeroporto di
Orio al Serio. Sono le 3 e 30 del 28 aprile e sono appena arrivate
in Italia. Nelle altre foto: i 46 bambini assistiti dai volontari
della Croce Rossa di Varese e dell' ospedale milanese di Niguarda.

Testo
Sono le 4 del pomeriggio del 27 aprile, quando Maria Pia Fanfani, con un sorriso trionfante, anfibi ai piedi, giacca blu da miliziano e i capelli corti a spazzola, scende da una Mercedes color avorio, a pochi chilometri dall' aeroporto di Entebbe in Uganda, annunciando: "Missione compiuta". I 41 orfanelli ruandesi di Amelia Barbieri, la missionaria laica italiana rimasta intrappolata a Muhura, nel nord-est del Ruanda, ai quali si sono poi aggiunti altri 5 bambini feriti, hanno già passato il confine di guerra. "Verranno tra poco.
Dopo la poppata".
"ABBIAMO VISTO L' INFERNO" Due ore di attesa e finalmente all' aeroporto di Entebbe, arrivano gli orfani. In testa, alla guida di una Suzuki, Amelia Barbieri, 76 anni, il viso segnato dalle rughe e dall' ansia vissuta nelle ultime settimane, la casacca a fiori stinta dal sudore. Fa una smorfia. "Per favore, lasciateci in pace", dice la missionaria ostetrica partita per l' Africa 11 anni fa, quando i suoi veri figli, quattro, erano grandi abbastanza da potersela sbrigare da soli. "Abbiamo visto l' inferno".
Non tace invece la signora Fanfani, 72 anni, ma sempre molto vigorosa. La mondana consorte del democristiano Amintore, ex presidente del comitato femminile della Croce Rossa italiana, oggi capo dell' associazione umanitaria "Insieme per la pace", lancia subito una nuova sfida: "Tornerò in Ruanda. Ci sono altri dieci bambini, con braccia e gambe amputate a colpi di machete, che hanno bisogno di cure urgentissime". Risposta fiera a chi, come il ministro degli Affari Sociali Fernanda Contri, l' aveva sbeffeggiata quando in tivù aveva dichiarato che avrebbe salvato Amelia Barbieri e i suoi bambini: "Siamo arrivati giusto in tempo. Un giorno ancora e a Muhura sarebbero stati trucidati tutti".
Missione all' ultimo respiro, dunque. Mentre la compagnia San Paolo (quella che organizza i pellegrinaggi paolini) si faceva avanti mettendo a disposizione un Boieng 737 per trasportare gli orfani dall' Uganda a Bergamo, reclutando anche 20 volontari della Croce Rossa di Varese e 10 dell' ospedale di Niguarda di Milano, la signora Fanfani il 21 aprile atterrava a Nairobi. Ad accompagnarla la sua segretaria, Ingrid Incisa di Camerana, 30 anni, biondina, che vanta in famiglia: il padre Ludovico, ambasciatore a Buenos Aires, lo zio Manfredo, stessa carica a Maputo e il cugino Bonifazio, capo di stato maggiore dell' Esercito.
Da Nairobi a Kampala, in Uganda, per i contatti decisivi: il presidente ugandese Museveni, sua moglie e un cugino, Michael Mukula, proprietario di una compagnia aerea, la Speedbird Aviation Service. Mukula non è il "Rambo-pilot" che Maria Pia Fanfani aveva chiesto per sorvolare il Ruanda, piuttosto un manager elegante che le procura la protezione dei guerriglieri del Fronte patriottico ruandese, i ribelli dell' etnia "tutsi" che dal 6 aprile, giorno dell' uccisione del presidente, si battono contro il governo degli "hutu", i rivali storici. E che adesso controllano il nord-est del Paese, dove si trova Amelia Barbieri.
SQUARCIATI DAL MACHETE Versati 50 mila dollari per affittare quattro pulmini, con due camionette e 16 militari di scorta, Maria Pia Fanfani passa il confine via terra. Arriva a Mulindi al comando del Fronte patriottico, un' ex fabbrica di tè, dove il generale tutsi Paul Kagamè le offre da dormire. Il viaggio verso Muhuri, l' indomani, è una discesa agli inferi. "Diluviava, il percorso è una pista di montagna disseminata di mine. All' ospedale di Gahini, dove abbiamo scaricato dei viveri, ci sono 150 feriti, arrivati dalla capitale Kigali, senza braccia, senza gambe, teste e visi squarciati dal machete".
A Muhuri, trovano Amelia Barbieri, chiusa nell' orfanatrofio che aveva costruito due anni fa, ormai senza viveri, circondata da 6 mila profughi a caccia di cibo. Non si spara. Ma è una zona controllata dal Fronte, dove si va avanti a "esecuzioni", confesserà poi Amelia Barbieri smentendo l' infatuazione di Maria Pia Fanfani per la "giusta causa" dell' Fpr. "Chi è di altra etnia, viene fatto a pezzi". Quando la carovana si mette in moto è quasi sera. Si aggregano due preti missionari e la superiora, suor Amedea. "Siamo stati costretti a tornare indietro quattro volte. La strada principale era coperta da cadaveri in putrefazione", racconta ancora la Fanfani. Gli orfanelli passano la notte al quartier generale dell' Fpr. Alle 9 del mattino la frontiera, e la tragedia della guerra, è ormai alle spalle.
Nel frattempo l' aereo in arrivo dall' Italia, il Boeing della Tea, la compagnia aerea della San Paolo, sfiora le acque del grande lago Vittoria. Atterra all' aeroporto di Entebbe, scaricando insieme a medici e infermieri, una ventina di giornalisti, più 8 tonnellate di aiuti umanitari destinati al Fronte patriottico ruandese. I dirigenti della Tea (ai quali l' operazione costa sui 200 milioni), sono nervosi: a loro disposizione per portare i bambini in Italia hanno sole 14 ore. Ma nessuno, né l' ambasciata né la segreteria della Fanfani, si è preoccupato di avvertirli che la colonna è ancora lontana 500 chilometri. Anzi, la sera prima, al momento della partenza da Roma, era stato detto che i bambini erano già arrivati.
La tensione esplode, quando nella lista delle persone da imbarcare compare il nome di due alti esponenti del Fronte patriottico ruandese. E' il prezzo che Maria Pia Fanfani si è impegnata a pagare per la buona riuscita dell' operazione? Le sue spiegazioni non convincono don Pierluigi Boracco, presidente della San Paolo. Né tantomeno l' ambasciatore italiano in Uganda, Marcello Ricoveri, che si pronuncia con un secco "no" all' imbarco dei due "patrioti".
ARRIVANO GLI ORFANI Se il governo italiano ribadisce la sua estraneità all' iniziativa della Fanfani, l' Onu, che in un primo momento si era disinteressata della faccenda, rivendica invece adesso la sua parte: "Alcuni nostri funzionari sono andati incontro al convoglio", dice Trevor Page, direttore dell' ufficio ugandese del Programma alimentare mondiale. Ma la Fanfani nega tutto: "L' unico ad aiutarci è stato il Fronte".
Finalmente arrivano gli orfani. La maggior parte ha solo pochi mesi, come Ishruwe, la più piccola, quattro settimane appena. Il più grande, Mushakarugo, ha 11 anni. Ci sono poi cinque ragazzini feriti dai colpi di machete. Medici e infermieri si mettono all' opera nella sala d' aspetto dell' aeroporto. Colpi di tosse, diarree, mal di pancia. Nessun caso grave. Nonna Amelia si è portata dietro due ragazze ruandesi, una tutsi e una hutu: "Saranno il cordone ombelicale dei piccoli con la loro terra. Non voglio che restino per sempre in Italia. Devono tornare in Ruanda. E con loro tornerò anch' io". Ma all' aeroporto di Bergamo, dove il Boeing atterra alle 3 e mezzo del mattino, l' Africa è già lontana. I bambini, bombardati da flash e telecamere, sono attesi a Verona al centro Cerris per l' infanzia e all' ospedale Borgo Trento (dove uno verrà operato perché ha una pallottola in un polmone). Suor Amedea ripete desolata: "Riportatemi indietro". Maria Pia Fanfani è l' unica che riesce ancora a sorridere per l' ultimo clic. "L' operazione salvataggio" potrebbe essere il passaporto per nuovi più prestigiosi incarichi.

BOX
AIUTIAMOLI A VIVERE Per contribuire all' operazione "Ruanda" Cassa di Risparmio di Torino, Filiale di Milano C.C.5000 / 53, Compagnia di San Paolo Bambini del Ruanda Settimanale "Alba" Oppure "Insieme per la pace" BNL, sede di Roma, C.C.76604



Testata
Epoca

Data pubbl.
05/04/94

Numero
12

Pagina
36

Titolo
CHE SUCCEDERA' AGLI ITALIANI CHE RESTANO IN SOMALIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
DOPO IL RITIRO DEL CONTINGENTE IBIS

Sommario
Un imprenditore col suo piccolo esercito privato. Un prete che si occupa di acquedotti. E un centinaio di altri connazionali che ha deciso di rimanere in un Paese dove tutti sparano contro tutti. Ecco le loro storie. E che sarà di loro adesso che il nostro esercito è tornato a casa.

Didascalia
LORO NON LASCIANO
Da sinistra: don Elio Sommavilla, 67 anni, lavora per
l' associazione somala "Water for Life". Suor Marzia Seur, 55 anni,
missionaria a Mogadiscio. Giancarlo Marocchino, 52 anni,
imprenditore.
SPARI E STRETTE DI MANO
Il generale Carmine Fiore suggella con una stretta di mano la
cessione della sede dell' ambasciata italiana ai somali.
VITTIME INERMI Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, e Miran Hrovatin,
cameraman di Videoest, uccisi in un agguato nel pomeriggio del 20
marzo scorso a Mogadiscio.

Testo
Il contingente militare si è ritirato. Ma loro hanno giurato che resteranno in Somalia. A proprio rischio e pericolo, con le incognite di un futuro incertissimo, i volontari delle associazioni umanitarie che lavorano nel Paese africano hanno garantito già il 17 febbraio scorso a Milano, con tanto di promessa ufficiale, che continueranno i loro programmi: la distribuzione del cibo e dei medicinali, l' assistenza agli ospedali e alle scuole, i primi tentativi di ricostruzione del Paese ancora squassato dalla guerra civile.
A proprio rischio e pericolo, si diceva. Anche se da Nairobi arrivano notizie di pace, con la stretta di mano nella capitale kenyota, giovedì 24 marzo, tra i due signori della guerra Ali Mahdi e Aidid, a Mogadiscio nessuno è in grado di tirare il fiato. Il rivolo di sangue lasciato sull' asfalto dall' uccisione dei due giornalisti Rai, Ilaria Alpi e il cameraman Miran Hrovatin, proprio mentre il contingente italiano stava per imbarcarsi sulla Garibaldi, rimane un tragico avvertimento.
Per gli italiani rimasti (un centinaio, se si aggiungono ai volontari delle 7 organizzazioni non governative i 16 carabineri del Tuscania che fanno da scorta all' ambasciatore Scialoja, i cooperanti del ministero degli Esteri, i funzionari della Croce rossa o delle agenzie Onu), la Somalia rischia di essere una trappola: "Tranquilli certamente non siamo", dice Maura Viezzoli, direttrice del Cisp, il Comitato internazionale di sviluppo dei popoli, presente in questo momento a Mogadiscio e in altre zone della Somalia con 8 volontari. "Tanto più che dipendiamo da un Paese, l' Italia, che è il solo a non aver ancora organizzato un piano d' evacuazione". Del resto, anche lo stesso ambasciatore Mario Scialoja, con i suoi 16 carabinieri prestati al ministero degli Esteri, non se la passa meglio: alloggiato alla meno peggio in uno dei "compound" metallici dell' Unosom, può contare solo sulla struttura logistica dell' Onu.
Non scapperemo. Eppure le organizzazioni non governative in Somalia (dove, non bastasse, nell' ultimo mese è scoppiato il colera, 2 mila 150 casi) non si lasciano scoraggiare. "Dobbiamo completare i nostri progetti", dicono al Cosv, che opera all' ospedale di Merka, a 160 chilometri da Mogadiscio, con 6 persone. "Il nostro scopo è quello di passare dall' assistenza alle attività produttive. E' l' unico modo per smorzare il rancore che la popolazione può avere verso gli occidentali". Restano anche quelli del Cefa, organizzazione che vanta di aver ormeggiato nel porto di Mogadiscio, nel dicembre 1992, la prima nave civile carica di viveri, trattori e medicinali: "No, nessuno ha tentennato, quando si è trattato di restare", racconta Giovanni Bersani, l' ex europarlamentare dc che ha fondato l' organizzazione. "L' unica cautela che dobbiamo adottare è spostarci secondo "valutazioni politiche"". Dopo la battaglia degli italiani al check point Pasta, il 2 luglio 1993, quelli del Cefa avevano per esempio abbandonato la sede a sud di Mogadiscio, concentrandosi nella parte nord della città. Ora che il settore nord è diventato più pericoloso, hanno rioccupato il vecchio edificio con la facciata ancora sforacchiata dai proiettili.
I volontari delle Ong non sono i soli italiani ad aver deciso di non lasciare la Somalia. C' è anche gente come Giancarlo Marocchino, imprenditore cinquantaduenne, originario di Borgosesia, in Piemonte.
Sbarcato a Mogadiscio nel 1984, con una società di autotrasporti, la Sitt, si è messo a scaricare navi e provvedere alla distribuzione degli aiuti, grazie a un piccolo esercito personale, 150 somali armati di kalasnikov, cannoni e autoblindo. Sposato con una cugina di Alì Mahdi, amico però anche di Aidid, è subito diventato punto di riferimento per tutti: marines, parà, suore missionarie, funzionari Onu. Anche se a settembre è stato costretto dall' ammiraglio Howe in persona a lasciar la Somalia e andarsene a Nairobi per sospetto traffico d' armi con Aidid. E' ritornato, come Ercolino Semprimpiedi, più solido che mai. Tanto che persino tra gli ufficiali italiani c' è chi gli attribuisce il merito di essere in questo momento l' unico vero rappresentante della madrepatria in Somalia. Non a caso è stato il primo a sapere dell' uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e il primo a tirar fuori i loro corpi dalla Toyota dove viaggiavano.
Altro veterano (in Somalia dal 1976), anche se di diversa razza, è don Elio Sommavilla, 67 anni, originario della Val di Fassa.
Sacerdote e geologo, lavora a Merka, una delle roccaforti del fondamentalismo islamico, con un' organizzazione non governativa somala, "Water for Life", che sta tentando di ripulire i canali di irrigazione nei villaggi al di là delle dune. Capelli bianchi, sorriso smagliante, ha collaborato, padre Sommavilla, con "Sos Kinderdorf", l' organizzazione austriaca che gestisce a Mogadiscio un villaggio per orfani, dove lavorano tuttora quattro suore italiane dell' ordine della Consolata: suor Marzia Seur, 55 anni, suor Berardina Di Giacomantonio, 68 anni, suor Annalisa Costardi, 54 anni, e suor Maria Bernarda Roncazzi, 48 anni. Ma il vero capo al villaggio, nonché fondatore, è Willy Uber, 41 anni, altoatesino di Bressanone. In questi giorni da Nairobi sta organizzando il carico di una nave che dovrà portare viveri in Somalia sufficienti per i prossimi 4 mesi. Perché appunto: "Cosa succederà non è in grado di prevederlo nessuno. Il banditismo ormai aumenta di giorno in giorno.
A Mogadiscio è impossibile muoversi. Le organizzazioni sono costrette a usare i metodi di due anni fa". Le scorte somale con i kalasnikov, per esempio. Ma con quale garanzia? Anche Ilaria e Miran avevano una scorta...
Un aereo per la fuga. Che la tensione stia crescendo lo dimostra quanto è accaduto a Pancrazio Stangoni, funzionario della Croce rossa italiana, giovedì 24 marzo, a Garoe. Aggredito, lui e due infermiere, da una banda armata, mentre tentava di partire in aereo per Nairobi, il coordinatore amministrativo dell' ospedale di Garoe è stato tenuto sotto sequestro e poi rilasciato. Scapolo, senza figli, è in Somalia dal febbraio 1993 per avviare un progetto finanziato dalla cooperazione italiana: l' ospedale di Garoe, che oggi dà lavoro a 78 somali stipendiati dalla Croce rossa. "Il fatto grave", racconta Sergio Arena, chirurgo d' urgenza che lavora con Stangoni, "è che Garoe era sempre stata una zona tranquilla". La Croce rossa, forte della protezione di 200 poliziotti locali che lavorano a rotazione, in accordo con il clan imperante, quello dei Darod, non ha mai avuto problemi. "Certo oggi", dice ancora il dottor Arena, "avere un piano di evacuazione torna comodo". In caso di pericolo il piano, di cui possono usufruire tutti i volontari della zona prevede che, in attesa degli aerei allertati a Nairobi, si scappi nel deserto e da lì si comunichi con un "navigatore satellitare" la propria posizione ai piloti.
Basterà la Croce rossa di Garoe a salvare i volontari? Ovviamente no. Le 7 organizzazioni non governative italiane presenti in Somalia (su 42 associazioni internazionali), il 23 marzo, durante una riunione che si è tenuta a Mogadiscio, hanno chiesto l' intervento del ministero degli Esteri. "Stiamo finanziando il noleggio di un aereo dell' Unicef per garantire l' evacuazione anche là dove non arriva l' Onu", spiega l' ambasciatore Maurizio Moreno.
Questo come "ultima ratio". I volontari sono in Somalia per restare, non per andarsene. Forti di un finanziamento di un miliardo e mezzo di lire ciascuna per completare i programmi iniziati, le organizzazioni stanno già lavorando a nuovi progetti. Così come lo stesso ministero: "In Somalia dal settembre 1992 sono stati investiti 84 miliardi e 150 milioni di lire", dice ancora l' ambasciatore. "Facciamo inoltre parte del comitato direttivo per gli aiuti ai somali, costituito sotto l' egida dell' Onu, che ha stanziato 100 milioni di dollari per la ricostruzione. Senza contare l' impegno diplomatico". A Nairobi come a Mogadiscio, se pace è o se pace sarà, l' Italia un po' di merito lo pretende. La missione continua...




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/02/94

Numero
7

Pagina
44

Titolo
SOMALIA IL PEGGIO? VIENE ORA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ESCLUSIVO / ALLA VIGILIA DEL RITIRO DEL CONTINGENTE PARLA IL COMANDANTE ITALIANO. E AVVERTE...

Sommario
"Ci spareranno addosso: la partenza da Mogadiscio sarà il momento più pericoloso di tutta la missione". Ecco come il generale Fiore e i suoi soldati si stanno preparando ad affrontarlo.

Didascalia
L' ADDIO
Il generale Carmine Fiore, 52 anni, che da settembre comanda i 2.200
uomini del nostro contingente in Somalia dalla fine del 1992. Sarà
lui a guidare il ritiro delle truppe italiane che dovrà concludersi
entro il 31 marzo. "Sarà rischioso", dice.
LA FINE DI UN TENENTE Sopra: a Roma, i funerali del tenente Giulio
Ruzzi, ucciso in un agguato dai somali vicino a Balad il 6 febbraio
scorso. In alto, soldati italiani a Mogadiscio.

Testo
Generale, cosa può dire alle famiglie dei nostri soldati in Somalia? Possono finalmente tirare il fiato adesso che stiamo tornando a casa? Il generale Carmine Fiore, 52 anni, da settembre comandante del contingente italiano in Somalia rimane per qualche attimo in silenzio, prima di rispondere. "In tutta sincerità non me la sento di tranquillizzare nessuno. Il ritiro delle truppe è un momento davvero pericoloso".
Potrebbe essere una carneficina. La smobilitazione dei contigenti occidentali, fissata per il 31 marzo, è infatti il momento più delicato dell' operazione Onu. Non solo per il caos nel quale il Paese rischia di ripiombare, quanto per l' ondata di violenza che potrebbe scatenarsi proprio contro i Caschi blu. I comandi militari temono agguati, assalti, imboscate. Segno che 15 mesi di missione multinazionale con 32 contigenti impegnati per un totale di 30 mila uomini sono serviti veramente a poco.
La gigantesca macchina di pace delle Nazioni Unite lascia la Somalia in guerra, con le fazioni ancora in disaccordo, il futuro incerto e il leader più pericoloso, Aidid, che minaccia, alla partenza degli europei, una strage degli altri Caschi blu. "Le sue quattro fazioni lo stanno abbandonando", spiega il generale Fiore, "ma c' è un gruppo che lo sostiene tuttora, ostacolando la pacificazione".
Mogadiscio come Saigon? La tensione cresce. In Somalia non c' è giorno che non si spari. Fuoco sugli italiani, come il 6 febbraio, quando è morto il tenente Giulio Ruzzi e un soldato è stato ferito.
Rapimento di un cooperante e di due parlamentari europei. Bombe contro le agenzie umanitarie. Rischio di paralisi per le organizzazioni non governative. E in più, pesantissima, l' incognita della partenza.
Così, per riportare a casa le forze di pace dell' Onu, i governi dei vari Paesi sono costretti ad attivare dispositivi difensivi da guerra dura. Per i 2 mila e 200 soldati del contingente italiano, il 18 febbraio, si mobiliterà la Marina con tre navi, la Garibaldi, la San Marco e la San Giorgio, che permetteranno l' evacuazione dei militari. Saranno imbarcate per prime le attrezzature logistiche e solo all' ultimo momento carri armati ed elicotteri da combattimento. Ritorneranno persino, a far da scudo contro i guerriglieri, gli incursori dell' esercito e quelli della Marina.
Gli occidentali pagheranno al momento di andarsene le maniere forti usate contro i somali? E i nostri soldati? Vanno fieri della politica "italiani, brava gente", ma non sono mancati i sospetti sui loro comportamenti: a giugno, un reportage fotografico di Epoca (vedi n. 2227, 15 / 6 / 93) apriva la polemica sui maltrattamenti ai prigionieri somali nella zona di Aadan Jabal, mentre una denuncia di Africa rights calcava la mano su violenze commesse a Belet Uen.
Epoca: Insomma, generale, perché tanto rischio? Fiore: Innanzitutto per ragioni politiche. Il contingente potrebbe essere attaccato dai guerriglieri per ritorsione. O, in una logica più ampia, proprio per impedire che si concluda il processo di pace.
Epoca: Per ritorsione? Fiore: Sì, potremmo essere accusati di aver favorito una fazione a scapito di un' altra.
Epoca: Il vostro "protetto" è sempre stato il presidente ad interim Ali Mahdi. Ma, secondo gli americani, voi avreste trattato anche con Aidid. Cosa è successo? I contatti non hanno funzionato? Fiore: Noi abbiamo sempre cercato di stare al di sopra delle parti.
E poi, si parla sempre degli Abgal di Mahdi o degli Habr-Ghedir di Aidid, ma ci sono altri clan in Somalia, altrettanto agguerriti, che potrebbero avere interesse a ostacolare la nostra partenza.
Epoca: Per esempio? Fiore: Gli Hawadle, che controllano l' area del porto, contesa dagli Habr-Ghedir contro i quali hanno continuato a combattere a Merka come a Belet Uen. Oppure i Murosade che hanno tratto enorme profitto dalla presenza Onu in Somalia, affittando case e ville fino a diecimila dollari al mese.
Epoca: Interessi economici, oltre che politici? Fiore: Sì, per questo il malumore tra i somali è generale. La popolazione con il ritiro dei contingenti occidentali vede allontanarsi una prospettiva di benessere. E ci sono frange che, con la presenza Unosom, sono riuscite ad arricchirsi spropositatamente.
Epoca: Vuole dire che anche l' Onu ha pagato tangenti? Fiore: Be' , compound, edifici, rete di servizi... Per far funzionare la macchina umanitaria non si poteva fare a meno di ricorrere alla manodopera locale. Qui tutto è passato attraverso gli appalti ai somali. I trasporti di aiuti, per esempio, sono un caso classico.
Epoca: Aiuti che hanno bloccato sì l' emergenza fame, ma non hanno risolto miseria e povertà...
Fiore: Sì. Un rischio di attacco alle nostre colonne viene anche dalla popolazione, oltre che dalla delinquenza locale.
Epoca: Lascerete qualcosa alle fazioni per rabbonirle? Fiore: Lasceremo le attrezzature dell' ospedale di Johar, per esempio. A Balad, sede del nostro comando, permetteremo che la polizia somala, creata da noi, utilizzi il campo come centro di addestramento. E poi, provvederemo a consegnare gli ultimi aiuti.
Epoca: E di ciò che porterete via, cosa può far gola ai clan? Fiore: Armi e munizioni. E' la parte più pregiata del nostro patrimonio. Ma anche i container con i viveri e i gruppi elettrogeni.
Epoca: Che tipo di attacco potrebbero preparare i vari gruppi? Fiore: Attacchi armati con fucili o razzi controcarro, blocco delle colonne con mine ed esplosivi. Almeno lungo la via imperiale che corre in campo aperto tra Balad e Mogadiscio. Frazionamento delle colonne? Forse in città.
Epoca: E' il passaggio sulla via imperiale il momento più critico? Fiore: Sì, a Balad la gente tenterà di assalire il campo per rubare il possibile. Mentre alle porte di Mogadiscio si rischia un agguato.
Epoca: E in città? Fiore: Dall' ambasciata ci sposteremo al porto e all' aeroporto, dove rimarremo il minimo indispensabile perché sono punti pericolosi. Abbiamo tracciato tre itinerari. All' ultimo momento sceglieremo il migliore.
Epoca: Quando succederà tutto questo? Fiore: Cominceremo a metà marzo. Abbiamo però già abbandonato la parte nord del nostro settore, lasciando solo una compagnia a Belet Uen per garantire la sicurezza ai tedeschi fino al 4 marzo.
Epoca: A proposito di sicurezza: chi si preoccuperà di quella degli italiani? Fiore: Ce ne occuperemo noi, con l' aiuto della Marina. Al porto e all' aeroporto ci dovrebbero essere i Caschi blu egiziani addetti alla difesa, anche se il loro piano va verificato e integrato.
Epoca: Gli americani partiranno prima di voi? Fiore: Partiremo insieme. Abbiamo formato un coordinamento Usa-Italia-Germania per concordare le operazioni. Ogni venerdì incontriamo il comando Unosom.
Epoca: Come finirà? Il ritiro non è ancora cominciato e il 6 febbraio c' è già stato un morto...
Fiore: C' è stato un morto, è vero. Ma i somali ne hanno avuti cinque, oltre una dozzina di feriti. I nostri soldati sanno come difendersi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/01/94

Numero
2

Pagina
69

Titolo
SOMALIA BILANCIO DI UNA MISSIONE FALLITA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
INSERTO

Occhiello
Gli speciali di EPOCA

Sommario
Un anno fa 30 mila Caschi blu, tra cui 2.500 italiani, sbarcavano a Mogadiscio. Dovevano battere la fame, disarmare le fazioni, ridare un governo al Paese. Ecco cosa hanno fatto invece. E perché.

Didascalia
Militari italiani a Mogadiscio. In Somalia abbiamo 2.500 uomini.
SOCCORSI Aprile 1993, distretto di Aadan Jabal: durante la
distribuzione di viveri alla popolazione, un paracadutista italiano,
munito di bastone, si fa largo tra la folla.
IN GUERRA PER QUESTO Parà italiani tra le rovine del Parlamento
somalo. La guerra civile si è esasperata il 28 gennaio 1991, alla
caduta di Siad Barre, deposto dopo oltre un ventennio di dittatura.
Ora, per controllare la Somalia, si scontrano decine di fazioni. Le
più agguerrite, le quattro che formano l' Alleanza nazionale somala
guidata da Mohamed Farah Aidid (a fianco in alto), e le 12 che
appoggiano Ali Mahdi (a fianco).
FOTOCRONACA DI UNA SCONFITTA / 1
MOGADISCIO O HOLLYWOOD? E' il 9 dicembre 1992: 1800 marines,
avanguardia del corpo di spedizione di 30 mila soldati Usa, sbarcano
a Mogadiscio in diretta tivù. E' il primo atto, molto criticato per
la sua spettacolarità, della missione "Restore Hope" ("Riporta la
speranza"). Il presidente Bush pensa che la crisi si potrà risolvere
entro gennaio.
DISTRUGGETE AIDID Giugno 1992. Aerei AC 130 Usa bombardano le
postazioni del generale Aidid a Mogadiscio. L' Onu e gli Stati Uniti
ritengono il capo fazione somalo responsabile della guerriglia. Ma,
nonostante una taglia, non riusciranno a catturarlo.
LA FOTO DELLO SCANDALO Aprile 1993. Nel distretto di Aadan Jabal un
bandito somalo viene catturato e incappucciato da soldati italiani.
La sequenza fotografica, che "Epoca" pubblica per prima, provoca
l' apertura di un' inchiesta da parte del ministero della Difesa. E'
stato violato il regolamento militare? Alla fine l' inchiesta
scagiona i paracadutisti coinvolti.
PARTIAMO ANCHE NOI Si imbarcano a Livorno i parà della Folgore. Il
governo e il Parlamento italiani hanno deciso il 10 dicembre la
nostra partecipazione. Il contingente Ibis, circa 2.500 uomini,
arriva a Mogadiscio tra il 13 dicembre 1992 e il 5 gennaio 1993.
LA VOCE DELL' ITALIA Mogadiscio: lo studio di Radio Ibis,
l' emittente del nostro corpo di spedizione in Somalia. Ha avuto
grande successo tra la popolazione, poi è stata trasferita
all' interno del Paese, a Balad. Di recente è tornata a trasmettere
dalla capitale.
TIRO AL PAKISTANO Un Casco blu pakistano spegne l' incendio di un
blindato colpito da un razzo. E' proprio un agguato ai pakistani che
il 5 giugno 1993 scatena l' escalation della violenza a Mogadiscio:
22 soldati vengono uccisi dai miliziani di Aidid e la rappresaglia
provoca centinaia di morti tra i somali. Poco prima gli Usa hanno
ritirato il grosso delle truppe: in Somalia hanno solo 4 mila
uomini.
FOTOCRONACA DI UNA SCONFITTA / 2
LA BATTAGLIA DEL PASTIFICIO Il 2 luglio gli uomini del generale
Bruno Loi finiscono nella trappola di Aidid. Tre militari italiani
rimangono uccisi. Il governo Ciampi chiede all' Onu di rivedere gli
obbiettivi della missione. L' Onu accusa il generale Loi e ne chiede
il rimpatrio.
FINE DI UNA CROCEROSSINA Maria Cristina Luinetti, 24 anni, di Cesate
(Milano), la crocerossina uccisa da uno squilibrato somalo a
Mogadiscio il 9 dicembre scorso. Era in Somalia da 2 sole settimane.
CAMBIO DELLA GUARDIA La stretta di mano tra il generale Bruno Loi
(a destra nella foto) e il generale Carmine Fiore, da luglio
comandante del contingente italiano in Somalia. Bruno Loi, che aveva
con sé i paracadutisti della Folgore, non ha avuto buoni rapporti
coni comandi Usa e Onu, i quali più volte hanno chiesto la sua
sostituzione. Con Fiore è arrivata in Somalia la brigata
meccanizzata Legnano.
DOLORE IN ITALIA Il 4 luglio, all' ospedale militare del Celio, la
camera ardente per i tre caduti nella battaglia del pastificio: il
sottotenente Andrea Millevoi, il sergente maggiore Stefano
Paolicchi e il parà Pasquale Baccaro. In Somalia sono morti 11
componenti della missione Ibis, tra cui una crocerossina.
IL LINCIAGGIO Il 4 ottobre la folla trascina attraverso Mogadiscio
il corpo di un soldato americano. Il militare faceva parte
dell' equipaggio di un elicottero dei ranger abbattuto il giorno
prima sulla città. In tutto le vittime Usa sono tredici. Bill
Clinton, presidente americano, minaccia vendetta ma si prepara al
ritiro "con onore" dalla Somalia. E infatti le truppe degli Stati
Uniti lasceranno il Paese entro il 31 marzo 1994.
STRAGE PER FAME In Somalia dal 1990 sono morti per fame 250 mila
bambini sotto i cinque anni. Prima dell' intervento armato
dell' Onu, che ha assicurato la consegna degli aiuti, in aree come
quella di Chisimaio e Bardera il tasso di malnutrizione era del 30
per cento. Ora è del 10 per cento.

Testo
"Our goal is peace", il nostro obbiettivo è la pace. La scritta campeggia su un fondale di cartone, sopra la testa di una Madonna e di un San Giuseppe accoccolati accanto al Bambin Gesù. Ma è l' unica traccia, tra le sabbie dell' accampamento di Balad, dove i soldati italiani hanno celebrato con il Natale il loro primo anno in Somalia, a ricordare i propositi iniziali di una missione umanitaria, cominciata con il nome di "Restore Hope", ridare speranza, ormai in gran parte fallita. Tanto da spingere i governi occidentali, come hanno già fatto quello francese e belga, a smobilitare in fretta e furia i loro contingenti, per evitare che rimangano impantanati ancora in un conflitto senza soluzione.
Se l' Onu in quanto organizzazione resterà in Somalia fino a data da destinarsi, i protagonisti della missione hanno infatti già fissato il giorno della partenza: il 31 marzo prossimo. Entro quella data gli americani, che hanno già ridotto le loro forze all' osso, andranno via. E così pure gli italiani, seguiti da tedeschi, norvegesi, turchi, lasciandosi dietro, tra lattine di Coca-Cola vuote e carcasse di automezzi, i detriti di una colossale sconfitta.
LE SPESE DELL' ONU Questa in Somalia è stata la missione più costosa della storia dell' Onu dal 1948: 977 milioni di dollari stimati per il solo 1993, l' equivalente di mille e settecento miliardi di lire.
Più dell' intervento in Iugoslavia, più della Cambogia. Un mastodontico impiego di uomini e mezzi con un ambizioso e onorevole proposito: salvare il popolo somalo dalla fame e dalla guerra, in un Paese dove, secondo le denunce delle associazioni umanitarie, sarebbero morti dal 1990, anno d' inizio del conflitto civile, 250 mila bambini sotto i 5 anni, dove i cadaveri si contavano a 500 al giorno, dove 2 milioni e 500 mila persone rischiavano la vita per mancanza di cibo.
La missione internazionale, partita nel dicembre 1992, inizialmente sotto l' egida dell' Onu ma con il comando affidato agli americani, si propone tre obiettivi: portare cibo alla popolazione; disarmare le fazioni in lotta; avviare il processo di pace, in vista delle elezioni che si dovrebbero tenere nel marzo 1995. Obiettivi che a distanza di poco più di un anno sono per due terzi falliti.
Eppure all' inizio sembra una missione possibile. Il Nuovo ordine mondiale, consacrato da Bush con la vittoria nel Golfo, si pensa trionferà anche in Somalia. C' è chi dice che l' America in realtà accetta d' intervenire per liberare il Pentagono da un eventuale e più pericoloso impegno in Bosnia. Fatto sta che la macchina di pace si avvia nella maniera più spettacolare possibile, proprio come ai tempi del Golfo: trenta contingenti multinazionali, un totale di 30 mila uomini dispiegati nelle regioni meridionali della Somalia, trecentomila tonnellate di cibo già pronte per la distribuzione, un esercito di 43 organizzazioni non governative più 7 agenzie Onu impegnate a realizzare i programmi umanitari. Il gran circo della beneficenza viene teletrasmesso in tutto il mondo dalle centinaia di cameramen, fotografi, giornalisti che assistono allo sbarco dei marines a Mogadiscio, il 9 dicembre 1992.
SEI MESI. E POI IL SANGUE L' illusione dura circa sei mesi. Sei mesi in cui a Mogadiscio sembra tornare una parvenza di normalità.
Le truppe del contingente multinazionale aprono strade, proteggono i convogli per la distribuzione del cibo, rastrellano armi. Poi all' improvviso succede qualcosa. Il cambio di guardia all' interno della missione (che da maggio si chiama Unosom 2 e passa dal comando Usa a quello Onu, sotto il generale turco Cevik Bir) si rivela un disastro dal punto di vista diplomatico e politico. Una spirale di incomprensioni e litigi porta il contingente allo sbaraglio, mentre si scatena una guerra sui metodi stessi dell' intervento.
Protagonisti: gli americani che, sotto la guida dell' ammiraglio Jonathan Howe, vogliono usare le maniere forti. Gli italiani, affidati al comando del generale della Folgore Bruno Loi, preferirebbero invece la via della trattativa.
Nel frattempo, per motivi che restano piuttosto oscuri, uno dei principali signori della guerra, Mohamed Farah Aidid, da buon alleato degli Stati Uniti diventa "nemico numero uno", responsabile di stragi e massacri. L' Onu comincia a dargli la caccia, con bombardamenti a tutto spiano, senza riuscire peraltro a catturarlo.
Con l' unico effetto di scatenare l' odio della popolazione.
Risultato: una scia di sangue che dal 5 giugno (giorno in cui i somali massacrano 23 soldati del contingente pakistano) al 2 luglio (quando tendono l' agguato agli italiani al check point Pasta) si allunga fino a ottobre con 13 ranger statunitensi ammazzati e i loro corpi fatti a pezzi dalla folla inferocita.
Il sogno umanitario finisce, per ora, con 92 morti tra i Caschi blu, a cui si aggiungono dai 5 mila ai 10 mila somali uccisi durante gli scontri innescati proprio dalle forze Onu. Mogadiscio è un lago di sangue, dove anche l' Italia paga con i suoi 10 morti, caduti sotto il fuoco somalo, più una crocerossina uccisa da un bandito, il suo tributo. Tanto che adesso si pensa solo ad andar via. Per i 2 mila e 500 soldati italiani, intrappolati nel fallimento Onu, relegati, in seguito alla polemica con gli Stati Uniti, fuori da Mogadiscio, nelle zone interne di Balad, Johar, Belet Uen, Gialalassi, Matabaan, è arrivato infatti il momento della ritirata. "Pericolosa", ripetono gli ufficiali mentre la pianificano a tavolino. "E' una fase delicatissima". Si rischiano assalti, agguati, nuove stragi. I clan sono ancora in lotta, cecchini, guerriglieri, banditi armati oggi più di prima.
Cosa ha ottenuto allora l' Onu in Somalia, se non è riuscita a portare la pace? Qual è il vero bilancio di quella che doveva essere la più importante operazione delle Nazioni Unite nel mondo? OBBIETTIVO FAME I bambini scheletriti dal ventre gonfio e gli occhi socchiusi, le madri disperate che vagavano per centinaia di chilometri in cerca di cibo per i loro figli, gli uomini e le donne che morivano d' inedia ai bordi delle strade in Somalia non si vedono più. "L' emergenza fame è stata sconfitta", dichiarano le principali agenzie umanitarie dell' Onu, l' Unicef e World Food Program (Programma alimentare mondiale). Segno quindi che almeno a questo la missione è servita. Le scorte garantite dai militari certamente hanno aiutato i convogli umanitari a distribuire il cibo, a tamponare l' assalto di bande e predoni.
La fame era infatti per la Somalia, prima dell' intervento del contingente multinazionale, una fame causata dalla guerra, dalle condizioni di insicurezza del Paese per cui era impossibile distribuire il cibo. Convogli saccheggiati dalle bande, tentativi continui di estorsioni, taglieggiamenti di clan e fazioni... Tutte le organizzazioni umanitarie, costrette per lavorare a procurarsi scorte armate, si trovavano spesso a dover concedere denaro e viveri in cambio di protezione.
L' arrivo dei militari, se non è riuscito a evitare che parte di aiuti e viveri sia finita nelle mani dei clan, ha però garantito la consegna dei soccorsi, lasciando abbastanza soddisfatte le agenzie umanitarie che con la fine dell' emergenza hanno potuto cominciare a lavorare a programmi mirati: "Cibo in cambio di lavoro, per esempio", dice Brenda Barton, del Programma alimentare mondiale. "Si assume manodopera somala e la si ripaga con i viveri". Si offrono sementi per coltivare i campi, per spingere i contadini a ritornare alle loro attività. Se l' Unicef è riuscita a vaccinare contro il morbillo (malattia letale in Somalia) 750 mila bambini, portandone oltre 100 mila nuovamente nelle aule scolastiche, in attivo nel bilancio complessivo Onu, oltre a 300 mila tonnellate di viveri distribuiti, c' è anche l' operazione di sostegno offerta a 32 ospedali più 81 reparti di maternità.
Ma il successo dell' intervento umanitario potrebbe essere un effetto ottico. L' emergenza è sì stata tamponata, ma resta ancora la piaga della malnutrizione e in parte anche il rischio mortalità infantile. Nelle aree attorno a Baidoa, Chisimaio, Bardera, per esempio, il tasso di malnutrizione si è ridotto dal 30 al 10 per cento ma non si è azzerato.
Il ritorno alla normalità è ancora un miraggio. Se l' Unicef lancia un appello per raccogliere 32 milioni di dollari necessari a completare i programmi in corso, rimane comunque l' incognita politica a pregiudicare l' effettiva riuscita dell' intervento umanitario. Già i massacri di giugno e luglio, quando l' Onu si è messo a guerreggiare con Aidid, hanno costretto la maggior parte delle organizzazioni non governative a lasciare il Paese. Le scorte ai convogli si sono ridotte, come dimostrano gli stessi dati raccolti dal contingente italiano: dal dicembre 1992 al maggio 1993, quando era ancora a Mogadiscio, il contingente ha garantito ai convogli 464 scorte armate e distribuito 806 quintali di viveri. Nei mesi successivi le scorte si sono ridotte a 51 e i quintali di viveri a 234. Oggi il principale vanto italiano è aver rimesso in funzione 57 scuole, con 12 mila bambini ai quali viene distribuito cibo e materiale didattico.
"La fame è stata sconfitta", dice Gemmo Lodesani, responsabile a Mogadiscio per il Programma alimentare mondiale, "ma la presenza dei militari non ha portato alla pace. Anzi, ha causato un disastro".
Cosa succederà quando il contingente andrà via? "La Somalia diventerà un nuovo Afganistan. Io da parte mia chiudo l' ufficio e parto".
OBBIETTIVO DISARMO Boutros Ghali lo chiede sin dall' inizio, come condizione essenziale per garantire il pacifico svolgimento dell' azione umanitaria. Gli americani tergiversano. Cominciano qui e là qualche rastrellamento d' armi, ma poca roba. Operazioni eseguite anche dagli italiani, che non arrivano a intaccare l' artiglieria pesante in mano alle fazioni. A marzo, l' illusione di una svolta. I capi clan, presenti alla conferenza di Addis Abeba, accettano di collaborare. L' accordo è: consegnare le armi in cambio di una ricompensa in cibo o denaro. Viene istituita una commissione speciale per controllare settore per settore che avvenga il disarmo. Le fazioni sono tenute a presentare all' Onu una lista di "siti", depositi d' armi autorizzati sotto il controllo di rappresentanti di fiducia. Se nella zona nord di Mogadiscio, quella sotto il presidente ad interim Ali Mahdi, gli italiani cominciano le prime ispezioni, nella parte sud, quella di Aidid, nessun sito verrà mai denunciato dai somali, né tanto meno controllato dagli americani. Risultato: le fazioni litigano, nessuna vuole consegnare le armi per prima. Il disarmo fallisce, mentre l' Onu abbandona il progetto.
OBBIETTIVO PACE La riabilitazione di Aidid da parte dell' Onu, l' abbandono di ogni azione militare da parte del contingente multinazionale, la nuova politica di mediazione e accordo con le fazioni decisa dopo i massacri di ottobre, di fatto non hanno ancora dato frutti. L' ultimo tentativo di mettere d' accordo le fazioni prima del ritiro degli americani fallisce all' inizio di dicembre con le trattative di Addis Abeba. Ancora una volta a causa di Aidid.
Mentre infatti le 12 fazioni che appoggiano Ali Mahdi accettano di entrare in un governo provvisorio che dovrebbe guidare il Paese fino alle elezioni di marzo 1995, i 4 gruppi della Sna (l' alleanza nazionale somala), che appoggia Aidid, rifiutano.
Ora è una corsa contro il tempo, dove pesa la data del ritiro americano, il 31 marzo. Le truppe non possono andarsene lasciando il Paese nel caos totale. L' ammiraglio Jonathan Howe, responsabile delle Nazioni Unite in Somalia, confida comunque nella formazione di un governo provvisorio addirittura entro la fine di gennaio e il ministro italiano della Difesa, Fabio Fabbri, in visita natalizia al nostro contingente a Balad, annuncia "un' iniziativa straordinaria", una grande azione diplomatica, con l' aiuto di personalità del mondo africano per convincere le parti all' accordo. "La missione è fallita", ammette, "ma non dobbiamo rassegnarci all' inevitabile".
Fallita, appunto. Mentre nei corridoi del Palazzo di vetro dell' Onu a New York si parla già di smobilitare tutto prima del previsto, senza aspettare le elezioni del prossimo anno, ammesso che ci siano, ai 2 mila e 500 italiani rimasti in Somalia Clinton chiede di restare, e offre un posto direttivo nel prossimo comando Unosom.
Troppo tardi. "Abbiamo già pagato troppo per la Somalia", dice il ministro Fabbri. La linea morbida voluta dal generale Loi forse avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Ma non è stata capita. A luglio, quando è avvenuto il cambio di guardia tra i paracadutisti della Folgore e i bersaglieri della brigata Legnano, al posto di Loi è arrivato il generale Carmine Fiore. Così come al posto del ministro plenipotenziario Enrico Augelli, sostenitore della mediazione con i clan, è venuto Mario Scialoja, ambasciatore di fede musulmana, buon amico degli americani. Entrambi uomini del disgelo tra Italia e Stati Uniti in una fase in cui, deposte le armi contro i somali, quietate le polemiche interne, l' Onu spera solo di chiudere la partita. Nella maniera meno cruenta possibile.




Testata
Epoca

Data pubbl.
17/08/93

Numero
2236

Pagina
102

Titolo
VIAGGIO IN BOSNIA CON QUEL KAMIKAZE DI DON ALBINO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI PIGI CIPELLI

Sezione
STORIE

Sommario
Fino all' ultimo si è battuto per portare mille pacifisti sotto le bombe di Sarajevo. Poi l' hanno fermato. Un pazzo? Un eroe? "Epoca" l' ha seguito. E ha capito perché un prete di Padova ha tenuto in scacco per 200 ore le diplomazie internazionali.

Didascalia
UNICO SIMBOLO, UNA CROCE AL COLLO
Don Albino Bizzotto, 52 anni, padovano, abortista, rapporti
difficili con gli ambienti ecclesiali, è il promotore della marcia
Mir Sada (Pace ora, in slavo). "E' necessaria", dice, "la
diplomazia popolare: la gente deve avere il diritto a trattare anche
con i governi".
VIVERE IN MEZZO ALLA GUERRA
Toilette a cielo aperto nell' accampamento dei pacifisti, a pochi
chilometri da Prozor. Nello stesso spiazzo un elicottero croato
trasporta all' ospedale di Spalato i soldati feriti al fronte.
DA TUTTO IL MONDO
Tra i 1.200 pacifisti arrivati fino in Bosnia
c' erano italiani, americani, greci, spagnoli e tre monaci
buddisti (a sinistra). La carovana è partita da Spalato senza il suo
leader, don Albino Bizzotto, costretto a trattenersi sulla costa
slava in attesa di altri pullman. Nella foto a destra: risveglio
nell' accampamento di Prozor.
ASPETTANDO SARAJEVO
A sinistra: si inganna il tempo al campo in
attesa del via libera verso la capitale bosniaca. A destra: don
Albino Bizzotto dirige l' assemblea che deve decidere se mettersi in
marcia malgrado i colpi di mortaio sempre più vicini. "Tutti ci
dicono di tornare indietro", dice il prete, "ma io propongo di
proseguire. Decidete voi".

Testo
Don Albino Bizzotto tira fuori la testa dal sacco a pelo, buttato di traverso tra una fila di pullman. Esce all' aria in canottiera, prende specchietto e rasoio per farsi la barba. E già attorno a lui si sparge la voce: "E' arrivato, è arrivato". Pochi minuti e i megafoni risuonano per l' accampamento: "Assemblea straordinaria alle sette con don Albino, assemblea straordinaria". E' l' alba di venerdì 6 agosto a Prozor, villaggio croato in Bosnia, ultima retrovia prima del fronte di guerra. Qui bivaccano da giorni, a una ventina di chilometri dalla prima trincea, 1.200 pacifisti di tutto il mondo in attesa di andare a Sarajevo.
Scout ed estremisti. Sono giovani, adulti, anziani. Capelloni e vecchiette con il rosario. Mistici ed atei. Scout con la chitarra e impiegati in ferie. Ex militanti di Lotta continua (come Ovidio Bompressi, coinvolto con Adriano Sofri nell' omicidio Calabresi) e obiettori di coscienza che hanno disertato il servizio civile per protesta contro lo Stato... Temerari di tutti i tipi, votati a una missione kamikaze. Per raggiungere la capitale assediata bisogna infatti attraversare Gorni Vakuf, Novi Travnik, fino a Vitez, roccaforti della controffensiva musulmana, percorsi che solo i Caschi blu dell' Onu si azzardano a fare con i blindati.
Don Albino, 52 anni, sacerdote padovano originario di Bassano del Grappa, è il loro leader. E' arrivato da Spalato per comunicare rischi e pericoli dell' impresa: cecchini, granate, possibilità di imboscate. Ma con spirito da crociato è il primo a non volersi arrendere: "Andremo", ripete davanti a un' assemblea stravolta, "Andremo a Sarajevo".
Un prete da oratorio. Un eroe? O piuttosto un pazzo? A vederlo non sembrerebbe un trascinatore di folle. Magrolino, capelli radi, aspetto dimesso, si aggira per il campo con una maglietta azzurra, pantaloni grigi, sandali ai piedi e un cappello di paglia per ripararsi dal sole, simile più a un prete da oratorio che a un capo carismatico. Ha uno sguardo, però, che taglia in due l' interlocutore, occhi chiari e una smorfia a volte diffidente a volte beffarda che nasconde uno spirito d' ayatollah. E' lui infatti il vero artefice della missione, battezzata in lingua slava Mir Sada, Pace ora. Un' iniziativa internazionale, sorretta da un migliaio di italiani partiti il primo agosto da Ancona, ai quali si sono uniti i francesi d' Equilibre (organizzazione non governativa che lavora da mesi nella ex Iugoslavia) più americani, greci, spagnoli, tedeschi e persino tre monaci buddisti.
Quasi un guru, il sacerdote. Con lui ci sono le Acli e l' Arci, Pax Christi e associazioni di sinistra. L' idea forte? La "diplomazia popolare". "La gente", spiega don Albino, "deve ottenere il diritto di trattare anche con i governi".
Un cappuccino a Ginevra. Sarajevo non è un miraggio. Nel dicembre scorso, il sacerdote era riuscito a portare nella capitale assediata 500 pacifisti. "Anche allora sembrava impossibile, eppure ce l' abbiamo fatta", ripete, senza tener conto di quello che sta succedendo adesso. Minacce di bombardamento Nato, la Bosnia intera in fiamme, nuovi fronti tra croati e musulmani... Al sacerdote basta aver spedito a Ginevra, durante le trattative diplomatiche, un frate cappuccino del Trentino, don Fabrizio Forti, per essere convinto che i leader della ex Iugoslavia, Karadzic, Izetbegovic, Tudjiman e Boban, proteggeranno il convoglio dall' assalto delle milizie. Non lo spaventa il bombardamento Nato, né tanto meno il diktat del nostro ministero degli Esteri, arrivato il 5 agosto. "Il governo italiano", annuncia a Prozor con voce piatta, "mi ha detto chiaramente che andiamo incontro al massacro e che le responsabilità di tutto quello che accadrà saranno mie". Silenzio. "Decidete in base alla vostra coscienza. Io dico che bisogna andare".
Assemblea spaccata. Rimbomba il primo colpo di granata, il secondo, il terzo (a 200 metri c' è una postazione di artiglieria croata).
L' assemblea si spacca. La maggior parte decide di partire. Duecento italiani si dissociano. Parecchi autisti battono in ritirata (tra di loro ce n' è uno, Marcello, che era convinto di andare a Saragozza e solo sul traghetto per Spalato si è reso conto che il principale l' aveva spedito a Sarajevo). Si dissociano i francesi di Equilibre, dichiarando la missione un atto suicida. Don Albino non l' ha detto, ma i serbi hanno minacciato di prendere i pacifisti in ostaggio se non accetteranno, una volta a Sarajevo, di portar fuori gli altri serbi intrappolati in città.
Prete "contro". Ribelle don Albino lo è sempre stato. Sin dagli anni in cui appariva in corteo con i capi di Autonomia operaia. Ci sono foto che lo ritraggono con falce e martello alle spalle, ci sono voci (lui non le smentisce) che parlano di una sua messa al bando negli ambienti ecclesiastici. Nato da famiglia contadina, nel 1981 venne rimosso dall' insegnamento scolastico per aver fatto propaganda a favore della legge 184 sull' aborto. Non gli è mai stata affidata una parrocchia. Per guadagnarsi da vivere, ha fatto il muratore, l' imbianchino, l' operaio. Non c' è quindi da stupirsi di trovarlo in Bosnia alla testa di centinaia di persone, per un' impresa che non andrà mai in porto.
Crisi a Spalato. In effetti, che l' operazione fallisse si poteva prevedere già il 2 agosto quando i pellegrini, sbarcati a Spalato, sono stati scaricati in una pineta accanto allo stadio. Due giorni d' attesa tra ordini e contrordini, assemblee estenuanti, frinire ininterrotto di cicale, docce scarse e scarsi rubinetti d' acqua potabile (segno che le autorità croate non sono così felici, come credeva don Albino, di accogliere il popolo della pace). Primi segni d' insofferenza. "Sono due notti che dormo in un sacco a pelo. Non l' avevo mai fatto in vita mia", borbotta Giuliana Scolari, in ferie dagli uffici della Statale di Milano per partecipare alla missione di pace. Ci sono ragazzi, 18 anni o poco più, che hanno detto ai genitori di essere in campeggio a Fiesole e ora hanno qualche dubbio: "Ci spareranno addosso?".
Don Albino passa da una riunione all' altra: "L' Onu ci è ostile. Ci sconsiglia di andare". Ostile? L' agenzia dell' Alto Commissariato per i profughi delle Nazioni Unite si è offerta di portare i viveri raccolti dai pacifisti con gli aerei. Ma l' assemblea, manco a parlarne, boccia democraticamente la proposta: "Noooo!". Ci sono problemi con i pullman. I croati avevano promesso 20 autobus ma non si sono visti. Devono restare a Spalato un centinaio di pacifisti, delusi, per i quali non c' è posto in autobus. Don Albino non li abbandona: "Resterò con loro". La carovana parte senza il suo leader. Centoventi vetture arriveranno a Prozor di sera, dopo ore di passaggi estenuanti su una pista di montagna tra check point croati.
Cominciano gli spari. Notte all' addiaccio in riva al lago. Per sveglia, tre colpi di mortaio. I croati bombardano Gorni Vakuf, da una postazione a 200 metri dal campo. Il battesimo del fuoco scatena il terrore, la consapevolezza di essere davvero vicini al conflitto.
Una biondina milanese, partita con propositi agguerriti, balbetta: "Continuo a tremare, non riesco ad abituarmi". Si registrano crisi isteriche. Parte l' assemblea anti-panico per spiegare come affrontare paura individuale e paura collettiva. Consiglio: rivolgersi ai ragazzi del Fiorino targato Firenze che fa da ambulanza. Dario Del Ben, dentista di Pordenone, biondo e barbuto, volontario di pace anche lui, somministra tranquillanti, Valium a tutto spiano. Nel frattempo, ai margini dell' accampamento dove è stata allestita una toilette a cielo aperto, un elicottero fa la spola per trasportare i croati feriti in battaglia.
Arriva il 6 agosto, il giorno della partenza. C' è chi scrive lettere d' addio ai genitori. Chi si rammarica, tra un gruppo di ragazze, per non aver preso la pillola anticoncezionale "nel caso in cui ci prendano per ostaggio e violentino le donne". Al camping Bosnia si respira aria da martirio. Dura 24 ore. Poi don Albino cambia espressione. Ha una faccia strana: non si parte più. L' Onu, gli americani, i bombardamenti annunciati sulle truppe serbe... E' troppo. Il sacerdote abbassa la testa. Forse per la prima volta.




Testata
Epoca

Data pubbl.
10/08/93

Numero
2235

Pagina
110

Titolo
MOGADISCIO CIO' CHE NON V' HANNO MAI DETTO SULLA BATTAGLIA IN CUI SONO MORTI I NOSTRI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
LE FOTO ESCLUSIVE DI QUEL GIORNO

Sommario
Autorizzazioni a sparare attese per ore. Soccorsi mai arrivati. Collegamenti radio in tilt. Comandanti incerti sul da farsi. Ecco tutti i retroscena dei combattimenti di quel giorno maledetto al checkpoint Pasta. Ricostruiti, fuori delle cronache ufficiali, da tre militari che erano lì. E che adesso, tornati in Italia, hanno deciso di raccontare la verità. "Gli spari arrivano da un ammasso di catapecchie. Si alzano vampate di fuoco. C' è fumo dappertutto. La nostra mitragliatrice si inceppa" "Le nostre bombe a mano fanno un gran botto, ma pochi danni. E il comando non ci fa usare i cannoni"

Didascalia
E' il 2 luglio. A 500 metri dal checkpoint Pasta, due parà sotto il
fuoco somalo chiedono aiuto a un blindato italiano.
IN BATTAGLIA
Sono le 7.30. I soldati italiani, impegnati in un
rastrellamento, si trovano la strada bloccata da barricate, mentre i
somali aprono il fuoco contro di loro. Arriva l' ordine di
ripiegare. Ma, sulla strada verso la base, nuove imboscate. A
sinistra, i danni al Vcc, colpito da un razzo, su cui c' era
Pasquale Baccaro, il parà ucciso.
I paracadutisti del contingente italiano sotto il tiro dei somali
nei pressi del checkpoint Pasta.

Testo
Autorizzazioni a sparare aspettate per ore. Soccorsi mai arrivati.
Collegamenti radio in tilt. Comandi incerti sul da farsi. Incursori mandati allo sbaraglio... Ecco i retroscena della battaglia che si è combattuta il 2 luglio al checkpoint Pasta di Mogadiscio. La ricostruiscono, fuori delle cronache ufficiali, tre paracadutisti che quel giorno erano lì. Uno, Oliviero Bonetti, si è appena congedato. Gli altri due, di leva, sono ancora ricoverati all' ospedale Celio di Roma per le ferite riportate durante gli scontri.
Il racconto di Oliviero Bonetti, 23 anni, di Roma, sottotenente del 186esimo reggimento della Folgore.
"Ce l' hanno annunciato il giorno prima: "Domani si partecipa a un' operazione Canguro". Ma sembra il solito rastrellamento di armi: nessun segno di tensione, nessun allarme... Anche se a Mogadiscio da settimane i somali ci avvertivano: "State attenti", ci ripetevano per strada, "perché i guerriglieri di Aidid si stanno spostando dal settore controllato dai pakistani a quello compreso tra i vostri checkpoint Ferro e Pasta". L' avevamo denunciato ai nostri comandi. Ma nessuno sospettava cosa sarebbe successo quel 2 luglio.
"L' operazione "Canguro" comincia alle cinque del mattino.
All' inizio sembra routine. E' intorno alle sette, mentre siamo allineati ad aspettare i mezzi rimasti indietro, che comincia la sassaiola. Si formano le prime barricate con i copertoni in fiamme, poi gli spari. Li sento a un centinaio di metri, ma, bloccato accanto al trasporto truppe Vcc, non sono in grado di vedere cosa succede esattamente. So solo che, all' improvviso, alle sette e mezzo, arriva l' ordine di completare il rastrellamento.
"Primo errore: veniamo rimandati indietro proprio nel momento in cui, con il massimo dispiegamento di forze, 700 uomini almeno, saremmo stati in grado di tamponare l' agguato. Ci disperdiamo.
Alcune compagnie rientrano in città. Altre, tra cui la mia, ripiegano verso Balad, a Nord. I blindati avanti, dietro i mezzi ruotati. A mezz' ora di strada da Mogadiscio, alle porte di Balad, ecco il contrordine: "Tornate in città". Nessuna spiegazione. Nessun accenno al fatto che al Pasta si continua a sparare. Lungo la Via Imperiale, all' altezza del mercato della carne, il primo segnale di pericolo: le barricate. La strada sembra deserta, è silenziosa. Ma è un' illusione. Ci sono gruppi di somali ai bordi che lanciano sassi.
"Il mio carro, un Vcc, è in testa alla colonna. Superiamo di 500 metri il checkpoint Pasta. Stavolta è una pioggia di pietre. I parà scendono dai mezzi per disperdere i somali. Ma quelli scappano, e dietro comincia il fuoco dei cecchini.
"Non so cosa succede alle mie spalle. Il fuoco arriva da una traversa sulla sinistra della Via Imperiale, da un ammasso di catapecchie. Si alzano vampate di fuoco. C' è fumo dappertutto. Ci mettiamo al centro dell' incrocio per coprire con la nostra mitragliatrice i soldati a piedi.
"Un altro carro Vcc si avvicina all' angolo della strada cercando un tiro migliore contro i guerriglieri. Non fa in tempo a finire la manovra che un Rpg, un razzo anticarro, lo centra in coda. Non ce ne accorgiamo subito. Conosceremo solo dopo gli effetti micidiali del colpo: il parà Pasquale Baccaro con una gamba tranciata di netto, il sergente maggiore Monti con il ventre squarciato (sopravviverà, ndr), un altro ragazzo con la mano spappolata...
La Browning è fuori uso. "Il mio ruolo è quello di mitragliere di coda. In pratica, con il busto fuori dal carro, sparo con l' Mg.
Vedo gente presa dal panico buttarsi per terra, esporsi ai colpi.
Non ho paura, sento addosso solo una rabbia mai provata. Voglio uccidere, sterminare i nemici. Nel frattempo si inceppa l' altra mitragliatrice di bordo, la Browning. Rischiamo di trasformarci in un bersaglio. Urlo al pilota di spostarsi, mentre un secondo razzo esplode lì vicino.
"Il fuoco si allarga. I cecchini sparano dalle case, dai container sull' altro lato della strada, dalle torri del pastificio. Il sottotenente Carbonetti, ai comandi del mio carro, rimette in funzione la Browning. Alle spalle ci fanno segno di indietreggiare.
Ci sono barricate di lamiera, dietro di noi, ancora fumo. La manovra è difficile. Spostandoci ci accorgiamo che a terra, a riparo del muro, stanno allineati i feriti. Sono quelli del Vcc colpito dal razzo. Non possiamo far niente per loro, perché due Centauro nel frattempo ci hanno chiuso il passaggio. I soldati colpiti restano isolati per più di un' ora. Il sergente Monti urla: "Portatemi via, per favore. Fatelo per mia moglie, per i miei figli". Altre invocazioni, altre grida. Il capitano Riccò, dalla jeep, continua a sparare per coprire i loro corpi dal tiro dei cecchini. Chiamiamo aiuto via radio. I soccorsi non arrivano. Arriverà un' ambulanza verso mezzogiorno, ma nessuno di noi la vedrà, crivellata dalle raffiche al di là delle barricate.
"Il colonnello Torelli, vicino al capitano Riccò, tiene via radio i contatti con il generale Loi, che dopo il rastrellamento è tornato in ambasciata. Loi ripete: "State calmi. Datemi le coordinate dei cecchini". Noi continuiamo a domandare l' autorizzazione a sparare con l' artiglieria pesante, quella dei Centauro e degli M60. I nostri fucili, i nuovi modelli Scp 70 / 90 sono buoni, ma non bastano. Le bombe a mano, le Srcm / 35 fanno un gran botto, un' esplosione di schegge, ma poco effetto offensivo. L' unico modo per tirarci fuori da là non sono né le mitragliatrici Browning né le Mg. Sono i cannoni. "State calmi", dice ancora Loi, mentre i somali sparano ormai da tutte le parti. Corre voce che il generale aspetti disposizioni da Roma.
"Gli elicotteri volteggiano sopra le nostre teste. Arrivano gli uomini del 9° battaglione, gli incursori del Col Moschin. Mandati al macello, sui Vm, le campagnole scoperte. Non sono stati avvertiti neanche loro di quello che sta succedendo. Si inoltrano a piedi verso il pastificio per stanare i cecchini. Tornano a mani vuote.
Uno di loro è ferito. Non so se il sergente maggiore Stefano Paolicchi muore in quell' occasione, o dopo. So che nel frattempo i somali si sono impossessati di uno dei loro mezzi, il Vm con la Browning. Via radio, sentiamo uno dei piloti degli elicotteri chiedere l' autorizzazione a sparare con i missili Tow: ha sotto tiro i banditi che hanno rubato il Vm. E' pronto a distruggere il mezzo con il suo carico di armi e munizioni. Ma l' autorizzazione non arriva. "Attenda", gracchia la radio. I somali scappano. Quando arriva il permesso, l' obiettivo sembra perduto. Fortunatamente subito dopo viene "riagganciato" e colpito.
Le radio guaste. "I contatti radio tra i blindati funzionano male.
Siamo isolati l' uno dall' altro. Il capitano Riccò urla dalla jeep: "Attenzione ai razzi anticarro". I carabinieri del Tuscania rischiano di beccarne uno. Noi siamo al riparo del muro, ma sulla strada imperiale piovono già i colpi di mortaio. Non so quanto sia durata. So solo che il fuoco cessa quando si avvicina l' elicottero americano, dotato di sensori per captare le fonti di calore e, quindi, la provenienza degli spari. Nel frattempo qualcuno dei nostri tira colpi di cannone dall' M60. Ora dicono che è stata aperta un' inchiesta per accertare le responsabilità di questo gesto non autorizzato. Come se si possa dare addosso a un militare in una situazione disperata come quella... Grazie a lui o grazie agli americani, la strada è comunque aperta. Carichiamo tutto sui mezzi, morti, feriti, armi, munizioni. Ripieghiamo verso il Porto Vecchio.
Al checkpoint Pasta rimane solo la carcassa di una campagnola Vm distrutta dalle fiamme".
Il racconto di Massimiliano Zaniolo, 19 anni, di Milano, caporale del 183esimo reggimento Nembo.
"Ero sul carro colpito dal razzo, il 2 luglio. Ci ho rimesso due dita della mano sinistra, l' indice e il medio. L' omero per fortuna mi è stato ricostruito. Poteva andare peggio.
"Il missile, un Rpg, è esploso all' interno della corazza mentre tentavamo di uscire all' aria aperta. Cosa ricordo? Il sergente maggiore Giampiero Monti con le budella in mano mentre apriva la botola per tirarci fuori dal carro, io barcollante, che scendevo con le mie gambe, altri feriti trasportati a braccia... Avrei preferito svenire per non sentire il dolore e non vedere quello che c' era attorno a me. Invece sono rimasto cosciente. Il paracadutista Pasquale Baccaro... Ho visto come è morto: dissanguato. Sua madre mi ha chiesto qualche giorno fa di raccontarle i suoi ultimi momenti.
Le ho detto che non ha sofferto, che la sua agonia è finita subito.
"Ho vissuto la battaglia tutta da quell' angolo, accanto al muro, mentre i guerriglieri somali continuavano a lanciare razzi anticarro. Non avevo paura di morire, ero solo disperato per la mano, per le due dita che non c' erano più. Avrei voluto sparare, ma farlo in quelle condizioni significava colpire i miei compagni.
Anche gli altri feriti erano conciati male. Siamo rimasti più di un' ora sotto il fuoco aspettando soccorsi che non si sono visti.
"Ci ha difesi il sottotenente Gianfranco Paglia, che poi è stato colpito alla spina dorsale. Sparava a raffica, facendoci segno di rientrare nel nostro Vcc. Ero terrorizzato, ma mi sono tirato su ugualmente. Dentro il blindato io e gli altri feriti siamo rimasti mezz' ora almeno, isolati dai mezzi che nel frattempo avevano cominciato a indietreggiare. Vedevo i Centauro a poca distanza e mi rodevo dalla rabbia perché quelli, con i cannoni non sparavano un colpo. Ho saputo poi che il generale Loi aveva vietato l' uso dell' artiglieria pesante. Qualcuno di noi ha sparato lo stesso, fortunatamente, anche se adesso è sotto inchiesta. Il Vcc si è rimesso in moto un' ora e mezzo dopo. Mi hanno trasportato al Porto Vecchio e di lì con un elicottero all' ospedale americano per operarmi d' urgenza all' omero. Il braccio adesso è salvo".
Il racconto di Francesco Filocamo, 22 anni, di Napoli, del battaglione logistico della Folgore.
"Lavoro al campo di Balad come assistente sanitario. Da più di un mese eravamo in stato d' allarme giorno e notte. Non si dormiva più, perché correva voce che le forze di Aidid, risalite verso Johar, potessero attaccare il nostro campo. La mattina del 2 luglio, però, non avevamo la minima idea di quello che stava succedendo a Mogadiscio. Al campo erano arrivati due somali, feriti durante uno scontro tra fazioni. Dovevamo trasportarli in ambulanza in città.
"Ci mettiamo in moto verso le nove, in convoglio. Alle dieci siamo alle porte di Mogadiscio. C' è folla nella zona del mercato, ma ripeto, non sappiamo ancora nulla. L' aria però è pesante. E' un' aria che puzza. All' improvviso vediamo le barricate. Caterve di lamiere che ingombrano quasi tutta la strada. Superiamo questo primo sbarramento, ci passiamo in mezzo. A 200 metri, un altro sbarramento. Al terzo riusciamo ancora a passare. Ma ecco che ci troviamo bloccati in una specie di ferro di cavallo. A destra le torri del pastificio. A sinistra altre barricate. Siamo accerchiati.
"Arrivano i primi colpi contro i vetri dell' ambulanza. Un sergente urla di saltare fuori, mentre uno dei due somali a bordo muore sotto il fuoco dei cecchini. Uno dei nostri in preda al panico comincia a sparare in aria. Non aspettiamo autorizzazioni. Apriamo il fuoco, ma i nostri avversari sono difficili da stanare.
"Alle 11,30 mi arriva addosso la prima pallottola, all' interno della coscia sinistra, mentre sono in ginocchio accanto alla jeep.
Arriva di rimbalzo, intacca il femore e si ferma nel bacino. Cerco di trascinarmi sotto un camion, ma un' altra raffica mi spezza la tibia. Rimango quasi un' ora e mezzo sotto il camion, medicandomi da solo con una stringa. Arrivano i blindati. Si dispongono a rombo attorno ai mezzi del nostro convoglio. Caricano me e altri feriti sull' ambulanza, mentre un colpo di mortaio sfiora uno dei Vcc.
Quando l' ambulanza si rimette in moto, sono già le tre del pomeriggio. Al Porto Vecchio aspettiamo fino alle cinque e mezzo che atterrino gli elicotteri per i soccorsi. Un' ora dopo sono a Johar in camera operatoria".

BOX
SEI DISEGNI PER CAPIRE COME E' ANDATA DAVVERO "Sembrava di stare all' inferno". Ecco, minuto per minuto, la ricostruzione della prima battaglia dei nostri soldati dalla Seconda guerra mondiale.
Il 2 luglio 1993 l' esercito italiano è stato impegnato per la prima volta in battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale. Durante un rastrellamento a Mogadiscio, 700 soldati del nostro contingente sono stati attaccati da centinaia di miliziani somali. Gli scontri sono cominciati alle 7.30 del mattino. Alle 16.10 gli ultimi militari italiani erano rientrati alla base. Nei combattimenti sono morti tre italiani: il sergente maggiore del Col Moschin Stefano Paolicchi, il sottotenente dei Lanceri di Montebello Andrea Millevoi e il paracadutista Pasquale Baccaro. Ventidue i feriti. Da parte somala ci sono stati, secondo il nostro Stato Maggiore, 67 morti e 103 feriti. Alla fine della battaglia le nostre forze hanno abbandonato il checkpoint "Pasta". Ed è proprio lo scontro davanti a quel posto di blocco che vi raccontiamo attraverso questi disegni.
Sono i momenti forse più difficili dell' intera giornata, ricostruiti da un ufficiale che vi ha partecipato, il sottotenente Oliviero Bonetti.




Testata
Epoca

Data pubbl.
27/07/93

Numero
2233

Pagina
34

Titolo
STORIA DI UN EROE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL CORAGGIO DEL SOTTOTENENTE GIANFRANCO PAGLIA, IL PIU' GRAVE DEI NOSTRI FERITI A MOGADISCIO

Sommario
Ha salvato quattro commilitoni colpiti nella battaglia del Pastificio. Poi i cecchini hanno preso anche lui. Ha 23 anni e resterà paralizzato per sempre: "Ma, giuro, rifarei tutto..."

Didascalia
IN TRINCEA Gianfranco Paglia, 23 anni, sottotenente parà.
TRE PROIETTILI IN CORPO L' arrivo di Paglia in gravissime condizioni
all' aeroporto di Ciampino.
SI SPOSERANNO Sopra e sotto, due immagini di Gianfranco con la
fidanzata, Francesca.
CON I GENITORI Gianfranco Paglia con la madre Filomena e il padre
Antonio prima della Somalia.

Testo
Su un letto dell' ospedale militare, il ragazzo muove appena le labbra. "Il peggio é passato", sussurra tentando un sorriso. Ha una ferita che gli taglia il torace, un tubo che gli entra in gola, un polso fasciato. Il resto del corpo, immobile, é coperto da un lenzuolo. Ha 23 annni. Si chiama Gianfranco Paglia, sottotenente paracadutista, reduce da Mogadiscio, dalla battaglia del 2 luglio al check point Pasta che ha fatto tra gli uomini del nostro contigente 3 morti e 22 feriti.
Non sa ancora, il sottotenente Paglia, di aver perso per sempre l' uso delle gambe, di essere praticamente morto dalla vita in giù, di dover passare il resto dei suoi anni inchiodato su una sedie a rotelle, con la spina dorsale squarciata da una pallottola e un polmon e ridotto a metà. "Preparami un frullato", chiede alla madre, "ora che il peggio é passato".
L' hanno trasportato da Mogadiscio, martedì 13 luglio, con un Dc-9 dell' aeronautica e, poi, in ambulanza fino all' ospedale Celio di Roma. Un rientro silenzioso. Poche autorità ad aspettarlo. Un paio di giornalisti. Nessuno della brigata Folgore.
Niente a che vedere con il clamore del 4 luglio, quando sono tornate a Ciampino le salme dei tre caduti. Forse il sottotenente Gianfranco Paglia meritava un' accoglienza diversa. Perché a Mogadiscio questo ragazzo di 23 anni, vissuto fino a pochi mesi fa con la famiglia a San Leucio, alle porte di Caserta, si é comportato da eroe: é stato ferito mentre tentava di mettere in salvo i compagni caduti sotto il fuoco dei cecchini.
E' stanco, adesso, Gianfranco Paglia. La ferita al polmone gli rende doloroso parlare. Ma racconta ugualmente a fior di labbra gli attimi disperati della battaglia nell' inferno di fuoco del check point Pasta: "Avevo 4 feriti da raccogliere. Uno mi sembrava particolarmente grave. Il comandante del battaglione mi ha detto di smettere. Non potevo: c' erano altri compagni a terra. Ho continuato a sparare raffiche di mitra e lanciare bombe a mano per proteggere i loro corpi".
Alla fine aveva caricato i feriti nel blindato. Stava per rientrare, ma la folla di donne e bambini gli ha bloccato il passaggio. E quando è uscito dal carro armato i cecchini l' hanno centrato. Tre colpi: uno al polmone, uno al polso, il terzo, micidiale, alla schiena. "No, non ho mai perso conoscenza", dice ancora. "Non sono pentito per quello che é succeso. Lo rifarei". Addosso Gianfranco Paglia, sottotenente del 187° reggimento, i Diavoli neri, portava solo il giubotto antischegge. Gli unici a proteggere in una situazione come questa, quelli antiproiettili in dotazione all' esercito italiano, pesano 14 chili, sono scomodi e ingombranti nei momenti difficili.
Gli daranno una medaglia al valore? Una pensione d' invalidità, o cos' altro? Per ora l' esercito si limita a garantire genericamente piena assistenza, anche se il capo di stato maggiore della difesa, Domenico Corcione, si é preoccupato di telefonare in continuazione alla famiglia. Intanto il padre, Antonio, professione guardacaccia, si ostina a ripetere: "Spero solo che mio figlio non debba lasciare l' esercito. Lui tiene alla divisa".
Ci teneva, almeno. La scelta di fare il soldato per Gianfranco Paglia nasce infatti da una vocazione. Inspiegabile, come tutte le vocazioni. Improvvisa. Quasi una fede. Arruolato tra i parà lo scorso marzo, era partito per la Somalia il 29 maggio. Entusiasta, perché gli sembrava finalmente di mettere in pratica quello che da un paio di anni definiva, con enfasi quasi infantile, "il mio sogno nel cassetto": diventare militare di carriera, acquistare meriti per poter un giorno fare il concorso da pilota dell' Accademia aeronautica.
L' uniforme del padre. Nessuno in famiglia l' aveva contrastato. Il padre, anzi, dice con orgoglio: "A casa siamo in tre a indossare l' uniforme: io che sono guardacaccia, mia figlia Manuela che fa la scout e Gianfranco". Erano però rimasti di stucco, i parenti, una sera d' estate di tre anni fa, quando Gianfranco aveva rivelato, borbottando tra i denti, i suoi progetti. "I ragazzi, da noi al Sud, aspirano al massimo a un posto d' impiegato al comune", racconta uno zio. "Non certo ai parà della Folgore". C' era, é vero, il precedente di nonno Vito, maresciallo, reduce di guerra, prigioniero in Tunisia, ma a nessuno era venuto in mente che la sua vocazione fosse passata al nipote,un ragazzo attaccato alla famiglia, tradizionalista, uno che in vacanza andava in campeggio con il padre, la madre Filomena, la sorella Manuela, 14 anni.
Gianfranco aveva preso il diploma all' istituto nautico di Napoli senza brillare troppo, col minimo dei voti. Le sue passioni: il calcio, l' orto di casa dove coltivava pomodori e melanzane. E la fidanzata, Giovanna Petrillo, conosciuta a 13 anni. Ha sempre avuto, però, un carattere testardo, l' abitudine a dividere il mondo in bianco e nero, ad appassionarsi a un' idea fino a sposarla totalmente. "Uno con i paraocchi", dice con affetto la fidanzata."Senza troppe sfumature. Come aveva avuto per anni la fissazione del pallone, così gli é venuta quella dell' esercito".
Nella sua camera, al primo piano della villa di San Leucio dove abitano zii, cugini e nonni, c' é il segno di ciascuna delle sue passioni: trofei di calcio, riviste militari, e poi, come una profezia, la storia del Vietnam, accanto alla bandiera dei Diavoli neri del 187° reggimento.
Per diventare pilota Gianfranco aveva scelto la via più impervia: dopo la leva da soldato semplice, il corso per ufficiale di complemento nell' aeronautica. Il voto di diploma lo penalizzava in graduatoria, così per guadagnare punteggio era partito per l' Inghilterra a studiare inglese e subito dopo si era iscritto all' Aeroclub di Capua. Era stato ammesso al corso, ma non era riuscito passare l' esame di volo. Non si era scoraggiato: "Se non il pilota, farò l' ufficiale, tra i parà". A marzo lo hanno arruolato nella Folgore.
C' é un amico di famiglia, il generale Carlo Bellinzona, che l' ha appoggiato in questa sua decisione: "Un anno fa venne a chiedermi consiglio. Mi parlò con tanto entusiasmo del suo desiderio di tentare la carriera militare che non gli chiesi neanche perché. La sua determinazione mi lasciò sbalordito. Pensai che l' Italia aveva bisogno di giovani come lui".
Adesso il generale ha un rimorso, un pensiero che lo tormenta. Cita un film: "Nato il 4 luglio", quello con Tom Cruise che racconta la storia vera di Tom Kovic, marine americano partito per il Vietnam, imbottito di patriottismo e di ideali, tornato dalla guerra paralizzato. "Fino a che punto, mi chiedo, un uomo deve pagare un prezzo così alto per seguire le sue aspirazioni?" Già, le aspirazioni. Quelle di Gianfranco Paglia sono sepolte per sempre tra la polvere di Mogadiscio, all' ospedale americano dove é stato operato al polmone, dopo la battaglia. lo stesso luogo dove hanno anche diagnosticato la paralisi alle gambe. Eppure la Somalia faceva proprio parte del "sogno". "Siamo qui per aiutare i somali", diceva all' inizio. Poi hanno cominciato a sparare, ma Gianfranco continuava a rassicurare la famiglia: "Non vi preoccupate, ho un angelo custode accanto a me". E quando la tensione si faceva più alta: "Spero di non dover scaricare il fucile contro donne e bambini". Non l' ha fatto. Sono stati i somali a sparare contro di lui.
Le accuse a Loi. Ci sono colpe per quello che é accaduto a Mogadiscio? Responsabilità? Errori? La linea scelta dal contingente italiano, quella dell' intervento pacificatore anziché del ricorso alla forza, sembrava la migliore, almeno fino al momento dell' imboscata al Pasta. Eppure, nelle corsie del Celio, i soldati sopravvissuti alla battaglia, proprio mentre i tigì trasmettono le ultime battute della polemica tra l' Onu e i comandi italiani, sono ancora gonfi di rabbia per l' impotenza di quei momenti. Racconta il sottotente Olivero Bonetti, appena congedato: "Abbiamo aspettato ore che ci dessero l' ordine di sparare con l' artiglieria pesante. Era l' unico modo per salvarci. E invece continuavano a dirci che bisognava attendere disposizioni da Roma. Il generale Loi, via radio, pretendeva che gli dessimo le coordinate dei cecchini.
Volevamo fare la guerra pulita? Ecco cosa é successo". Il padre di Gianfranco scuote la testa: "Non possiamo attribuire la colpa a nessuno. Non é il momento di prendersela con il generale".
Il suo, adesso, é un dramma tutto privato. Una triste storia di famiglia, sulla quale grava inesorabile l' ipoteca del futuro. La fidanzata di Gianfranco Paglia, Giovanna Petrilli ha già annunciato: "Ci sposeremo al massimo tra un anno". Mentre al padre non resta che ripetere, stavolta con minore convinzione: "Spero che mio figlio non sia costretto a lasciare l' esercito. Era il suo sogno". Fatale, ma irrinunciabile per un eroe.

BOX
LE LETTERE A CASA DI GIANFRANCO "PARE UNA VACANZA" Ecco cosa scriveva l' ufficiale ai genitori.
Qui mi sembra di stare in vacanza. Vi sembrerà incredibile, ma è così. Ho subito acquistato gli stivaletti dei marines. Sono molto belli. Oggi ci siamo finalmente sistemati nelle rispettive tende.
Per il momento la situazione è tranquilla, non ci sono incidenti. Ma evitiamo di rilassarci. Soprattutto io. Mi conoscete, sono troppo preciso nel mio lavoro. Modesto, vero? Vi domanderete il mio primo impatto. Degrado, miseria, povertà. La guerra ha combinato un vero casino. Vi garantisco che tra vedere una città distrutta dalla guerra in tivù o toccare il tutto con mano è un' altra cosa".
"Non preoccupatevi: io sto bene. Posso garantirvi che questa è un' esperienza unica. Sono soddisfatto di come sto facendo il mio lavoro. La truppa mi stima molto e ha fiducia in me. In questo momento ciò è molto importante. Quando si è per strada con questi ragazzi, loro per primi debbono aver fiducia nel proprio comandante.
Soprattutto quando ci sparano addosso".
GLI INDENNIZZI AI SOLDATI FERITI SANGUE SENZA PREZZO Quanto riceverà il sottotenente Paglia? Mistero.
Duecentosettanta milioni di premio assicurativo, 80 milioni a carico della Difesa più una pensione mensile elargita dallo Stato: questo é quanto viene garantito ai parenti di Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro, i tre paracadutisti morti in Somalia durante gli scontri del 2 luglio scorso.
"Riservatissimi" rimangono invece gli indennizzi in caso d' invalidità permanente, come é successo al sottonente Gianfranco Paglia. Alla Difesa parlano di un' elergizione speciale, di una pensione d' invalidità e di "assistenza medica". Ma non si sa ancora se saranno risarcite, e in che misura, le spese che la famiglia dovrà affrontare per la riabilitazione del ragazzo, per i quale sarà necessario un ricovero all' estero in un centro specializzato.
"Tutto dipenderà dai risultati delle perizie", dicono al ministero della Difesa, senza però rivelare quali sono i termini della polizza contratta con la Vittoria assicurazioni di Milano. E' la stessa compagnia che ha già coperto i rischi per le missioni in Kurdistan, Iraq, Albania e Mozambico. Ma lì non ci sono stati morti né feriti.




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/07/93

Numero
2231

Pagina
13

Titolo
CIAO AMORE MIO, AD AGOSTO TI SPOSERO'...

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
SOMALIA i perché di una strage STEFANO PAOLICCHI: VITA E MORTE DI UN INCURSORE

Sommario
La casa nuova, la fidanzata che aspetta, le nozze fissate. Poi quel colpo attraverso il giubbotto antiproiettile. Così un parà ha smesso per sempre di sognare.

Didascalia
ME L' HANNO UCCISO
Sopra: Giuseppina Di Stefano, 24 anni, fidanzata di Stefano
Paolicchi (sotto), che ne aveva 30. Dovevano sposarsi a fine agosto.
Il sergente maggiore Paolicchi a 18 anni si era arruolato nei
paracadutisti. Incursore del Col Moschin, prima di andare in
Somalia, era stato in Libano e in Irak.
IL PIANTO DELLA MAMMA A fianco: due incursori con una fotografia del
commilitone morto. Sopra: la madre di Paolicchi, Vincenzina, e il
padre, Claudio. Sotto: Stefano e la fidanzata.

Testo
Venerdì 2 luglio. Le sette di sera. E' una veglia funebre quella che si consuma alla caserma Vannucci di Livorno, oltre il portone del 9° battaglione d' assalto Col Moschin. Senza lacrime, con l' angoscia che traspare però dai visi tirati degli ufficiali, dagli occhi incollati al televideo, dalla rincorsa di notizie e conferme al telefono. Uno di loro, Stefano Paolicchi, 30 anni, sottufficiale del battaglione più esposto in Somalia, il Col Moschin appunto, é morto a Mogadiscio nella battaglia del mattino. Una battaglia che ha fatto tra gli italiani altri due vittime e 22 feriti, spezzando, come ha detto il generale Bruno Loi "l' incantesimo": l' orgoglio del nostro contingente di poter passare indenne, grazie alla politica degli "italiani brava gente", tra i colpi di kalasnikov dei cecchini somali.
Stefano Paolicchi era un professionista della guerra come tutti quelli del Col Moschin, una squadra di sabotatori-incursori che a Mogadiscio è il punto di forza del contingente italiano: presente sempre, che si tratti di far scorta ai convogli umanitari, di rastrellare armi, di dar battaglia, di raccogliere i cadaveri da terra, come è successo dopo lo scontro del 5 giugno tra somali e pakistani.
Eppure, alla caserma Vannucci di Livorno, superiori e compagni non parlano di Paolicchi come soldato, delle sue qualità militari.
"Doveva sposarsi il 29 agosto", è la prima cosa che dicono. "Aveva già pronta la casa, i mobili dentro". Come se quelle parole potessero ridare un po' di vita al sergente maggiore, colpito a morte sotto l' ascella attraverso l' apertura del giubbotto antiproiettile.
Doveva sposarsi con una ragazza di Genova, Giusy Di Stefano, studentessa di medicina. E questa della Somalia, la terza dopo Libano e Kurdistan, sarebbe forse stata la sua ultima missione.
Aveva chiesto di passare a servizi sedentari per mettere su famiglia e ritrovare un po' di quiete nella casa appena comprata a Marina di Massa.
"Prima di partire non pensava ad altro", racconta Silvio Baglioni, un sergente che é stato con lui a Mogadiscio fino a un mese fa.
"Appena aveva un momento libero scappava via per completare gli ultimi dettagli, le aiuole da curare, i mobili da montare... E arrivato in Somalia finiva sempre col ripetere quant' é bello il Tirreno, com' é diverso dall' Oceano Indiano".
Due spinte contrapposte: questo desiderio di vita privata e la passione del mestiere. Perché al di là di un carattere tranquillo, di un profilo sempre basso (odiava finire al centro dell' attenzione), Stefano Paolicchi era un guerriero a tutti gli effetti. Figlio di un muratore di Pietrasanta, Stefano era entrato a 18 anni tra i paracadutisti della Folgore. Bassino di statura, ma forte e muscoloso, era stato in Libano con il 187° reggimento. Poi, la decisione di diventare incursore. "Aveva preso il diploma di perito tecnico per accedere alla carriera", ricorda Renato Daretti, sergente maggiore anche lui. "Perché il Col Moschin? Perché é un battaglione diverso dagli altri. Devi essere motivato per decidere di entrarci. E' impegno di vita, disponibilità totale".
Malato ai reni. Stefano Paolicchi sembrava aver tutto: motivazioni, disponibilità, impegno. Più quello spirito di corpo che oggi fa dire a un giovane sottufficiale, Giuliano Angiolucci: "Non fatemi parlare di lui. Noi del Col Moschin abbiamo un cordone ombelicale che ci lega l' un l' altro. Siamo gelosi delle nostre vite..." Incursore per vocazione, il sergente maggiore, nonostante un disturbo a un rene che lo perseguitava, aveva preso il brevetto di sci, di roccia, era direttore di lanci in caduta libera. Si era addestrato in Francia, negli Stati Uniti. Come si dice in gergo "aveva molte patacche sulla divisa".
Ingannati dai somali.E' morto a meno di due mesi delle nozze. "Ma é il nostro lavoro", dicono gli ufficiali. "Che potesse accadere qualcosa da un momento all' altro era nell' aria", aggiunge il sergente Alberto Davide, 22 anni, uno dei primi ad essere sfiorato a Mogadiscio, all' inizio della missione, dal fuoco dei cecchini. La battaglia del 5 giugno tra somali e pakistani, aveva rotto, già un mese fa, l' illusione di un ritorno alla normalità. Il comandante del Col Moschin, il colonnello Bertolini, rientrato da una settimana, il viso ancora cotto dal sole africano, spiega: "Dopo quella data abbiamo cominciato a sentire il pericolo. Un crescendo di azioni cruente verso l' Onu... Non pensavamo però a una ritorsione così pesante nei nostri confronti". I contatti con gli Abr-Ghedir, gli uomini di Aidid, avevano rassicurato i comandi del contingente italiano: "I capi somali sembravano contenti del nostro lavoro, anche se ci avevano avvertiti che non potevano controllare tutte le fazioni".
Una strage annunciata? In una palazzina a due piani di Marina di Massa, una donna impietrita sul divano scuote la testa ripetendo: "Non volevo che andasse, non volevo. Stavolta sentivo che sarebbe successo". E' la madre del sergente maggiore Paolicchi, Vincenzina Nicodemi, che consuma, circondata dai due figli, Nicoletta, 23 anni e Massimo, 33, la sua veglia, in attesa di una visita delle autorità. Lei non parla di ideali. Dice semplicemente: "Mio figlio é nato militare. Sin da bambino mi riempiva la casa di soldatini". Il padre di Stefano, un vecchio minuscolo, rugoso, che fuma una sigaretta dopo l' altra, ha un moto che non é nemmeno di rabbia, piuttosto di stupore: "Me l' hanno comunicato al telefono. La voce di non so chi. Si é presentato come "il generale". Suo figlio é morto, mi ha detto. Ha subito riattaccato".
Giusy, la fidanzata, è in via Querciole, in quella che doveva essere casa sua e di Stefano. Una villetta dipinta di giallo, tra altre case a schiera, aiuole fiorite, mobili che odorano ancora di vernice. Sta seduta in camera da letto, vestita di verde, sul piumone a fiori, i capelli biondi, raccolti da un nastro di raso nero, tra orsacchiotti di peluche, fotografie di Stefano e soprammobili. "L' hanno chiamato "rambo". Ma Stefano era una persona normalissima". L' aveva conosciuto sei anni fa in Piemonte, "Il 6 febbraio 1986". Era lì per un corso di sci, lei pure. Il resto é un mazzo di partecipazioni già stampate, decorate con motivi floreali, una stanza piena di brevetti e album di foto, dove Stefano compare con e senza divisa. "Qui guidava un elicottero Cobra. Il suo sogno.
Lì non lo conoscevo ancora, era in Libano". Un rambo? "Ma se si é fatto ammazzare..." Anche per lei il 2 luglio é stata la fine di un incantesimo.
LETTERA DI PAOLICCHI PRIMA DI MORIRE Mogadiscio, 23 marzo, martedì. "Ciao amore mio, (...) qui per ora va tutto bene, la situazione è tranquilla ed io piano piano mi sto ambientando anche a questo torrido clima tropicale. Ci pensi amore mio (...) siamo riusciti a comprarci una bellisima, anzi meravigliosa, stupenda casa, la quale mi manca moltissimo. Siamo riusciti con molti sforzi ad accumulare un po' di denaro e comprarci una gran parte dell' arredamento. Una cucina stupenda che offre ogni confort, una sala meravigliosa con un divano da incanto, una camera matrimoniale dove passeremo una vita insieme. (...) Sono molto felice perché so che la prossima grande mossa che faremo assieme è quella di unirci per sempre secondo il rito cristiano. Ti amo topolino (...) vedrai che in fondo anche questo periodo passerà velocemente e il tempo per il grande giorno sarà sempre più vicino e tu ne sarai molto contenta. Sicuramente tra qualche minuto dopo aver aperto tutte le imposte esterne andrai a bagnare i fiori in giardino e mentre lo farai sicuramente mi penserai , guarderai i tulipani che ormai staranno per sbocciare e mi penserai. (...) Ciao topolino, adesso ti saluto sul serio con un grande bacione. Smack, ti adoro".




Testata
Epoca

Data pubbl.
06/07/93

Numero
2230

Pagina
32

Titolo
LOI, UN GENERALE CONTRO TUTTI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CHI E' L' UOMO CHE COMANDA I NOSTRI SOLDATI IN SOMALIA

Sommario
Ama i vini francesi, canta arie d' opera "come un usignolo" e non si perde una messa neanche a Mogadiscio. Ritratto ufficioso dell' ufficiale che guida la missione più dura mai capitata all' esercito della Repubblica. E che adesso, non bastasse Aidid, deve vedersela pure con le prepotenze degli americani.

Didascalia
Il generale Bruno Loi, 52 anni, comandante della brigata Folgore
impegnata nel contingente Onu in Somalia. Nella pagina
a fianco: parà italiani di pattuglia.
Sopra: il generale Bruno Loi parla con una donna somala. I militari
della Folgore impegnati dal 3 maggio come caschi blu in Somalia sono
2 mila e 400. "Tutti bravissimi", dice il generale.
Sopra: il servizio fotografico pubblicato da Epoca che mostrava gli
"eccessi" dei parà italiani in Somalia. A destra: il ministro della
Difesa, Fabio Fabbri, che ha ordinato un' inchiesta sull' episodio
conclusasi con l' assoluzione dei militari.

Testo
Un ufficiale in vena di satira ha dedicato una serie di caricature al sempre impeccabile generale Bruno Loi: sciarpetta al collo e basco amaranto in testa sia che faccia jogging la mattina al porto vecchio di Mogadiscio seguito dai suoi che arrancano scompigliati, sia che esca dalla doccia, asciugamano ai fianchi, sbraitando perché manca l' acqua. Ma se anche qualche volta in Somalia gli capita di non mettersi il basco amaranto, Loi resta, giorno e notte, un parà della Folgore fino all' osso. Un ufficiale che dal 4 maggio comanda i 2.400 soldati del contingente italiano, armato di una fede forse un po' retorica, certamente ottimista. "L' umore di un paracadutista è sempre alto", è il suo motto preferito.
Lo ripete anche adesso che ha un compito di giorno in giorno più delicato, che a Mogadiscio infuriano, insieme ai monsoni, i veleni di una missione difficile, fatta di dissensi con i comandi Onu, di scontri con i marines, di disaccordi con gli altri contigenti, di pericoli continui. L' ottimismo del parà non si spezza. Però rischia di incrinarsi, tanto è messo a dura prova. Loi in questo momento non è solo il comandante della brigata Folgore, quello che a gennaio, presente al primo rastrellamento di armi sulla Linea verde, aveva dato prova di intransigenza sequestrando le telecamere ai giornalisti della Rai. E' anche l' uomo che deve difendere, oltre alla sicurezza dei suoi soldati, il ruolo stesso dell' Italia nel contingente multinazionale. E con esso, la nostra politica in Somalia.
Così, quando servono, al generale non mancano i toni duri. Li ha usati di recente contro i pakistani, contro gli americani, contro lo stesso Cevik Bir, comandante della missione Unosom 2, accusati di seguire una politica, quella delle armi e dell' azione di forza, che produce risentimento tra la popolazione e sfiducia verso l' Onu.
Uno che alla missione di pace ci crede davvero, il generale Bruno Loi? L' erede naturale di quel Franco Angioni, per la gente l' indimenticato eroe della spedizione in Libano? Qualche caratteristica in comune tra i due c' è: entrambi paracadutisti, hanno frequentato la scuola di guerra, sono tutti e due di origine sarda, dotati di bell' aspetto e di una buona dose di fascino. Si conoscono bene, inoltre. Loi, in un certo senso, è cresciuto alla scuola d' Angioni. Era allievo del Corso d' Ardimento a Torino, negli stessi anni, i Sessanta, in cui Angioni faceva da direttore.
Sono poi stati in Libano assieme. Angioni, comandante della missione italiana. Loi in testa al 5 battaglione della Folgore: cinque mesi a Beirut, senza screzi particolari, ben accetto al "grande capo".
Cinque fratelli militari. Ma i punti in comune probabilmente finiscono qui. Angioni, era forse più ambizioso, autoritario, sanguigno. Loi, 52 anni, nato e cresciuto in una famiglia di militari, sembra un gentleman inglese, estroverso in compagnia ma riservato, addirittura diffidente, con chi non conosce. Con i soldati non ama ostentare falsa democrazia. E' prontissimo però a difenderli, come è successo in occasione delle foto pubblicate da Epoca (vedi riquadro in questa pagina).
Mogadiscio probabilmente farà del generale Loi una celebrità. Eppure chi lo conosce dice che non ha mai avuto smanie di protagonismo.
Nato ad Avellino, il generale ha respirato sin dai primi anni di vita ideali e mentalità militaresca. Il padre, ufficiale dell' esercito, l' ha portato con sé a Pistoia quando aveva 7 anni. C' è rimasto fino alla maturità classica e all' entrata in Accademia.
Erano in nove in famiglia: sei figli maschi e una femmina. "Bruno ha sempre sostenuto di non essere stato influenzato dal padre", racconta la moglie, Raffaella, 48 anni, bassina di statura, scura di occhi e di capelli, l' aria di chi ha sempre vissuto senza eccessi.
"Ma certo che, di sei fratelli, cinque hanno fatto i militari di carriera. E anche adesso dei nostri tre figli due hanno già preso la divisa".
Si sono conosciuti a Torino, dove Bruno Loi frequentava il Corso d' Ardimento, mentre lei, figlia di un avvocato di origini siciliane, ben inserito nella buona società, studiava lingue.
"Eravamo a un ricevimento al circolo ufficiali. Io avevo 17 anni, Bruno 21. Era in divisa". Lo ha sposato quattro anni dopo, e seguito da un capo all' altro dell' Italia, "14 trasferimenti in tutto" fino all' ultimo, 8 anni fa a Livorno. Rigido educatore della prole, il generale è anche cattolico fervente, tanto da non perdere una sola messa domenicale. Persino a Mogadiscio.
Voce da usignolo. La signora Raffaella non ha mai lavorato. Ha preferito dedicarsi alla carriera del marito. Oggi, con la giornata scandita dai notiziari alla radio e alla tivù, si occupa, insieme alle mogli di altri ufficiali della Folgore, della raccolta di abiti, cibi e indumenti da spedire in Somalia. "Mio marito", dice, "credo abbia un solo hobby nella vita: la Folgore". Non è del tutto vero. Da ragazzo, per esempio, amava correre e ama farlo tuttora: anche a Mogadiscio si è organizzato per l' allenamento mattutino.
Poi c' è il canto. "Quando è in casa si sveglia la mattina intonando strofe militari".
Tiene banco il generale quando è a Livorno, alle feste e ai ricevimenti che si organizzano a volte a casa sua a volte al Circolo, passando dagli inni della Folgore alla lirica ("Ha una voce da usignolo", puntualizza un ufficiale). Buon degustatore di vini francesi, ama anche i classici, i libri di storia e la fotografia.
D' estate frequenta con la moglie lo stabilimento balneare della Folgore, a Tirrenia.
E la carriera? Com' è diventato il numero uno della Folgore, oltre che comandante di una missione delicata quale la somala? Il suo vice, il colonnello Luigi Cantone, spiega che è merito della scuola.
"Quella militare di Civitavecchia. E soprattutto L' Ecole de Guerre di Parigi". Nel 1978 Loi parte infatti alla volta della capitale francese, con famiglia a seguito. Un' esperienza che gli serve certamente nel 1983, quando viene destinato a Beirut. "Non era certo come la Somalia", dice la moglie, "là i rischi erano più contenuti, l' incarico diverso".
Beirut comunque premia. Quattro anni dopo, Bruno Loi riceve un incarico di grande prestigio, quello di addetto militare a Parigi.
Ribattezzato "Luà" dai francesi, subentra al generale Giampiero Rossi, lo stesso che è stato capo dell' Italfor in Somalia durante la prima fase dell' Unosom. Gli viene riconosciuta abilità a muoversi negli ambienti chic della capitale, oltre a una perfetta padronanza del francese. Parlicchia anche l' inglese, ma con difficoltà, tanto che a Mogadiscio si è portato dietro libri e cassette per non far brutta figura con gli americani.
Da Palermo a Mogadiscio. Nel 1991 Loi, divenuto generale, assume il comando della brigata Folgore. I parà vengono dall' esperienza in Kurdistan, ma quello che li aspetta sarà ancora più difficile: Palermo, con l' operazione Vespri siciliani. E' luglio dell' anno scorso. Falcone e Borsellino sono stati appena assassinati. Il generale Loi si trova a capo di una missione insolita per un militare: lotta alla mafia e controllo del territorio. Infuriano le polemiche. Lui tiene duro. Sembra un incarico spinoso. Ma Palermo, capitale dei veleni, è niente in confronto a quello che sarà Mogadiscio.
Un palcoscenico, certamente, la Somalia per il generale Loi. Con tutti i pro e i contro della ribalta. Con i fuochi di una guerra che sembra solo agli inizi. Con una missione, quella italiana, che non finisce di essere contrastata. Bocciata dall' Onu la richiesta di ottenere il comando dell' operazione, all' Italia non resta che aspirare al vice-comando. Ma i dissensi sono forti. L' ultimo attacco, il contingente di Loi l' ha ricevuto dall' Observer: "Gli italiani", scrive Peter Hillmore, inviato del quotidiano britannico a Mogadiscio, "sono i più odiati. I somali non dimenticano che sono stati colonizzatori, oltre che responsabili dell' anarchia attuale".
Loi è di tutt' altro avviso: "Nel mio giro ho ricevuto applausi dalla folla", ha dichiarato il 13 giugno, all' indomani della sanguinosa caccia al "signore della guerra" Aidid, organizzata dagli americani. Ha aggiunto: "Abbiamo fatto ogni tentativo per evitare lo scontro aperto con i somali. Ma, una volta presa la decisione, un buon soldato deve obbedire". Impeccabile.

BOX
DOPO LE FOTO - CHOC DI "EPOCA", I RISULTATI DELL' INCHIESTA DEL MINISTERO DELLA DIFESA INCAPPUCCIARE I BANDITI SOMALI? NO, NON E' UN CRIMINE "I nostri soldati non sono colpevoli: hanno seguito le norme Nato".
Per questo la commissione di indagine li ha assolti. Ma con un ammonimento.
Due banditi somali catturati dai nostri paracadutisti nella zona di Adan Jabal, poi legati a un palo e incappucciati, un sacchetto di plastica sul volto. Questo servizio fotografico, che Epoca ha pubblicato nel numero 2227, è stato seguito da una scia di polemiche ("E' davvero questo il modo di trattare i prigionieri, sia pure in un Paese pericoloso come la Somalia?"). E soprattutto ha spinto Fabio Fabbri, il ministro della Difesa, ad aprire un' inchiesta sul comportamento dei parà in quell' occasione. L' inchiesta, condotta dal generale Bruno Loi, si è conclusa la settimana scorsa. Ecco la ricostruzione dei fatti e le conclusioni cui è giunta la commissione, che doverosamente pubblichiamo.
Com' è andata. "Il giorno 17 aprile", è scritto nella relazione, "un reparto di paracadutisti della Folgore, dopo un rastrellamento nei pressi dell' abitato di El Dere, ha catturato due somali che, con altri complici, avevano costituito un posto di blocco per estorcere beni di proprietà di autisti e passanti. Al sopraggiungere dei nostri militari, i somali hanno aperto il fuoco ma sono stati catturati, legati e bendati con mezzi di fortuna. A sera il personale italiano è stato fatto segno a colpi di arma da fuoco da parte di fiancheggiatori degli arrestati. Al rientro nella base di Bulo Burti, dopo altri 4 giorni di attività operativa-umanitaria, i prigionieri sono stati consegnati alla polizia somala".
L' analisi della commissione d' inchiesta. "Il reparto", è scritto ancora nella relazione, "è intervenuto su richiesta degli indigeni, vittime di minacce e estorsioni. Gli individui sono stati catturati in flagranza di reato e dopo aver aperto il fuoco contro le forze italiane. Sono stati legati e bendati: per impedire loro di portare offesa al personale italiano, per impedirne la fuga, in mancanza di infrastrutture idonee alla detenzione, e per evitare che venissero a conoscenza della sistemazione difensiva del reparto in operazioni".
Il giudizio. Ed ecco le conclusioni della commissione: "L' evento deve essere valutato nella situazione critica e rischiosa in cui si opera in Somalia. I provvedimenti adottati per la custodia in stato di arresto dei malviventi trovano riferimento e sostanza in manuali addestrativi e in procedure standard permanenti sia Nato sia dei Paesi del Nord Europa per missioni Onu. Tuttavia i provvedimenti presi, pur rientrando nella casistica prevista, eccedono nelle modalità esecutive. L' autorizzazione concessa al fotoreporter civile di effettuare il servizio dimostra, per contro, l' assenza di dolo. Non vengono ravvisate nel comportamento dei militari responsabilità penali".
I nostri lettori. Dopo la pubblicazione del servizio fotografico, molti ci hanno scritto difendendo l' operato dei nostri paracadutisti in Somalia e affermando che Epoca aveva dato risalto troppo negativo a un' operazione tutto sommato normale in zona di guerra. A loro (tra gli altri Luca Combattelli di Roma, Giorgio Calabrò di Sestri Levante, Paolo Pastorino di Torino, Carlo Porasso di Torino, e Carla Cossu, ispettrice nazionale della Croce Rossa), ringraziandoli per l' attenzione con cui ci seguono, rispondiamo che il nostro giornale, tra i pochi nel panorama italiano, ha sempre seguito con grande attenzione le missioni, certamente non facili e troppo spesso dimenticate, dei nostri militari in Somalia, Mozambico, Albania, Cambogia. Ha dedicato interi inserti alle le loro difficoltà, alla generosità e ai risultati del loro impegno. Ma proprio per questo doveva dar conto di un episodio in cui, come conferma la commissione di inchiesta, certamente i soldati italiani hanno ecceduto.




Testata
Epoca

Data pubbl.
15/06/93

Numero
2227

Pagina
130

Titolo
CHE COSA LI HA SPINTI LAGGIU'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
GLI ITALIANI UCCISI IN BOSNIA LA VERA STORIA DEI TRE VOLONTARI MASSACRATI DAI MITRA DEI MILIZIANI

Sommario
Uno si chiamava Fabio, girava in Ferrari e amava le donne. Un altro era Sergio, aveva solo 20 anni e odiava le pistole. Il terzo, Guido, veniva dall' Argentina e leggeva Trotzky. Erano così diversi che di più non si può. Ma assieme sono andati a morire in Iugoslavia. Perché?

Didascalia
I DUE SUPERSTITI
E' il 2 giugno, siamo all' aeroporto militare di Ghedi. Un Falcon 50
dell' aeronautica ha appena sbarcato i due scampati all' eccidio del
29 maggio a Gorni Vakuf. A sinistra: Agostino Zanotti, 34 anni,
tecnico di computer di Roncadelle (Brescia), tiene in braccio la
figlia Laura, 3 anni. A destra: Cristian Penocchio, 26 anni,
fotografo del quotidiano "BresciaOggi". Erano in Bosnia per portare
in Italia 60 profughi.
LORO NON CE L' HANNO FATTA A TORNARE
IL GIORNALISTA Guido Puletti, 40 anni, giornalista, dirigente di
Rifondazione a Brescia.
Il MECCANICO Sergio Lana, 20 anni, Gussago (Brescia). Lavorava in
officina col padre.
L' IMPRENDITORE
Fabio Moreni, 39 anni, imprenditore edile di Cremona.
FINALMENTE A CASA Da sinistra: Agostino Zanotti, la moglie
Mariangela e la figlia Laura, e Cristian e Elena Penocchio
all' aeroporto di Ghedi.
FELICE DI PARTIRE Sergio Lana con la madre Franca: "Non posso
credere che è morto. Era così felice di partire".
VIAGGIAVANO COSI' Il furgone con cui di solito i volontari
bresciani raggiungevano la Bosnia. Ma stavolta si era rotto.
FEDE E DOLORE Augusto e Franca Lana. Dicono del figlio: "L' ha
chiamato la Madonna".
L' ULTIMA TELEFONATA
TRE MESI FA ERANO GIA' STATI LI'
LO SCAMPATO Agostino Zanotti, in una foto del febbraio scorso, a
Zavidovici, in Bosnia.
LA VITTIMA Fabio Moreni, l' imprenditore cattolico ucciso: ogni 10
giorni andava in Iugoslavia.
IL PAESE FATALE Proprio qui si dirigeva il gruppo di 5 italiani
assalito dai bosniaci.
Sergio Lana mentre chiama casa dall' ex
Iugoslavia. Sarà ucciso a colpi di mitra il 29 maggio.

Testo
Fabio Moreni, Ferrari Testarossa e un' azienda a Cremona con venti dipendenti, amava l' avventura. Era generoso, estroverso, aveva un carattere carismatico. Guido Puletti era curioso per mestiere. Aveva girato il mondo come giornalista free-lance, sorretto da un credo politico che si portava dietro dagli anni in cui era stato desaparecido in Argentina. Sergio Lana era un ragazzo di provincia che aiutava il padre in officina, cresciuto in una famiglia dove la fede religosa si è sempre tradotta in pratica di carità. Non si potrebbero immaginare tre storie più lontane. Tre destini così diversi. Eppure sono morti assieme, ammazzati in Bosnia il 29 maggio da una banda di irregolari, mentre tentavano di far arrivare un carico di aiuti umanitari alla popolazione di Zavidovici. Erano accomunati dalla stessa passione che, negli ultimi mesi, aveva trasformato l' imprenditore, il giornalista e il giovane meccanico in pellegrini della solidarietà.
Altri due volontari che erano con loro, Cristian Penocchio, un fotografo di Brescia, e Agostino Zanotti, perito elettronico di Roncadelle, si sono salvati per caso, nascondendosi nella boscaglia.
Hanno raccontato gli ultimi istanti dei loro compagni, sulla strada di Gorni Vakuf, davanti ai kalashnikov con il colpo in canna: "Fabio e Sergio pregavano. Guido cercava di tenerci calmi". Poi gli spari e i loro tre corpi per terra.
NON CHIAMATELI EROI Sbagliato dipingerli come eroi, martiri oppure pionieri. Fabio Moreni, Guido Puletti, Sergio Lana percorrevano da mesi le strade della ex Iugoslavia con camion, jeep, convogli umanitari ai quali partecipavano decine, centinaia di altre persone.
Perché a Brescia, lo si scopre adesso, da quando è scoppiata la guerra in Bosnia è stato proprio così: un passaparola contagioso, un tam tam di voci, di offerte. Una febbre, quella della solidarietà, che si è diffusa per valli e campagne, paesini di provincia e sobborghi industriali coinvolgendo, si stima, oltre mille persone. Il popolo delle parrocchie da una parte, sotto bandiera della Caritas diocesana. Dall' altra organizzazioni, cooperative, gruppi della sinistra che in questa occasione si erano uniti ai cattolici per un nuovo progetto: una spedizione che sarebbe dovuta arrivare a Zavidovici per portare in Italia una sessantina di donne e bambini. Un tessuto di relazioni, di rapporti dai quali bisogna partire per capire il motivo di queste morti apparentemente assurde, per dare una spiegazione al sacrificio.
Di errori ne sono stati fatti. Ci si chiede per esempio perché non era stato avvertito l' Unprofor, il comando delle forze Onu. Si polemizza sul volontariato mandato allo sbaraglio. Eppure è proprio il padre di una delle vittime, Augusto Lana, a ripetere che non bisogna fermare i convogli: "Anche se mio figlio è morto, scrivetelo: gli aiuti alla ex Iugoslavia devono continuare". Fa impressione vedere, nella bianca ex cascina dove abitano i Lana, tra i tornanti della strada di Civine, pochi chilometri da Gussago, quest' uomo dal fisico ossuto, dai capelli grigi ma il volto ancora giovane, raccogliere le forze non per maledire la sorte, ma per promettere che in Iugoslavia ci andrà anche lui. Partirà con la moglie, Franca, che l' aveva già deciso prima della tragica spedizione del 24 maggio.
SERGIO: L' OPERAIO PACIFISTA L' affiatamento di questa coppia dà l' idea di quello che doveva essere l' entusiasmo di Sergio ogni volta che partecipava alle spedizioni. "Giubbotto antiproiettile? Macché", dice Augusto Lana. "Mio figlio si metteva al collo una corona del rosario". Sergio era credente, anche se partecipava poco ai gruppi di preghiera di cui fanno parte i genitori, nella chiesa di Sant' Antonio, periferia di Brescia. Quando andava in parrocchia lo faceva alla guida di un Ford Transit, per trasportare viveri e indumenti nel centro di raccolta a favore della ex Iugoslavia.
Un quintale di ragazzo, Sergio, alto e grosso. Bravo abbastanza per guidare un camion. Forte per scaricare pacchi e pacchi di viveri.
"Era lui che mi ha fatto da navigatore durante una delle spedizioni a Mostar", racconta un ex impiegato al centro meccanografico di Brescia. "Io avevo portato la pistola con me. Cercavo di fargli capire che si può anche sparare se si tratta di legittima difesa. Ma lui di armi non voleva saperne". Era pacifista: aveva infatti chiesto di fare il servizio militare da obiettore di coscienza. In attesa della chiamata aiutava il padre in officina. "Ma dopo", racconta Augusto Lana, "avrebbe voluto fare il mestiere che gli hanno insegnato all' Itis di Brescia: l' elettricista".
Di quello che facevano gli amici, delle feste, delle discoteche si curava poco. Al massimo giocava a pallavolo. Ragazze? Nessuna davvero importante. La sua passione erano le spedizioni. Era stato uno dei primi a partire, a Natale, insieme al padre, convinto da un altro volontario, un vicepreside della Valcamonica. "No, non erano spedizioni che finivano sui giornali", dice oggi Augusto Lana, "ma grandi fatiche sì. Venti ore sui camion e poi dormivamo all' addiaccio, o al massimo ci facevamo ospitare dalle suore".
Non finivano sui giornali i volontari di Brescia. Ma crescevano di numero giorno dopo giorno. In pochi mesi la roba raccolta nella chiesa di Sant' Antonio era diventata talmente tanta che un imprenditore di Ghedi, Giancarlo Rovati, aveva aperto un capannone di 1.500 metri quadrati per stipare cibo e vestiti. Rovati, anche lui nelle file dei pellegrini di guerra, è un uomo piccolo di statura, mingherlino, ma ha subito mostrato le doti giuste per organizzare decine di convogli: "Da ottobre a oggi ", dice, "siamo riusciti a distribuire almeno 4 mila quintali di viveri e 2 mila metri cubi di indumenti, tanti da vestire almeno 200 mila persone".
Ogni convoglio ha trasportato dai 600 ai mille quintali di roba, con camion e jeep collegati dalle radio Cb. Un unico coro, salmi e rosari, accompagnava i pellegrini nel loro viaggio verso le incognite della guerra.
FABIO: DONGIOVANNI CONVERTITO Oltre ad Augusto e Sergio Lana, in testa ai convogli c' era sempre Fabio Moreni, 39 anni, l' imprenditore di Cremona. Perché un giovane "viveur" di provincia, brillante, estroverso, poliglotta (parlava sette lingue), appassionato di moto e aeroplani (possedeva un ultraleggero), dedicasse quasi tutti i fine settimana a portare viveri in Bosnia è un mistero anche per chi lo conosceva. "Ci chiedevamo tutti come potesse conciliare la vita che aveva fatto in passato con le spedizioni umanitarie", racconta Eliana Vinciguerra, una bresciana che si era aggregata a una missione, convinta da un appello trasmesso da una radio locale. "Fabio era affascinante, una forza della natura". Affascinante e misterioso. Lo scapolo d' oro di Cremona, quello che agli amici ripeteva sempre "non mi sposo perché per sposarsi bisogna essere fedeli e io non lo sono", tra le rovine di Mostar ha pronunciato parole ben diverse: "Attraverso il dolore si cresce. E' la sofferenza che fortifica l' uomo". Figlio unico, villa liberty sul Po, un' azienda di famiglia che si occupa di escavazione di sabbia (ereditata dal padre, morto 15 anni fa), Ferrari Testarossa in garage... Che cosa è stato a metterlo in crisi ? Il direttore della Caritas di Cremona, Attilio Arcagni, parla di una "conversione" avvenuta lo scorso autunno: "Ha incontrato in autostrada un camion della Caritas che tornava vuoto dalla Bosnia.
Si è messo a chiacchierare con il guidatore. Ha subito deciso". A Natale era già al volante di un camion "bilico" preso in azienda, con addosso un giubbotto antiproiettile fatto in casa: una maglietta con pezzi di lamiera cuciti alla meno peggio.
Il suo entusiamo era contagioso. Persino uno dei suoi dipendenti, Leonardo Cerutti, un camionista con fisico da marcantonio e sguardo da duro, a Pasqua ha voluto seguirlo fino a Medjugorje, portandosi dietro la moglie. Adesso piange, all' aeroporto di Ghedi, aspettando la salma del padrone.
GUIDO: COMUNISTA DESAPARECIDO Piangono anche quelli di Rifondazione comunista per la terza vittima della spedizione di Zavidovici, il quarantenne Guido Puletti, giornalista free-lance, compagno trotzkista, arrivato 15 anni fa dall' Argentina con un braccio semiparalizzato dalle torture. "No, lui con i cattolici non c' entra nulla", dice Flavio Guidi, uno dei dirigenti. "E' partito da volontario, ma con altro spirito". Spirito da rivoluzionario, da ex militante. Esile di fisico, ma con una vigorosissima stretta di mano, sempre in eskimo, scarpe da tennis e bicicletta, Puletti da anni girava il mondo tenendo contatti soprattutto con i Paesi dell' Est. Di quello che gli era successo in Sud America tutti sapevano, ma lui ne parlava poco: "Mi raccontò che l' esercito argentino l' aveva messo sotto sequestro per due mesi, che era stato torturato, che poi era stato liberato grazie alle pressioni della madre, legata agli ambienti cattolici". Era arrivato in Italia che parlava solo spagnolo, con la moglie e i due figli, tornati in Argentina dopo qualche anno. L' avevano seguito i genitori, le tre sorelle e il fratello. "A Brescia si era subito messo a lavorare con noi per il boicottaggio dei mondiali di calcio del 1978. Giocava l' Italia contro l' Argentina dei generali". L' anno dopo Puletti era in Francia, nel comitato per la costituzione della IV Internazionale. Poi di nuovo in Italia per le campagne pacifiste.
Erano gli anni dei sit in a Comiso: Puletti collaborava già con i giornali. Viveva con Cinzia Garolla, impiegata dell' Inps. Militante anche lei. Viaggiava, partecipava alle manifestazioni politiche.
"Con gli slogan era un disastro", ricorda ancora Flavio Guidi, "incapace di ritmare o di cantare". Ultimo impegno: i contatti con "Il seme e il frutto", una cooperativa specializzata in "educazione alimentare", che appoggia il progetto per i profughi di Zavidovici.
Ultimo ricordo di lui, quello della sorella Eliana: "Giovedì sera per il compleanno di nostro padre. Nessuno di noi sapeva che il giorno dopo sarebbe partito. Non voleva farci preoccupare".
Un percorso diverso, quello per Zavidovici, molto più pericoloso del solito, di Mostar e Medjugorje, battuto dalla Caritas. Eppure né Guido né gli altri avevano paura. Fabio Moreno e Agostino Zanotti, il perito elettronico sopravvissuto alla strage, erano già andati a febbraio per prendere contatti con il sindaco della città, Muhic Halid. "Si era fatto un gemellaggio tra Brescia e Zavidovici", dice Walter Saresini, uno degli animatori del progetto. "Sia le autorità musulmane che quelle croate avevano garantito i lasciapassare per i profughi". A Brescia tutti si preparavano all' accoglienza: famiglie, strutture pubbliche, parrocchie.
L' unico a parlare dei rischi era stato Padre Leonard, capo della Caritas di Zagabria. Ma nessuno l' ha ascoltato. I profughi "dovevano" comunque arrivare in Italia. Dovevano e dovranno.
L' esercito dei volontari l' ha già detto: "Partiremo di nuovo".




Testata
Epoca

Data pubbl.
08/06/93

Numero
2226

Pagina
66

Titolo
LA RADIO CHE HA PRESO MOGADISCIO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Occhiello
COME L' EMITTENTE DEI NOSTRI SOLDATI IN SOMALIA HA CONQUISTATO LA POPOLAZIONE. E HA BATTUTO GLI AMERICANI

Sommario
All' inizio doveva trasmettere solo un po' di musica per i parà italiani. Ma appena i somali l' hanno scoperta è diventata l' unica voce credibile di quel Paese massacrato. Ecco la storia e gli inventori di Radio Ibis, e i successi che hanno ingelosito i propagandisti Usa. Terrorizzati da un' arma segreta di nome Gianni Morandi.

Didascalia
Mogadiscio: lo studio di radio Ibis, l' emittente del nostro corpo
di spedizione in Somalia. Nella foto: il maresciallo Pietro
Menegazzo (pseudonimo: Peter Pan) con Aden Farah Afei, un
collaboratore somalo.

Testo
Al vecchio saluto somalo i militari erano abituati: "Italiano,tangenti". Quando d' improvviso per le strade di Mogadiscio l' adagio è cambiato in "Italiano, fatti mandare dalla mamma", i soldati sono rimasti interdetti. Lì per lì non hanno capito e hanno risposto per le rime: "Somalo, fatte mandare da tu' sòreta..." Solo dopo hanno collegato: "Ma certo, Gianni Morandi".
Una delle canzoni che trasmette Radio Ibis, la radio del contingente italiano in Somalia.
Miracolo dei megahertz, per l' esattezza dei 98 in Fm. La radio infatti, nata a febbraio per tener su il morale delle truppe, non solo è diventata popolarissima tra i somali, ma ha finito per far un' ottima propaganda all' Italia, fino a mettere in ombra le "psychological operations" dei marines americani. Questione di formula. Quelli con la loro emittente, Radio Rajo, (Radio Speranza), hanno trasmesso per mesi noiosissimi versetti del Corano e martellanti inviti a consegnare le armi. Con il risultato che i somali a sintonizzarsi non ci pensavano neanche. I nostri, invece, deliziano l' audience con un centinaio di compact disc portati dall' Italia e soprattutto diramano, con l' aiuto di interpreti locali, utilissime informazioni di servizio. La sera, in particolare. In un Paese dove la guerra ha fatto scempio di ogni mezzo di comunicazione, Radio Ibis apre le trasmissioni con l' annuncio dei punti di raccolta per le vaccinazioni e la distribuzione del cibo. Chiude alla grande con una sorta di Chi l' ha visto?, che raccoglie gli appelli dei profughi all' estero ai parenti dispersi in Somalia.
Dice il tenente colonnello Antonino Torre, 52 anni, "gli americani pretendono di fare sul serio. Noi no. Questa povera gente ha già tante disgrazie: ci manca solo che gli si propini il Corano". Il colonnello, ex addetto stampa del contingente, ha partorito a gennaio l' idea della radio, con spirito pragmatico e obiettivo minimo: "Un po' di musica per i nostri. I mangianastri consumano troppe pile...".
Qui Indiana Jones. Ai primi di febbraio la radio funzionava già: un apparecchio da 300 watt, spedito da Roma e montato in cucina, nella sede del comando Italfor. Parte il jingle, musichetta di Indiana Jones, e giù caterve di dediche, auguri e sfottò firmati dai soldati. Ai microfoni, 4 militari dell' XI reggimento trasmissioni di Civitavecchia: il maggiore Luigi Marino, il tenente Paolo Morelli, i marescialli Domenico Luordo e Pietro Menegazzo. "La mattina", spiega Morelli, "vanno i compact in automatico. All' una e mezzo c' è il Gr1, poi i notiziari sulle nostre attività in Somalia. Infine i programmi per i somali e le telefonate in diretta". Musica? Sting, Bob Dylan, Beach Boys, ma meglio ancora gli Italian Graffiti per i quali i somali vanno pazzi. "Morandi, Celentano... Per loro sono ricordi di un passato felice", dice il tenente-dj.
Con gli americani è stata subito guerra. I comandi Usa, che ad occuparsi di Radio Rajo avevano spedito a Mogadiscio 48 persone specializzate in "psychological operations", non apprezzavano questa prova di intraprendenza a buon mercato. "All' inizio ci ordinarono di chiudere", dice Morelli, "con la scusa che l' esclusiva sulla "guerra psicologica" all' interno del contingente multinazionale era loro". Alla fine però Radio Ibis conquista anche i marines e così si arriva a un compromesso: la radio viene ospitata nei locali dell' ambasciata americana. Gli italiani, in cambio, si beccano una cassetta di 45 minuti da mandare in onda ogni giorno. Il loro trionfo diventa però definitivo quando il generale Robert Johnston in persona chiede ai nostri di fornirgli una registrazione made in Italy per ritmare il jogging mattutino, suo e delle truppe.
Il "colonnello Raffai". Per Mogadiscio, nel frattempo, i somali tirano fuori radio di ogni dimensione. Il colonnello Torre, portavoce ormai ufficiale delle richieste radiofoniche somale, è assediato come una star. "Con la storia di Chi l' ha visto, sembravo la Raffai". Tanto più che qualche caso di ritrovamento di persone c' è effettivamente stato: "Una somala ci ha scritto dall' Austria chiedendo del figlio rimasto a Mogadiscio. L' abbiamo ripescato".
Persino i "Signori della guerra", Aidid e Mahdi, dopo un primo momento di sbigottito sospetto, hanno acclamato l' inziativa. Il 12 febbraio, sul Beeldeeq, il ciclostilato di Aidid, viene pubblicato, con tanto di foto, un articolo sul colonnello. Ma i riconoscimenti arrivano anche dalla stampa internazionale. Si pronuncia niente meno che il britannico Economist.
Tanto successo durerà ancora? "Sicuro", risponde il maresciallo Luordo, meglio conosciuto come dj "Mimmo", 45 anni, di Battipaglia e sciorina con orgoglio i programmi del nuovo palinsesto, arricchito di festival dal vivo per militari canzonettisticamente dotati. Unico problema: "Questi somali vogliono fare i furbi". Cioè? "Dobbiamo stare attenti a ciò che dicono nella loro lingua, quando vengono a tradurre i comunicati". Propaganda di fazione? "Signorsì", si lascia scappare il maresciallo. Psycological operations anche per loro.




Testata
Epoca

Data pubbl.
03/02/93

Numero
2208

Pagina
8

Titolo
CON I NOSTRI IN SOMALIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI GIORGIO LOTTI

Sezione
STORIE

Sommario
Chiamano casa con il telefono satellitare. Mangiano pane fatto all' italiana. La sera girano in accappatoio bianco. Poi, improvvisamente... "Epoca" ha vissuto con loro giorno e notte: tra scontri con i somali e rivalità con i marines, cronaca di una tranquilla settimana di paura. "All' inizio sparavamo anche noi all' impazzata. Eravamo tesissimi. Adesso no, abbiamo imparato a risparmiare i colpi" "Ricordate ragazzi: decisi ma educati. Non siamo padroni né cow-boy" "Dei nostri viveri non sanno che farsene. Soia, granturco, farina? Macché, li coltivano già loro. Chiedono carne e abiti occidentali" "C' è la gente normale che vive banalmente. E poi ci siamo noi della Folgore" "A casa sono preoccupati per quello che leggono sui giornali. Ma, in fondo, qui si sta piuttosto bene"

Didascalia
Soldati italiani nel campo
di Gialalassi che ospita 500 parà della Folgore.
In tutto, i militari arrivati dall' Italia sono 2.500.
Centro di Mogadiscio: le jeep
dei militari italiani rastrellano ogni giorno la città
in cerca di armi.
Sopra: mitragliere della 46esima Aerobrigata. In alto, a destra:
carabiniere del battaglione Tuscania e (sotto) cure mediche
a un soldato italiano. A fianco: dopo un sequestro di armi.
Nell' altra pagina, in alto: sala comando del Col Moschin. In basso:
campo di Balaad, si preparano sacchi di terra per proteggere le
postazioni.
Aeroporto di Mogadiscio:
i soldati italiani presidiano le piste con il contingente
multinazionale Restore Hope. Da dicembre a oggi sono arrivati
dall' Italia 40 aerei C 130 e cinque B 707 per il trasporto truppe.
Sul posto l' aeronautica militare ha inviato anche due elicotteri da
soccorso HH-3F. L' aeroporto è una delle nostre quattro basi nella
capitale: il comando generale è allestito nella zona controllata dai
marines americani.
Sopra: si prepara il pane all' ex ambasciata italiana di Mogadiscio.
A fianco: riposo dopo un turno di pattuglia.
Nell' altra pagina, in alto: la tavola degli ufficiali a Gialalassi,
in mezzo al deserto. Sotto: prima della doccia nel padiglione che
ospita i parà del battaglione Col Moschin.
Il ministro della Difesa Salvo Andò, responsabile della missione
italiana, durante il suo viaggio in Somalia l' 8 gennaio. Ai soldati
ha promesso: "Resterete qui non più di tre mesi". Secondo gli
osservatori internazionali, le basi militari visitate da Andò sono
ben organizzate. Il livello di efficienza è pari a quello delle
altre forze.

Testo
A bordo dell' incrociatore Vittorio Veneto, il maggiore Antonio Talerico guarda da lontano la costa. E' arrivato da quasi un mese in Somalia, ma non ha mai messo piede a terra. Né mai probabilmente lo metterà. "Mi piacerebbe fare un giro", sospira, "almeno uno, per vedere cosa c' è di là". Ma i suoi compiti non lo prevedono. Mentre le navi della Marina pattugliano la costa, ci sono 2.500 soldati italiani che invece a terra ci stanno. Eccome. Devono difendersi dall' assalto delle bande, ma anche rastrellare case e quartieri in cerca di armi. Lo fanno da un mese, da quando hanno cominciato gli americani. Lo faranno ancora, almeno fino a marzo, quando dovrebbero subentrare i Caschi blu, le forze di pace dell' Onu.
C' è eccitazione fra i 300 marò del battaglione San Marco, accampati al porto vecchio di Mogadiscio, e i 1.220 paracadutisti della Folgore divisi tra la capitale e i due campi di Balaad e Gialalassi.
"Andiamo avanti ad adrenalina", spiega Alessio Milazzi, 19 anni, di Bergamo, di stanza a Mogadiscio, nel campo della Folgore all' interno dell' ex ambasciata italiana. "Da due giorni per esempio giriamo nel quartiere di Bermuda. Lo chiamano così perché ci sparisce la gente. Persino i marines americani in pattuglia con noi hanno paura a entrare". Che i somali non abbiano riservato agli italiani un' accoglienza amichevole non è una novità. Memori dell' appoggio dato dai nostri precedenti governi all' ex dittatore Siad Barre, non esitano a esprimere la loro ostilità a colpi di kalashnikov. "Così all' inizio", racconta un altro, "sparavamo pure noi all' impazzata. Eravamo tesissimi. Adesso no. Abbiamo imparato a misurare i colpi".
La città, da quando ci sono i soldati, sembra aver ripreso vita, con i suoi vicoli sventrati adesso pieni di bancarelle, la circonvallazione animata di gente, le carovane di dromedari che l' attraversano indisturbati. "Ma non possiamo rilassarci mai", dice Roberto, carabiniere paracadutista del battaglione Tuscania, "può succedere qualsiasi cosa in qualunque momento".
Giubbotti antischegge Vanno sempre in giro i militari con almeno due jeep, le mitragliette Browning puntate sulla strada, il giubbotto antischegge addosso. Quelli antiproiettile, più sicuri, non bastano per tutti. Sanno poco di bande e fazioni. Vengono però avvertiti se un' area è ad alto rischio. Tengono il caricatore pieno, ma hanno ordini di non attaccare. "Se i somali però si avvicinano troppo, allora dobbiamo fare i bastardi. Spariamo in aria per fermarli in tempo", spiega Ismail Favaro, 19 anni, occhi neri e vispi, veneziano, con questo strano nome musulmano messogli dal nonno. Nome che qui gli torna estremamente utile, tanto che i somali lo prendono a simpatia e lo chiamano "amico".
Nelle tende verdi piantate al centro del giardino che circonda l' ex ambasciata italiana, dove dormono anche sei soldati alla volta, la sveglia suona all' alba. Una doccia, non più di cinque minuti, per non sprecare l' acqua che arriva in cisterne dall' Italia. E poi subito fucile ad armacollo. Il vicecomandante del contingente, il colonnello Luigi Cantone, un quarantottenne dai modi schietti, statura media e accento di Benevento, si sciacqua il viso con l' acqua di un bidone. "L' ambasciata... Guardate un po' qui come l' hanno ridotta. Adesso, anzi, l' abbiamo rimessa in piedi. Ma quando siamo arrivati era un vero merdaio, invasa dai profughi, dagli sfollati, distrutta e saccheggiata in ogni angolo".
Tartarughe enormi Riconquistata il 16 dicembre, l' ambasciata è formata da una palazzina bianca, chiamata la "Cancelleria", perché un tempo ospitava i vecchi uffici, che fa oggi da quartier generale degli ufficiali. Non ci sono porte né finestre. Persino la balconata è stata fatta a pezzi. Sui muri, sono disegnati fucili e carri armati, grossi falli e donne in pose oscene. Più in basso c' è un padiglione con la facciata ad archi, dove dormono i militari del Col Moschin, IX battaglione della Folgore. Una volta era la residenza dell' ambasciatore, oggi uno scheletro in muratura con i sacchi di farina per difendere le entrate da eventuali attacchi. Le tende dei soldati sono state piantate tra le due costruzioni, in mezzo agli alberi, dove si acquattano due enormi tartarughe. La "riconquista" dell' ambasciata pare sia avvenuta a suon di ceffoni, ma gli ufficiali della Folgore tagliano corto: "Non è stato sparato neanche un colpo".
Alle otto il cancello si spalanca. Si parte per un rastrellamento in uno dei quartieri nord della città. Vanno avanti i blindati. Seguono le jeep con i parà del Col Moschin. Una squadra di ottanta incursori, esperti nelle migliori tecniche di combattimento. Gli eredi del X Arditi della Prima guerra mondiale. I "duri", insomma, dell' esercito italiano. Teste rasate e braccia coperte da tatuaggi, indossano il giubbotto antiproiettile al posto di quello antischegge. Hanno fucili e coltelli. Nelle tasche sul petto, le "flash-bang", bombe innocue capaci di scatenare un rumore d' inferno.
Arrivano i rinforzi dal battaglione San Marco con i marò, altro corpo speciale della Marina, rivali da sempre dei paracadutisti.
"Che palle", sbuffano, "ci sono anche loro". In pochi minuti il quartiere è sotto controllo. La gente barricata. Gli incursori del Col Moschin fanno saltare le porte con gli esplosivi. Cercano le armi somale, i kalashnikov nascosti sotto il letto, bazooka e proiettili, bombe a mano e granate. Rombano in cielo i Mangusta, gli elicotteri dell' esercito con il loro carico di missili.
Grazie italiani, grazie Gli abitanti li guardano senza fiatare.
Qualcuno consegna spontameamente le chiavi, mentre una bambina strepita nascosta dietro le gonna della madre. I soldati finiscono per sbaglio anche in casa della moglie di Alì Mahdi. La signora, una donna imponente ed elegante, li accoglie con cortesia e li accompagna alla porta. Alla fine un somalo dice: "Grazie italiani, grazie".
Il rientro all' ambasciata è una festa: "Anche oggi il nostro pane ce lo siamo guadagnati", commenta Giuliano Angiolucci, 24 anni, togliendosi di dosso gli otto chili del giubbotto antiproiettile. Il comandante del reparto, Marco Bertolini, 40 anni, collo lungo, testa rasata e fisico da superman, si complimenta in accento emiliano: "Sono contento di voi. Ma ricordate per le prossime volte: decisi ed educati. Non siamo padroni e nemmeno cow boy".
Alla "Tana del lupo", eloquente definizione data al padiglione dove i duri del Col Moschin hanno il privilegio di alloggiare, si brinda ad acqua in mancanza di altro. I muri, sono stati affrescati a colpi di spray con gli slogan del battaglione: "Hic manebimus optime".
Oppure: "Torneremo", sottinteso "da ogni missione". Accanto alle brandine, ossa di cammello trovate lungo la strada che porta a Gialalassi e i nomi in codice degli ufficiali: "Condor", "Cobra", "Viper". Nomi che indicano una filosofia di vita: "C' è la gente normale, quella che vive accontentandosi di sprecare il tempo in occupazioni banali, tipo lavorare in banca. E poi ci siamo noi", spiega un ufficiale che porta addosso come un trofeo, una maglietta procurata a Beirut con un teschio davanti. "Il brivido bisogna costruirselo. Bisogna credere nell' avventura".
Roberto Vannacci, 24 anni, un ragazzone dai capelli a spazzola e dall' ottimismo inestinguibile, per chiarire che si tratta di gente "speciale", offre un altro dettaglio: "Guardi le nostre scarpe, sono fuori ordinanza. Nessuno del Col Moschin ne indossa un paio uguali".
Seduto sui gradini davanti al padiglione, Vannacci assapora il vento fresco del pomeriggio, lo stesso che rende sopportabili le notti equatoriali dell' accampamento.
Cara mamma "Questa città mi piace. Quando non c' era la guerra doveva essere un paradiso. E poi visto che mare? Prima o poi un bagno lo farò". Nostalgia neanche un po' . Per lui che è nato a La Spezia, vissuto a Ravenna e ha trascorso sei anni anche a Parigi prima di arrivare in caserma a Livorno, il richiamo di casa è sentimento vago: "La famiglia? Per uno del Col Moschin?". Ma poi ammette: "Eh sì, mia madre l' ho sentita ieri. "E' vero che c' è caos?" mi ha chiesto. Caos? Ma cosa dici. Qui si cena tutte le sere a cernie e aragoste. Costano due lire".
Quando però si fa buio, e i soldati si ritirano tutti per il coprifuoco (tassativamente vietato uscire dopo le sette di sera) c' è la fila per chiamare l' Italia, davanti al satellitare montato al primo piano della "Cancelleria". "Abbiamo diritto a una telefonata ogni dieci giorni", spiega un ragazzo di leva mostrando un cartellino giallo, "I nostri sono preoccupati da quello che leggono sui giornali. Ma qui in fondo va tutto bene".
In fila alla mensa Dopo le prime due settimane, avanti a razioni Kappa, adesso i soldati pranzano e cenano regolarmente sotto un grande tendone. Il cibo, a parte cernie e aragoste, arriva tutto dall' Italia: fusilli al ragù o risotto ai funghi, carne per secondo e anche formaggio. Il pane viene fatto sul posto con un forno, come a casa. E le famigerate razioni Kappa? Quelle che sono servite da pretesto al giornalista americano dell' Associated Press, Mark Fritz, per sbeffeggiare i soldati italiani, accusati di mangiare paté e pasteggiare a cognac? Dentro c' è una busta metallizzata che contiene pasta e fagioli precotta, carne di vitello e di maiale in scatola, biscotti, latte condensato, più 3 centilitri di cordiale prodotto a Firenze.
Alcol contro magliette "Le razioni le diamo ai marines. Vanno matti per il cordiale", spiega un ragazzo. Lo scambio è di uno a quattro, una razione Kappa per quattro razioni dei marines, che possono scegliere, è vero, tra 12 menù diversi, ma a base di cibi liofilizzati. Oppure, a scelta, gli italiani regalano la razione Kappa in cambio di cappellini, magliette e mimetiche americane. Il giudizio degli italiani sui marines? "Sono bravi ma non sanno soffrire", dicono al battaglione Col Moschin. Oreste Tombolini, capitano di fregata, aggiunge un dettaglio: "Ieri sono venuti da noi terrorizzati. Alcuni ragazzini avevano fatto scoppiare un proiettile sotto la loro jeep. Ci hanno chiesto aiuto. Avevano bisogno dei nostri tecnici per bonificare la strada".
I conti con l' Aids In mensa si parla anche di donne. Il libretto distribuito ai militari sugli usi e costumi da adottare in Somalia parla chiaro: "Mai abbracciare una donna somala". Ma soprattutto: "Attenzione all' Aids". I militari questo l' hanno recepito alla perfezione. Ma c' è chi borbotta con rammarico: "Eppure sono così belle. E poi hanno un modo di stuzzicarci... Sempre con la lingua tra le labbra". Ma i somali, a ogni occhiata che un militare lancia alle loro donne, rispondono passandosi il pollice sulla gola.
E' già notte all' ambasciata italiana. Qualcuno passeggia ancora con l' accappatoio bianco dell' esercito addosso, sotto gli alberi del giardino. Per altri, il lavoro non è finito. Dalle otto di sera in poi cominciano per i ragazzi di leva anche i turni di guardia. Due ore a sorvegliare il muro di cinta dell' ambasciata. Poi quattro ore di sonno, e si ricomincia. Paura? Domenico Lopez, caporale della Folgore, si fa coraggio: "Io in generale non ne ho, perché ho capito come sono fatti i somali. Non sono addestrati. Loro sparano e fuggono. Noi spariamo e andiamo avanti". Lo corregge un compagno, Cristian Bracalone: "Sì, se i nostri fucili, i Fal, non si inceppassero. Qui perdono colpi anche le mitragliatrici".
Good morning Somalia Mentre rimbombano da lontano i primi colpi secchi dei kalashnikov, Ismail Favaro, il veneziano dal nome musulmano, cambia umore: "Proprio ieri, sulla strada di Balaad, ho visto una cosa. Sembrava un sacchetto dell' immondizia. Era il cadavere di un bambino senza testa. Qua i padri scannano i figli anche per un pacco di farina".
Già, la fame. Non doveva essere il Restore Hope una missione umanitaria? Organizzata per poter distribuire le decine di migliaia di tonnellate di viveri bloccati nei magazzini per via degli assalti delle bande armate? Le imboscate ai convogli alimentari continuano, tanto che ci vogliono spesso gli elicotteri Mangusta per scoraggiare le bande di predoni. Però la fame sembra diminuita. Il maggiore Raffaele Iubini che ha appena visitato un villaggio vicino a Gialalassi si è fatto una convinzione: "Sembra che dei nostri viveri non sappiano che farsene. Soia, granturco, farina? Macché. Chiedono carne e abiti occidentali". Tra poco forse vorranno anche le radioline. Da Mogadiscio infatti sta per andare in onda Radio Ibis, la radio del contingente italiano: musica per i ragazzi e messaggi di pace per i somali. Si aspetta solo che da Roma arrivino le apperecchiature. Poi la radio partirà: Good Morning, Somalia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
27/01/93

Numero
2207

Pagina
102

Titolo
SOMALIA I MIRACOLI DI UN OSPEDALE DI GUERRA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI GIORGIO LOTTI

Sezione
STORIE

Occhiello
"EPOCA" HA SEGUITO UNA PATTUGLIA DI MEDICI ALL' OPERA NEL MASSACRO DI MOGADISCIO

Sommario
Fuori sparano i kalashnikov. Dentro, nella sala operatoria, il chirurgo tenta di salvare la vita a un bambino. E ogni giorno è così: nella follia di questa capitale distrutta, pochi uomini e donne di buona volontà si oppongono alla morte. Senza medicine, senza strumenti e senza il clamore che accompagna le gesta dei marines. Ecco le loro storie e le immagini di una battaglia che vale la pena di raccontare.

Didascalia
INNOCENZA FERITA
Ospedale Digfer: una dottoressa
somala opera un bimbo di 4 anni colpito alla testa.
DIGFER, OSPEDALE DI GUERRA
Foto grande in alto: due donne medico americane
curano un somalo ustionato. Foto grande in basso: un ferito grave
attende, sopra una panca, di essere operato. Foto piccole,
dall' alto in basso: un chirurgo americano al lavoro; una stanza
dell' ospedale; l' arrivo di un ferito in condizioni disperate.
L' uomo morrà poco dopo.

Testo
E' un tanfo insopportabile. Odore di sangue e sporcizia. Di morte e di dolore. Urla di donne, rombo di auto che scaricano in continuazione un ferito dopo l' altro, corpi quasi senza vita, gettati sul fondo dei cassoni dei "pick-up" . Un uomo armato di kalashnikov trasporta a braccia un ragazzo con il cranio spaccato. La testa riversa all' indietro. Dalla nuca gli esce il cervello. E' un' alba disperata quella che si alza sull' ospedale Digfer di Mogadiscio dopo la lunga battaglia della notte. Un' alba dove la violenza, in parte smorzata negli ultimi tempi dall' arrivo del contingente internazionale, è riesplosa. Improvvisa come sempre.
La stessa violenza che ha fatto in Somalia chi dice 300 chi 400 mila morti. Due clan in lotta, gli Habr-Gedir del generale Aidid e i Murursade si sono scagliati l' uno contro l' altro a Wardiglay, uno dei quartieri a cavallo della Linea verde. I primi, arrivati dal nord della Somalia, hanno occupato le abitazioni dei secondi. Così hanno sparato per strada fino alle prime luci del giorno. E ancor dopo.
BIMBI AL MACELLO Venti feriti. No, sono 60, forse 70. Nessuno all' ospedale è in grado di contarli. Un uomo dietro lo spioncino di una porta regola le entrate. Può capitare negli ospedali di Mogadiscio che i feriti vengano rifiutati. Se appartengono, ovviamente, a un clan diverso da quello che domina la zona. Stavolta passano tutti. Sono civili, capitati in mezzo alla battaglia per caso. Un bambino di tre anni è stato colpito alla testa. Ha tre schegge nel cranio. Non piange, non urla. Solo il suo silenzio tradisce il dolore. Un ragazzo di 15 anni è steso su un tavolaccio di legno, completamente nudo, i genitali coperti da una garza insanguinata. Non ci sono letti, né barelle all' ospedale. La gente porta tutto da casa. Stuoie di paglia intrecciate, drappi laceri senza colore, messi alla rinfusa sul pavimento.
100 FERITI AL GIORNO Il direttore, Mohammed Hussein un uomo alto e ossuto, dall' aria da intellettuale non chiede neanche i nostri nomi. "Negli ultimi tempi le cose andavano meglio" , dice. "Da cento feriti al giorno eravamo scesi a 20. E neanche tutti per arma da fuoco. Ma oggi..." .
E' abituato alle stragi il dottor Hussein. Il suo ospedale, il Digfer, uno dei più grandi di Mogadiscio, costruito dagli italiani, è rimasto in funzione quasi ininterrottamente durante la guerra.
Saccheggiato per 20 giorni al gennaio del 1991, durante la fuga di Siad Barre, ha riaperto immediatamente dopo. "Dentro non c' era più niente" , racconta, "ma una convenzione con l' International medical corp, un' organizzazione non governativa, ci ha permesso di rimetterlo in attività" . Il personale non manca: 3 medici americani, 2 assistenti e 4 infermieri, tutti statunitensi, più 20 medici e 200 infermieri somali. Quello che mancano sono gli strumenti, i farmaci, le apparecchiature. Così come è scomparsa traccia dei due reparti di specializzazione che facevano capo all' università di Mogadiscio, sostenuti economicamente dall' Italia.
DOTTOR SUPERMAN Il medico che ci accompagna in sala operatoria, un somalo piccolo piccolo con due occhialini di metallo.
"Sono il dottor Maxid Salaad, detto Superman. "Che cosa posso mostrarvi?" . Ci mostra la sala operatoria, una stanza dove i medici americani stanno operando un ragazzo all' addome. "Abbiamo l' ossigeno, purtroppo mancano le maschere per usarlo" , dice Superman. E' la quinta operazione della giornata, dopo la battaglia.
I medici sono in piedi dalle prime ore della notte. "Cosa volete che sia. Da quando si combatte avrò fatto almeno 10.000 interventi d' urgenza" . E gli italiani, ex sostenitori dell' ospedale? "No, loro non si sono più visti" . Al Digfer no. Ma sempre a sud, nella zona di Aidid, i medici della cooperazione italiana hanno rilevato un altro ospedale, il Benadir. Sono arrivati a settembre. Oggi operano al Benadir due chirurghi, Franco Di Roberto e Fausto Mariani. Stanno tentando di rimettere in piedi i vecchi reparti maternità. Nel frattempo si occupano dei casi particolarmente gravi.
Milanese di nascita, ma somalo d' adozione Franco Di Roberto, 53 anni ha sposato una donna somala, lasciata per il momento in Italia.
Lui, scene come quelle del Digfer ne ha viste tante. Ma è come un incubo. "Una ragazza di 15 anni, operata per un proiettile nell' addome. Quando l' ho aperta, sono sgusciati fuori un' infinità di vermi lunghi e bianchi" . L' infermiera somala è svenuta.




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/12/92

Numero
2202

Pagina
18

Titolo
QUESTA VOLTA CI SPARERANNO ADDOSSO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL PIU' GRANDE SCHIERAMENTO MILITARE ALL' ESTERO NELLA STORIA DELLA NOSTRA REPUBBLICA MISSIONE SOMALIA CHE COSA CI ASPETTA: PARLA UNO DEI MASSIMI ESPERTI ITALIANI IN STRATEGIE MILITARI

Sommario
Stanno partendo in 4.000 verso Mogadiscio. Altri 1.200 si preparano a raggiungere il Mozambico. Dalla Seconda guerra mondiale, mai così tanti soldati italiani in zona di guerra. Ma quanto rischiano, visto che laggiù già si contano i morti? Quanto saranno costretti a restare? E, soprattutto, che cosa faranno se anche loro verranno attaccati dai guerriglieri? "Laggiù vedrete scene terribili. Ma siete marines, non piangete" (cappellano militare Usa) Un Paese che non ci ama. Guerriglia ovunque. E un compito difficile. Ce la faranno i nostri soldati? Risponde il generale Luigi Caligaris.

Didascalia
E' l' 11 dicembre. I
primi paracadutisti della Folgore si imbarcano a Livorno alla volta
di Mogadiscio.
MARTEDI' 8 DICEMBRE SBARCANO LE TRUPPE AMERICANE E INCOMINCIA IL
GRANDE SHOW
Il Vaticano: "Disgustoso, troppe telecamere"
Il generale Luigi Caligaris.
La partenza dei parà della Folgore. All' Operazione Ibis partecipano
4.000 uomini tra marinai, aviatori e soldati.

Testo
In mille subito dopo Natale. E tra il 4 e il 5 gennaio l' intero contingente italiano, 2.500 militari, sarà a Mogadiscio. Con gli equipaggi di navi e aerei, impegnati anch' essi nell' Operazione Ibis, si raggiunge un totale di 4 mila uomini. Il compito più duro è affidato ai paracadutisti della brigata Folgore e ai marò del battaglione San Marco, appoggiati da reparti del Genio e delle Trasmissioni. I primi a partire, l' 11 dicembre, sono stati 50 sabotatori del battaglione Col Moschin con un compito speciale: preparare il campo e garantire condizioni di sicurezza al contingente italiano, che sarà dotato di 14 carri armati, più una quindicina di aerei. E' dunque una missione impegnativa, come ha ammesso Salvo Andò, il ministro della Difesa. E si svolge in un Paese dove in molti non vogliono saperne dell' Italia, troppo compromessa con il deposto dittatore Siad Barre. Un Paese dove al solo parlare la nostra lingua si rischia di essere aggrediti, come è accaduto a giornalisti italiani a Mogadiscio. Che cosa succederà quando oltre ai cronisti ci saranno i nostri soldati? I guerriglieri somali ci spareranno addosso, come hanno già minacciato i portavoce di sei delle fazioni in lotta? Epoca lo ha chiesto al generale Luigi Caligaris, docente di strategia alla Scuola di guerra dell' esercito italiano. Epoca: Sbarcano in Somalia 2 mila e 500 italiani. La scelta del contingente è adeguata per una missione come questa? Caligaris: In Italia abbiamo solo due corpi speciali, i paracadutisti della Folgore e i marò del battaglione San Marco. E infatti in Somalia vanno loro. Sono quelli addestrati meglio, disponibili a correre certi rischi. Gli unici adatti. Epoca: Riusciranno ad affrontare le difficoltà ambientali e logistiche della Somalia? Caligaris: Le tecniche d' addestramento alle quali si sottopongono lasciano di stucco persino gli inglesi, che, a loro volta, non scherzano. Sono già andati in Kurdistan, dove c' erano 50 gradi all' ombra. Si adatteranno anche alla Somalia. Epoca: Quali sono i pericoli maggiori ai quali vanno incontro? Caligaris: Assalti, imboscate, cecchinaggi. Non esistono in Somalia eserciti regolari, ma bande e fazioni, armate e addestrate in maniera eterogenea. Ma se non intervengono in funzione antioccidentale Paesi interessati a rifornire d' armi la guerriglia, la situazione può essere tenuta sotto controllo. Epoca: I soldati hanno l' ordine di sparare? E in quali casi? Caligaris: Ce l' hanno. Ci sono le cosiddette "norme d' ingaggio" fissate dall' Onu: il criterio generale, per una missione di "peace making" come questa, è di sparare solo se si è attaccati. Ma ultimamente l' Onu ha introdotto una variante, autorizzando i militari a ricorrere alle armi se diventa necessario per assolvere la missione. Immaginiamo uno schieramento di somali con i fucili spianati che impediscono ai convogli di passare: i soldati devono premere il grilletto. Epoca: Gli americani sono stati polemici sul nostro intervento in Somalia.
Il ruolo giocato in passato dall' Italia in quel Paese può compromettere la missione? Caligaris: Le dichiarazioni dell' ambasciatore Oakley sul fatto che gli italiani non dovrebbero intervenire ora, ma più in là, al momento della ricostruzione, mi sembrano un' assurdità. Gli italiani negli anni Cinquanta hanno fatto un lavoro egregio in Somalia. Negli anni Ottanta, è vero, i nostri politici hanno combinato dei disastri, ma non credo che questo possa impedire ai soldati di portare a termire la missione in maniera efficiente. Epoca: Ma anche il segretario generale dell' Onu, Boutros Ghali ha premuto di più per un impegno italiano in Mozambico... Caligaris: In Mozambico i militari non li manderei.
Rischiamo di esporci al di là delle nostre forze. Questo è il momento di concentrarci sulla Somalia. Epoca: A quale altra missione, sostenuta dall' Italia negli ultimi anni, può essere paragonata l' Operazione Ibis? Caligaris: A nessuna. In Libano si trattava di un' operazione "statica" , tutti concentrati in una zona ben delimitata di Beirut Ovest. In Iraq, l' anno scorso, i rischi erano certamente più bassi. Nessuno sparava. Dovevamo solo distribuire viveri. Qui c' è sicuramente un salto di qualità sul piano militare: scortare convogli in un territorio infestato da bande. Epoca: I nostri soldati rischiano di restare "impantanati" in Somalia? Caligaris: Una volta preso l' impegno, bisogna andare fino in fondo. Sarebbe da irresponsabili tirarsi indietro a metà strada.
L' Italia perderebbe credibilità. Prima di andar via, bisogna creare le condizioni di sicurezza necessarie per ristabilire la pace. E sarà lunga. Speriamo solo che non si cominci con le polemiche sulle spese della Difesa. Probabile che invece succeda. E' già stato calcolato che il primo mese di missione costerà all' Italia 100 miliardi, di cui 7 per le paghe base dei 2.400 militari. Caro? Briciole, rispetto a 1.500 miliardi regalati dal nostro governo a Siad Barre.




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/12/92

Numero
2202

Pagina
24

Titolo
I NOSTRI RAGAZZI SONO NELLE LORO MANI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
SOMALIA CHI COMANDA LAGGIU': IDENTIKIT DEI DUE GENERALI CHE GUIDANO LE TRUPPE ITALIANE

Sommario
Vi ricordate il generale Angioni in Libano? Questa volta i capi missione sono due: un paracadutista e un esperto in diplomazia internazionale.

Didascalia
Bruno Loi, responsabile operativo.
Giampiero Rossi, comandante della missione.
Aeroporto di Pisa, 11
dicembre: i militari caricano un C130 in partenza.

Testo
Ci sarà per la Somalia un nuovo generale Angioni, eroe del contingente italiano in Libano? Negli ambienti militari dicono che stavolta lo stile delle nostre forze armate sarà diverso.
Più discrezione, poco spazio al protagonismo tra i nostri soldati partiti per l' Operazione Ibis. Nessuno dei due generali cui è affidata la guida dell' operazione, Giampiero Rossi, comandante supremo della missione, e Bruno Loi, capo della brigata Folgore e responsabile operativo, sembra essere impulsivo e autoritario come Angioni. Tra i due, tuttavia, potrebbe essere Loi ad avere le carte in regola per diventare la star della missione. Più "soldato" di Rossi, più "tosto" , direbbero in gergo. Un autentico parà, in linea con lo stile della Folgore che dirige da quasi due anni.
BRUNO LOI Fisico atletico, carattere volitivo diluito da un certo aplomb di marca anglosassone, Loi è l' uomo a contatto con i "ragazzi" .
Mentre Rossi coordinerà gli aspetti strategici e il collegamento con le forze multinazionali, Loi dirigerà le truppe, seguirà le scorte ai convogli umanitari, la distribuzione dei viveri, imporrà calma e nervi saldi ai militari che dovranno destreggiarsi tra guerriglieri e banditi. Nato ad Avellino cinquant' anni fa, allievo della Scuola di guerra di Civitavecchia e dell' E' ' cole de Guerre francese, Loi ha fatto carriera nel corpo dei parà, tra Siena e Livorno. C' è un' esperienza fondamentale nella sua storia di militare che lo accumuna ad Angioni: l' avventura libanese, per l' appunto. Viene chiamato a Beirut nel luglio 1983, al comando del quinto battaglione paracadutisti El Alamein.
DA BEIRUT A PARIGI Bruno Loi viene spedito nella capitale francese come addetto militare dell' ambasciata italiana, dando il cambio proprio a Giampiero Rossi. Qualche anno in sordina, poi a luglio l' operazione Vespri Siciliani. Loi si trova al comando della brigata Folgore al momento dello sbarco a Palermo, con un ruolo insolito per un guerriero: controllo del territorio e lotta alla mafia. Sono i giorni che seguono in Sicilia l' uccisione dei giudici Falcone e Borsellino. Il generale non lascia trasparire nulla: "Il morale del paracadutista è sempre alto" , dice ai giornalisti.
GIAMPIERO ROSSI Altra carriera quella del generale Rossi. Cinquantacinque anni, non altissimo di statura, carattere tranquillo e equilibrato, il capo dell' Operazione Ibis è stato fino a settembre comandante della Fir, la Forza d' intervento rapido.
Incarico questo che gli ha permesso di entrare in contatto e mantenere rapporti con gli stessi parà che oggi si trovano nel suo contingente. Adesso è vicecomandante del Terzo corpo d' armata a Milano. Il suo primo obiettivo a Mogadiscio è rimpossessarsi dell' ambasciata italiana, saccheggiata e distrutta l' anno scorso dai ribelli subito dopo la caduta di Barre.
NIENTE CROAZIA Perché lui? Due le esperienze che potrebbero aver influenzato gli alti comandi al momento della scelta. Un' esercitazione in Francia, avvenuta a giugno, con i volontari della legione straniera: il programma prevedeva la simulazione di un' operazione di recupero di connazionali all' estero, e soprattutto, un gioco di destrezza tra due fazioni in lotta, proprio come in Somalia. E poi le sue frequentazioni internazionali. Allievo nel 1971 della Scuola di guerra britannica, il generale, ottima conoscenza di inglese e francese, è stato addetto militare all' ambasciata italiana a Parigi dal 1984 al 1985. Comandante dal 1989 al 1990 della zona militare di Livorno, Rossi sembrava il candidato favorito a comandare i militari italiani in partenza per la Croazia nei mesi scorsi. L' idea dell' intervento viene poi abbandonata e il nome di Rossi torna dietro le quinte.
ENRICO AUGELLI Chi invece è sotto i riflettori da quest' estate è il terzo uomo dell' Operazione Ibis: si chiama Enrico Augelli, ha 50 anni, non veste la divisa. E' un diplomatico, nominato inviato speciale dal ministro degli Esteri Colombo. Fa la spola con la Somalia da settembre. Accompagnato adesso da un coordinatore dei programmi d' emergenza della cooperazione, Agostino Miozzo, Augelli a Mogadiscio sta prendendo contatti con i capi delle fazioni. Obiettivo ultimo: definire i termini della ricostruzione somala. Oltre a incarichi diplomatici dal Magadascar a Belgrado, da Washington a Londra, l' inviato del ministero ha infatti lavorato anche nel Dipartimento cooperazione e sviluppo.
IL NO DI DE MICHELIS Ma, nel 1991, direttore da appena dieci mesi dell' unità tecnica della cooperazione, venne improvvisamente rimosso. Il ministro era Gianni De Michelis, lo stesso che l' anno prima gli aveva conferito la nomina diplomatica di ministro plenipotenziario. Causa ufficiosa del malcontento del "capo" : la scarsa affidabilità politica di Augelli, giudicato troppo indipendente.

BOX
"ATTENTI, MOGADISCIO E' PEGGIO DI BEIRUT" L' ambasciatore americano in Kenya era contrario alla missione. Ecco perché.
"Devo confessare che la rapidità con cui il governo statunitense si è infilato nel caos somalo mi ha confuso e allarmato" . Così, in un cablogramma segreto alla Casa Bianca intercettato dal settimanale americano U.
S. News and World Report, l' ambasciatore americano in Kenya, Smith Hempstone, ha commentato l' operazione Restore Hope. "A prescindere dalla questione umanitaria" , continua Hempstone, "non riesco a vedere la minaccia di alcun interesse vitale degli Stati Uniti. Le decisioni di Stato devono essere guidate dalla testa e non dal cuore" . Hempstone sa quello che dice: aveva previsto che, dopo lo sbarco, i guerriglieri-predoni si sarebbero rifugiati nell' interno.
Così è stato, sono andati verso Baidoa e Kismayu. Adesso sostiene che la situazione rimarrà tranquilla solo per i primi giorni. "Poi un ragazzino somalo lancerà una granata in un caffè frequentato da soldati americani. Poi ci saranno uno o due rapimenti. Un cecchino abbatterà una delle nostre sentinelle. Se vi è piaciuta Beirut, impazzirete per Mogadiscio" . Perché, ricorda Hempstone, i somali sono "guerriglieri nati, duri come il Paese in cui vivono. Mineranno le strade. Faranno attacchi di sorpresa. Non riusciranno a impedire ai convogli di passare, ma provocheranno incidenti" . Insomma, l' operazione-lampo per Hempstone è un' illusione. "Quanto intendiamo rimanere in Somalia? E cosa siamo preparati a fare? Fornire cibo e combattere la guerriglia? Stabilire un sistema giudiziario, formare una forza di polizia, creare un esercito? Incoraggiare la formazione di partiti politici, tenere libere elezioni? Ci vorranno cinque anni per rimettere la Somalia non in piedi ma in ginocchio. La Cambogia ci costa due miliardi di dollari all' anno (quasi 3 mila miliardi di lire, ndr). Quanto ci costerà la Somalia? Dieci miliardi di dollari?" . Alternative? "Mandate un inviato a Mogadiscio. Ci andrò io se nessuno accetta. Incoraggiate i somali che vogliono la pace. Lasciateli soli a decidere il loro futuro, per brutale che possa sembrare. Pensateci una, due e tre volte prima di infilarvi nel caos somalo" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/12/92

Numero
2202

Pagina
30

Titolo
QUI SIAMO IN PRIMA LINEA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
MOZAMBICO MILLEDUECENTO ALPINI IN PARTENZA PER FAR RISPETTARE GLI ACCORDI DI UNA PACE APPESA A UN FILO

Sommario
Nome in codice: "missione Albatros" . Pericolosità: massima. Primi a sbarcare: gli italiani. Ecco perché l' Onu ha scelto noi per un intervento ancor più rischioso di quello somalo.

Didascalia
Mozambico: ex
colonia portoghese, indipendente dal 1975, 17 anni di guerra, un
milione di morti su 16 milioni di abitanti.

Testo
Questa volta i primi a partire non saranno i marines americani, ma i soldati italiani. Mille e 200 militari, espressamente richiesti in Mozambico dal segretario delle Nazioni Unite Butros Ghali per una missione simile a quella somala. Ma forse più pericolosa. Da due mesi, è vero, a Maputo non sparano più. Dopo 17 anni di guerra è cessato il fuoco: i soldati della resistenza e le truppe governative sembrano davvero voler rispettare gli accordi di pace firmati il 4 ottobre a Roma. Ma durerà? In mezzo a due schieramenti che non hanno ancora deposto le armi, il contingente di pace formato da 7.500 soldati della forza multinazionale ha un incarico molto più delicato di quello somalo. Non deve soltanto rifornire di viveri popolazioni stremate dalla fame, ma far rispettare una tregua che potrebbere rivelarsi fragilissima. Non è un caso che sia l' Italia a inaugurare la missione con gli alpini della Taurinense, già vaccinati e allertati. Se pace in Mozambico è stata fatta tra la Renamo, il fronte di resistenza sostenuto dal Sudafrica, e il governo d' ispirazione socialista guidato da Joaquim Chissano, il merito è del nostro Paese. Una pace certamente ancora precaria, ma soprattutto una pace anomala per i modi in cui sono state condotte le trattative. E' stato un gruppo cattolico, la comunità romana di Sant' Egidio, con l' aiuto della Chiesa mozambicana, a tessere contatti tra le parti in lotta, riuscendo lo scorso ottobre a portare a Roma i rappresentanti dei due schieramenti. Un autentico miracolo. Mai infatti la Renamo, un esercito di guerriglieri reclutati tra i più poveri e più disperati, era voluta scendere a patti con il governo. La sua opposizione comincia subito, non appena il Paese raggiunge l' indipendenza, il 25 giugno 1975, con la caduta del regime coloniale portoghese. Il neopresidente Samora Machel non fa in tempo a fondare la Repubblica popolare, con in testa il Frelimo, partito unico d' ispirazione marxista, che già si trova a dover fronteggiare gli attacchi della vicina Rhodesia (oggi Zimbabwe), alleata dei guerriglieri della Renamo. Machel riuscirà ad avere il sopravvento, ma non a piegare la resistenza interna. I "bandidos armados" sostenuti stavolta dagli ex coloni portoghesi e dal governo sudafricano di Willem Botha, entrano in guerra a tutti gli effetti con il governo. Machel, filosovietico, appoggia a sua volta in Sudafrica l' Anc, il movimento dei neri contro l' apartheid. Gli anni Ottanta sono segnati da carestie, massacri, uccisioni, Neanche gli accordi firmati il 16 marzo 1984 tra Mozambico e Sudafrica, riescono a fermare la guerra. Il nuovo presidente Joaquim Chissano, eletto nel 1986, tenta di convertirsi all' Occidente. Ottiene aiuti economici, ma non servono a frenare la Renamo né a risollevare il Paese dallo sfacelo. Anche adesso che c' è la pace, la disperazione rimane. Quello che aspetta i soldati italiani in Mozambico è uno spettacolo di orrore e desolazione. Se 17 anni di guerra hanno fatto un milione di vittime e costretto alla fuga quasi due milioni di esuli, la carestia rischia di trasformare un' intera nazione in un Paese di morti. Bastano un paio di dati a spiegare il triste primato di "popolazione che più soffre nel mondo" che le organizzazioni internazionali hanno attribuito agli abitanti del Mozambico. L' indice di mortalità: del 200-250 per mille. Il reddito procapite: 80 dollari l' anno, contro i 120 ufficiali attribuiti alla Somalia dalla Banca mondiale. Eppure di soldi ne sono arrivati, in Mozambico. Tanti. Il 70 per cento del prodotto interno lordo dell' intero Paese è basato sugli aiuti internazionali. Anche l' Italia non ha lesinato denaro: sotto la voce cooperazione sono stati destinati a quest' angolo d' Africa mille miliardi. Ma come succede spesso, pure il Mozambico è diventato terra sospetta di sperperi e corruzione: esattamente un anno fa in Parlamento il deputato repubblicano Giovanni Bruni si chiedeva a che punto fosse la realizzazione del centro agricolo di Chimoio, vicino a Maputo. Un programma di sviluppo rurale rimasto sulla carta. L' aveva sostenuto l' allora sottosegretario agli Esteri Mario Raffaelli, socialista. Per realizzare il progetto, nel 1988, aveva ottenuto uno stanziamento di 125 miliardi, approvati dal Ministero con carattere "urgente e straordinario" . Oggi Mario Raffaelli è uno dei quattro mediatori che hanno portato a Roma per l' accordo le parti in guerra. Gli altri sono Jaime Goncalves, l' arcivescovo di Beira, il principale porto del Mozambico, e i due rappresentanti della comunità romana di Sant' Egidio, il presidente Andrea Riccardi, docente universitario di Storia del cristianesimo, e un giovane sacerdote, don Matteo Zuppi. Missionari coriacei e ostinati? Non esattamente. Il gruppo di Sant' Egidio arriva in Mozambico nel 1975 per realizzare alcuni programmi di cooperazione.
Solo successivamente (riquadro qui sotto) comincia a impegnarsi nel processo di mediazione che porterà alla pace. Tenuta d' occhio e seguita dagli Stati Uniti, che in Mozambico hanno subito mandato un emissario, la comunità romana dialoga anche con l' Onu. Il tramite è Aldo Aiello, ex senatore radicale, poi socialista, portavoce a Ginevra di Butros Ghali. E' lui che ha chiesto ufficialmente all' Italia l' invio di 1.200 uomini. Il loro incarico? Su richiesta della stessa Renamo, il contingente italiano dovrebbe tener sotto controllo il corridoio di Beira. E' una fascia lunga e stretta, che parte dal mare e, tagliando in due il Mozambico, arriva fino ai confini con lo Zimbabwe. Un punto di passaggio strategico, lungo il quale corre una ferrovia e un oleodotto, fondamentali per i traffici commerciali dell' ex Rhodesia. Il governo dello Zimbabwe, infatti, in cambio di un appoggio al governo mozambicano, vi tiene schierato dal 1989 il suo esercito. Ora dovrebbe ritirarlo. Ma lo farà davvero? Lo capiranno sul posto i soldati italiani. Speriamo bene.

BOX
LA TREGUA? UN MIRACOLO DI SANT' EGIDIO Una comunità cattolica romana ha tenuto i contatti con governo e opposizione di Maputo. Finché il 4 ottobre...
Il miracolo della pace l' hanno fatto loro, i cattolici della comunità di Sant' Egidio. Sede a Roma, in un cortile di Trastevere, il gruppo ha un raggio d' azione che abbraccia quasi tutto il mondo. Nata nel 1968 sui banchi di un liceo, la comunità ha oggi 15 mila volontari, impegnati in opere d' assistenza ed evangelizzazione in Italia e all' estero. I suoi fondatori provengono dall' area di sinistra, tanto da essere stati spesso etichettati come "cattocomunisti" o "cattolici del no" . Loro smentiscono questa appartenenza, anche se nel caso del Mozambico non nascondono per esempio di essersi impegnati personalmente a portare a Maputo, la capitale, l' allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. "Appena giunti in Mozambico, nel 1975" , racconta il presidente della comunità, Andrea Riccardi, docente di Storia del cristianesimo alla Sapienza di Roma, "il primo obiettivo è stato quello di creare un collegamento tra la Chiesa locale, che rappresenta un terzo della popolazione, e il potere socialista" . La benevolenza del governo era necessaria a realizzare i progetti di cooperazione che la comunità aveva in mente: una salina, un programma tessile per le donne, un corso di alfabetizzazione. "Ma ci siamo subito resi conto che non bastava. Ci voleva la pace" , spiega Riccardi. "La prima volta fu il vescovo a recarsi nel quartier generale della guerriglia per incontrare il capo della Renamo, Dhlakama. Poi cominciammo anche noi, con appuntamenti segreti nel Malawi, Paese confinante" . Nel 1990 il primo vero successo: i rappresentanti della resistenza accettano di venire a Roma. Il tutto con la benedizione di Andreotti, allora presidente del Consiglio.
Mentre Sant' Egidio avvia i negoziati, quattro Paesi mandano i loro osservatori in Mozambico: Stati Uniti, Francia, Portogallo e Gran Bretagna. Ma è la diplomazia non ufficiale a concludere le trattative. Il 4 ottobre, a Roma, al ministero degli Esteri la firma del primo trattato ufficiale di pace. Dopo 17 anni di guerra.




Testata
Epoca

Data pubbl.
16/09/92

Numero
2188

Pagina
20

Titolo
BRIGATA FOLGORE: PRESENTE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
Se L' Italia va in guerra

Sommario
Il soldato: "Piuttosto della noia, meglio Sarajevo" . L' ufficiale: "Voglio sentirmi come in Libano" . Viaggio tra i parà pronti a partire. Pieni di entusiasmi ostentati. E di paure segrete.

Didascalia
Livorno: paracadutisti della brigata Folgore pronti a
partire per la Bosnia.

Testo
"Sembrava che dovessimo partire in fretta e furia. I ragazzi già scalpitavano, mi ricordavano quasi i tempi di Beirut, stessa agitazione, stesso entusiasmo, ma anche stessi timori... Invece per ora ci è stato detto di aspettare e stare calmi" . Nella voce di Giuseppe, 37 anni, sottufficiale della Folgore, c' è un pizzico di delusione mentre racconta la fine di una giornata che si era preannunciata frenetica.
Sabato 5 settembre, alla caserma "Turba" di Palermo, i paracadutisti del Tarquinia, secondo battaglione della brigata Folgore, attendevano impazienti notizie da Roma. Da un momento all' altro avrebbero potuto lasciare la Sicilia, dove sono in missione antimafia, per rientrare alla base di Livorno. Con una nuova e più rischiosa destinazione: Bosnia Erzegovina. E' stato loro detto, appunto, di aspettare. La morte dei quattro aviatori italiani ha infatti gelato gli slanci internazionali. L' ipotesi di un intervento militare da parte dell' Italia non è però caduta del tutto: e 1.300 uomini, professionisti e volontari di leva, sono ancora in attesa di fare da scorta ai convogli umanitari. Tra loro, i paracadutisti della Folgore: scelti tra 8 mila soldati addestratissimi, pronti a partire anche nel giro di poche ore. Sono gli eredi di coloro che dalla storica battaglia di El Alamein, nel 1942, all' intervento in Libano del 1982, a quello in Kurdistan lo scorso anno, hanno sempre fatto da apripista alle azioni italiane in territorio di guerra. Basco rosso in testa. Simbolo di appartenenza a un corpo speciale. Un repertorio di leggende e dicerie li circonda. "Eroici, valorosi, pieni di coraggio" , secondo la Storia.
"Fanatici, rambo, fascisti" , secondo una fama che loro respingono.
Un corpo che comunque si distingue. Non a caso a Livorno, dove si concentra il grosso della Brigata, c' è tutto un sobborgo, l' Ardenza, attorno alla caserma Vannucci, che vive del loro mito. A cominciare dagli esercenti. Tabaccai (specializzati in accendini con l' effige della Folgore), armerie (coltelli da combattimento) e persino un negozio, "Tutto per il parà" , che ogni stagione commissiona a un paio di aziende private tute mimetiche, giubbotti antischegge, e poi gradi, mostrine, berretti ornati dal celebre simbolo della Folgore, il paracadute sospeso tra due ali. Il negozio vende a tutti, militari e civili, con qualche eccezione. "Per certi oggetti" , dice il proprietario, Mauro Borzotti, "bisogna mostrare il tesserino di appartenenza alla Brigata" . Ma anche senza il tesserino il parà si riconoscerebbe comunque, persino in borghese.
Capelli rasati ai lati, tipo skinhead, tatuaggi, fisico solido.
"Sono militari d' élite" , dice il capo di stato maggiore della Brigata, il colonnello Luigi Cantone, "ragazzi "tosti" , sottoposti a tecniche d' addestramento particolari" . Lanci dagli aerei, combattimenti in città, tecniche valide per ogni tipo di guerra. Il colonnello da questo punto di vista si sente tranquillo. "Che si parta o no per la Bosnia, i parà sono sempre pronti" . E il morale? Per dirla con il comandante della Folgore, il generale Bruno Loi: "Il morale di un paracadutista è sempre alto" . A Livorno, dove c' è il comando della Brigata, e hanno sede tre dei cinque battaglioni che ne formano l' ossatura, stavolta il morale sembra però più basso del solito. Almeno tra ufficiali e sottufficiali del 9° battaglione d' assalto "Col Moschin" , l' unico reparto dell' esercito formato tutto da professionisti: il primo che verrebbe spedito nell' ex Iugoslavia. "Da mesi ci prepariamo a partire, e adesso ovviamente non vediamo l' ora di andare" , dice Roberto, tenente, di Trieste, "ma tutto questo tira e molla rischia di demoralizzarci" . La Bosnia non fa paura. "Siamo militari, no? E' il nostro mestiere" . E anche tra i soldati semplici della Folgore c' è chi dice: "Piuttosto che la noia di Livorno, meglio Sarajevo" . A parlare è un diciannovenne di Pistoia. Racconta che il comandante avrebbe detto a lui e ai suoi compagni: "Potete scegliere. Ma io voglio che vi offriate tutti volontari" . Il ragazzo è attratto dalla paga: "Ci darebbero 300 dollari al giorno. Possiamo firmare per tre o per sei mesi. Ma in prima linea no, non vorrei andarci" . I suoi dubbi sono quelli di un giovane di leva. Nessuna incertezza, invece, in un militare di carriera come Francesco, 35 anni, capitano addetto agli addestramenti, paracadutista da 12 anni. Per lui, che nel 1982 era in Libano, l' intervento nella ex Iugoslavia è un dovere, ma anche un desiderio personale. "Stamattina sono venuto al comando proprio per perorare la mia causa" , dice serio. "Eh sì, se i nostri dovessero partire spero proprio di esserci" . Il ricordo del Libano in lui è ancora fortissimo. Da una parte l' ossessiona, dall' altra gli mette addosso la voglia di una nuova esperienza di guerra: "Un mese passato sotto le bombe ti cambia la vita. Quando sono tornato da Beirut non ero più quello di prima. Perché andrei, adesso? Per dovere, per generosità, ma anche per ragioni professionali: noi ci addestriamo, ci prepariamo, ma sempre in uno scenario artificiale" .
Desiderio di andare, e anche paura: "Se non avessimo paura saremmo esaltati, o incoscienti" . Francesco, capitano non-Rambo, ha tre cicatrici sul braccio: "Me le sono fatte con una manovra sbagliata durante un lancio. Se non le avessi non sarei un parà. Così come non sarei un parà se non fossi pronto alla guerra" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
08/07/92

Numero
2178

Pagina
40

Titolo
GLI INVIATI DI EPOCA CON MITTERRAND NELL' INFERNO DI SARAJEVO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI PIGI CIPELLI

Sezione
STORIE

Sommario
Cadaveri per le strade. I parchi cittadini trasformati in cimiteri. Cecchini dappertutto. Da novanta giorni la capitale della Bosnia vive un incubo del quale nessuno riesce a immaginare la fine. Serbi da una parte, croati e musulmani dall' altra si contendono i resti di una città ormai morta. Ci siamo entrati, in questa città, insieme a un inviato d' eccezione: il presidente della Repubblica francese, l' unico capo di Stato che a rischio della vita ha tentato una mediazione disperata. Ecco la cronaca di settantadue ore nel girone dei dannati di Sarajevo. Un convoglio di 5 camion italiani è parfile da Spalato con gli aiuti il 24 di giugno: non è mai arrivato Al mercato nero una gallina viene a costare circa 13 mila lire, una cifra spropositata da queste parti I cecchini? Pagati 500 marchi a morto

Didascalia
A fianco: Francois Mitterrand, 76 anni, in
missione-lampo a Sarajevo domenica 28 giugno. Alla sua sinistra, il
presidente bosniaco Alija Izetbegovic. Nell' altra pagina, a
sinistra: una ragazza piange il fidanzato morto. A destra: una casa
sventrata dai bombardamenti serbi.
Blindati delle Nazioni
Unite di stanza a Sarajevo. In alto, da sinistra: un Casco blu
francese e uno russo durante una pausa; le camerate della forza
multinazionale; il generale canadese Lewis MacKenzie, comandante del
contingente Onu a Sarajevo.
Sopra: miliziani bosniaci di
guardia all' edificio della televisione di Sarajevo. Sotto: un
"berretto verde" musulmano controlla un incrocio del centro.
Nell' altra pagina, dall' alto: il posto di polizia davanti al
palazzo della televisione; un mezzo di soccorso italiano bloccato
nell' ultimo avamposto croato; un barbiere di Sarajevo, senza più
bottega, al lavoro per strada.
Un soldato di Milosevic mostra alcuni
annunci mortuari dei caduti serbi.

Testo
Sono le dieci del mattino, domenica 28 giugno. A Sarajevo, capitale assediata della Bosnia, splende un sole freddo. Si sentono colpi di fucile e rare esplosioni sorde. Sparano dalle colline tutto attorno, dove sono annidate le milizie dei serbi che serrano la città. Dal basso, musulmani e croati rispondono come possono. E' , tutto sommato, una giornata tranquilla per come vanno le cose qui. Alla fine, contro ogni speranza, si rivelerà essere anche una giornata storica. Davanti al palazzo presidenziale, edificio asburgico butterato dalle mitraglie, il miliziano osserva la passatoia rossa che hanno steso attraverso il portone, fin sulla piazza. L' uomo ha una trentina d' anni. E' di nazionalità croata. Prima, quando qui abitavano 400 mila persone, e non 300 mila fantasmi come adesso, quando questo posto era un crocevia tollerante di razze e religioni, e non una bolgia di odio, il nostro miliziano faceva il maestro di tennis, e insegnava karatè. L' 8 aprile, il giorno in cui è cominciato il massacro, era in vacanza in Italia, a Bologna.
E' rientrato subito per arruolarsi. Indica i segni dei proiettili sul muro del palazzo. "Due settimane fa l' hanno mitragliato sul serio. Da allora, ogni giorno ci fanno arrivare addosso due o tre colpi" . Il miliziano guarda ancora una volta la guida rossa.
Nell' aria, un odore dolciastro, di immondizia, palazzi bruciati.
Quel tappeto consunto è il povero simbolo di una nazione distrutta che aspetta di accogliere un miracolo. E il miracolo arriva. Eccolo fermarsi in piazza, scendere da un blindato bianco delle Nazioni Unite, circondato da nervosissimi soldati blu. E' un vecchio di 76 anni, un leader europeo che molti consideravano al tramonto e che, da solo e senza consultarsi con nessuno, ha trovato il coraggio per venire qui, nel girone più cupo dell' inferno iugoslavo: Francois Mitterrand, presidente di Francia, unico capo di Stato a esporsi di persona per tentare di tagliare il nodo che strozza questa gente. Lo accoglie il presidente bosniaco, il musulmano Aljia Izebtvegovic che, a pranzo nel palazzo presidenziale, non potrà che offrirgli un piatto di vitella alle ortiche, l' unico vegetale che qui abbonda.
Ma gli parleranno anche i capi dei serbi, e, grazie al suo intervento, accetteranno (ma per quanto?) di far tacere le armi.
Anche noi siamo qui, semplici testimoni, mischiati alla piccola folla che adesso grida "Bosnia, Bosnia" , e "Francois, Francois" .
Per raggiungere Sarajevo abbiamo viaggiato decine di ore via terra, prima con un convoglio di viveri, poi, quando i camion sono stati bloccati, proseguendo da soli. Nell' ultimo tratto di strada siamo andati velocissimi. Per forza. Centoquaranta chilometri orari è la velocità minima per sfuggire al fuoco dei cecchini nascosti dietro ogni incrocio e, in alto, sulle colline. Non c' è altra via per entrare in questa città, se non un vialone deserto, che taglia in due la campagna, in mezzo a cataste di auto bruciate, pullman distrutti, edifici bombardati. Due chilometri di terra di nessuno, da percorrere a rapidità folle, tra l' ultimo avamposto serbo e il primo controllato dalle milizie bosniache. Dovrebbe esserci una tregua, ma dalle colline arriva il tonfo delle granate che piovono da qualche parte sulle case del centro. Spari, mitragliate, pochissima gente per strada che corre agli incroci e cammina rasente ai muri, protetta dalla schiera di palazzi della periferia. Sarajevo assediata comincia qui. Comincia sulla Proleterske Brjgade, il vialone grigio e sinistro che collega la periferia al centro storico, ai vecchi quartieri sventrati dalle bombe, dove ad ogni angolo c' è un cecchino serbo pronto a sparare sui passanti. Dicono che ogni morto viene pagato dai serbi 500 marchi tedeschi, e che la taglia vale soprattutto se si tratta di una donna o di un bambino.
Sarajevo è controllata per la maggior parte dalle milizie bosniache.
I serbi sono riusciti però a impossessarsi di un paio di quartieri del centro, di alcuni sobborghi, e soprattutto dell' aeroporto, che soltanto adesso hanno cominciato a cedere ai Caschi blu, i 129 arrivati a metà giugno sotto il comando del generale canadese Lewis MacKenzie e il battaglione di rinforzo che, dopo la visita del presidente francese, si è messo in viaggio dalla Croazia. La guerra tra serbi da una parte e musulmani e croati dall' altra (il 70 per cento della popolazione), scoppiata dopo la proclamazione di indipendenza della Bosnia Erzegovina, ha già fatto 1800 morti, ha portato alla fame gli abitanti, tagliandoli fuori da ogni collegamento. Fabrizio Hochschild, 30 anni, coordinatore dell' Unchr, l' Alto commissariato dell' Onu per i profughi, è sconsolato: "Le 30, 35 tonnellate al giorno di cibo che si riescono a procurare sono ben poca cosa rispetto ai bisogni della gente" .
Nel mercatino di Marsala Tita, la strada del centro che sta per percorrere Francois Mitterrand - è domenica 28 giugno - la gente fa la fila tra le nove e le 11 di ogni mattina per ottenere le due pagnotte quotidiane cui ognuno ha diritto. Oppure si aggira tra le bancarelle spoglie alla ricerca di un po' di cibo. Un ortolano vende dell' erba selvatica che giura essere meglio dell' insalata. Un altro propone una gallina a 10 mila dinari, (tredicimila lire, una cifra spropositata da queste parti). "Ma le bombe" , dice Dejan, giornalista di Radio Sarajevo, "sono come la pioggia, possono arrivare quando meno te le aspetti" . E' già successo due volte, il 27 maggio e il 18 giugno: i colpi di mortaio sono caduti sulla folla in fila per il pane, provocando una ventina di morti e un centinaio di feriti. Francois Mitterrand, nella sua missione di pace, non dimentica queste vittime innocenti. E tra la folla, più numerosa adesso, che lo stringe, depone fiori sul luogo della strage, sul selciato di quella che ora i bosniaci chiamano "la strada della sfida" . Quasi nessuno esce da questa città. Pochissimi entrano. Per giorni non sono arrivati nemmeno gli aiuti internazionali, cibo e medicinali per la popolazione. Soltanto dopo la mediazione di Mitterrand i serbi hanno cominciato a ritirarsi dall' aeroporto per passare la mano ai soldati dell' Onu che dovranno proteggere questo sottile cordone ombelicale con il resto del mondo. Il convoglio con cui abbiamo viaggiato noi la settimana scorsa, e che trasportava anche, sotto l' egida delle Nazioni Unite, i primi viveri spediti dall' Italia, è rimasto bloccato 30 chilometri fuori Sarajevo, a Kisiljiac, paesotto della Bosnia Erzegovina sul quale sventola bandiera croata. Troppo pericoloso, è stato detto, portarlo dentro la capitale, dove le tregue sono proclamate soltanto per essere violate subito dopo. Il nostro viaggio era cominciato 300 chilometri più lontano, a Spalato, oltre il confine che divide la Repubblica croata dalla Bosnia Erzegovina. Retrovie, dove gli echi della guerra arrivano attraverso la presenza e i racconti degli ottantamila profughi che hanno invaso la città; che diventano 300 mila se si considera tutta la costa dalmata, quasi un milione e mezzo nell' intera ex Iugoslavia. L' aiuto italiano è solo una goccia in un mare: 15 miliardi di lire stanziati per prendersi cura di 12 mila esuli, sulla strada di guerra che porta da Spalato a Sarajevo.
L' operazione italiana era partita ufficialmente mercoledì 24 giugno, con una carovana di camion sbarcata al porto di Spalato e con la visita di Margherita Boniver, che allora era ancora ministro per l' Immigrazione. Il convoglio, 5 camion italiani e sei danesi, si era mosso sotto l' egida dell' Onu, ma un funzionario delle Nazioni Unite aveva commentato scettico il piano del nostro governo: "Siamo di fronte a un' emergenza che non può essere certo risolta con qualche tonnellata di zucchero e di farina" . Dieci ore di viaggio, da Spalato a Kisilijac, dove arriviamo che è ormai quasi notte. Il paese, a maggioranza croata, è una tappa obbligata per i profughi che arrivano da Sarajevo. Ce ne sono 7 mila a caccia di cibo e di conforto in quest' isola felice dove si trova ancora da mangiare e la mattina il mercato funziona quasi come in tempo di pace. Qui hanno il loro quartier generale i francesi di Médecins du Monde e Pharmaciens sans Frontières. Sono stati i primi ad arrivare con i viveri così vicini alla guerra. "Abbiamo cominciato a portare i camion in mezzo a Sarajevo il 10 giugno. Anche 5 camion al giorno, senza troppi problemi" , dice Bernard Jacquemart, uno dei coordinatori. "Il 23 abbiamo dovuto smettere. Problemi di sicurezza.
Serbi e Croati ci lasciano passare. Ma dentro la città nessuno può più controllare i cecchini" . A questo punto, e per queste ragioni, anche il convoglio dell' Onu è costretto a fermarsi. Per i giornalisti l' unico modo per entrare a Sarajevo è di avventurarsi con la propria macchina oltre il primo posto di blocco serbo, a 9 chilometri dal paese. La strada è deserta. Le poche auto sfrecciano veloci. Un carro armato fa rifornimento a un distributore, a pochi chilometri da Ilidza, un tempo comune della Bosnia, oggi prima linea delle forze serbe alle porte di Sarajevo. Ultimo posto di blocco serbo. Poi, quel viale che porta alla capitale, quei due chilometri di terra di nessuno da percorrere a velocità folle. Sicurezza...
come parlarne in questa città dove un gruppo di miliziani musulmani è capace di rapinarti l' automobile davanti agli occhi impotenti dei soldati dell' Onu? "Non potevamo intervenire" , ci diranno poi i Caschi blu di guardia al loro Quartier generale. A rubare la macchina è stato un gruppetto che fa capo all' eroe nazionale della Bosnia Erzegovina, Juka Prazina, 30 anni, ex uomo d' affari e ora sedicente Robin Hood di Sarajevo. I suoi meriti: essere stato il primo a imbracciare il fucile contro i serbi. Juca ha il suo quartier generale in una zona popolare del centro storico. Una costruzione bassa, con un sotterraneo protetto notte e giorno da due guardie armate. Cammina con le stampelle per via di una ferita alla gamba, circondato dalla deferenza dei suoi, che nella casa bunker, in mezzo ad armi di ogni sorta, banchettano, intonano canzoni, giocano a carte. Spiega: "In città sono sempre stato molto noto, avevo tanti amici. Così, quando i criminali serbi hanno attaccato non ho faticato a mettere su il mio gruppo per combattere." Mentre Francois Mitterrand compie il suo pellegrinaggio in città, entra nella chiesa ortodossa, visita l' ospedale, dove i feriti di questa guerra vengono curati, e dove, nel parco vicino, in mancanza di cimiteri raggiungibili vengono perfino tumulati i morti (400 tombe provvisorie tra gli alberi), mentre il presidente francese dà un segno della presenza di un' Europa così distante da qui, dalle colline i serbi riprendono a sparare sul quartiere di Dobrinje. E da lì, da questa enclave assediata dove la gente ormai vive seppellita nei rifugi, i giardini sono trasformati in cimiteri e gli scantinati in sale operatorie, i musulmani rispondono. Mitterrand ha quasi terminato la sua visita. Ma gli uomini di scorta, preoccupati, lo pregano di restare al coperto. Il convoglio si ferma. Poi, gli spari si fanno più radi e il presidente decide di ripartire verso l' aeroporto. Ultima suspense: un' auto della polizia investe per sbaglio l' aereo francese fermo sulla pista. Il Presidente deve ripiegare sull' elicottero. La sagoma del "Dauphin" si allontana sopra le colline. Dall' Onu rimbalzano attraverso le radio altri ultimatum per i serbi. Si parla di un intervento in forze delle Nazioni Unite nel caso i soldati di Milosevic ostacolino ancora i voli di soccorso. In piazza, a Sarajevo, davanti al palazzo presidenziale, i bosniaci riavvolgono intanto la passatoia rossa. E dalle colline si ricomincia a sparare.




Testata
Epoca

Data pubbl.
24/06/92

Numero
2176

Pagina
100

Titolo
GLI AVVERSARI DI RABIN

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
ISRAELE

Didascalia
Yitzach Shamir, 77 anni, capo del Likud e del governo.
David Levy, 54 anni, ministro degli Esteri.
Shimon Peres, 69 anni, ex leader laburista.

Testo
I sondaggi per le elezioni del 23 giugno in Israele danno vincente Yitzach Rabin. Ma chi sono gli altri candidati in grado di ostacolare la sua corsa a premier? Eccoli.
Yitzach Shamir. Attuale primo ministro, è l' avversario naturale di Rabin. Capo del Likud, il partito della destra conservatrice al potere dal 1976, Shamir, 77 anni, è sempre stato un sostenitore della grande Israele e della pace senza territori. Posizione ribadita anche durante i negoziati di Madrid. La sua forza all' interno del Likud? Aver inaugurato i negoziati di ottobre, aver portato in patria mezzo milione di ebrei russi, continuare a battersi per la sicurezza di Israele.
Benny Begin. Fino all' anno scorso era solo il figlio di Menachem Begin, uno dei padri d' Israele. Dal 1991, Benny Begin, 47 anni, è uscito allo scoperto tra i giovani leoni del partito come pupillo di Shamir, rappresentante della destra militante, intransigente sui territori.
David Levy. Cinquantaquattro anni, ministro degli Esteri, guida dell' ala morbida del Likud disposta a trattare sui territori, tre mesi fa aveva annunciato le dimissioni dal partito. Poi ha ceduto a un accordo con Shamir per salvaguardarne l' unità.
Ariel Sharon. Il falco. Leader dell' estrema destra del Likud, ha promesso nuovi insediamenti nei Territori e si è opposto alla conferenza di pace voluta dagli Stati Uniti. Oggi, Ariel Sharon, 64 anni, ministro per l' Edilizia, ex ministro della Difesa durante l' occupazione in Libano, si candida "per la sicurezza e l' integrazione degli ebrei sovietici" .
Shimon Peres. L' ex leader del partito laburista rischia di soccombere all' ombra di Rabin. Pesano su di lui alcuni insuccessi politici, ultimo quello del marzo 1990. A quell' epoca, Peres, 69 anni, vice primo ministro dal 1986 nel periodo dell' unità nazionale con il Likud, non riuscì a formare il nuovo governo e dovette cedere il passo a Shamir. Sostenitore dell' opportunità di un compromesso territoriale con i palestinesi, Peres è osteggiato per la sua fama di colomba. O, per qualcuno, di falco travestito da colomba.




Testata
Epoca

Data pubbl.
17/06/92

Numero
2175

Pagina
115

Titolo
L' ODISSEA DI UN UFFICIALE MUSULMANO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
SLOBODAN MILOSEVIC

Sommario
Fuggito in Italia, rischia il rimpatrio e la fucilazione.

Didascalia
Gandi Bryani, 23 anni, del Kosovo.

Testo
BOX
La diserzione dall' esercito serbo, una fuga attraverso i Balcani, dalla Romania all' Ungheria, all' Austria.
Infine, l' arrivo in Italia, a Viareggio, dove Gandi Bryani, 23 anni, ufficiale iugoslavo, sperava di poter ottenere asilo politico.
Invece, un intoppo burocratico e l' ordine perentorio della questura di Lucca di ritornare indietro. Con un' unica prospettiva: la condanna a morte. La storia di Gandi, esule e disertore, è arrivata a Epoca attraverso il numero verde. E' un appello disperato, una richiesta d' aiuto per sfuggire a un rimpatrio senza speranza. "Se torno mi metteranno al muro" , dice il giovane ufficiale in perfetto italiano, "e non solo per aver disertato. In un momento come questo rischio di essere accusato di spionaggio o, addirittura, di traffico d' armi. E' la terza volta che scappo dalla Iugoslavia" . Il primo tentativo Gandi Bryani, originario del Kosovo, l' aveva fatto l' anno scorso, a marzo: "Sono musulmano e non potevo accettare l' idea di dover combattere per l' esercito serbo" . Era riuscito a passar la frontiera, rifugiandosi a Viareggio. Un posto che conosceva bene: prima della guerra, ci passava le estati. Dopo qualche mese, però, la notizia che la moglie, rimasta in Iugoslavia, aveva partorito, l' ha spinto a rientrare. "Mi hanno ritrovato subito. Per fortuna gli ufficiali che erano venuti a prendermi a casa erano amici di famiglia. Mi hanno portato in caserma per una notte. Poi loro stessi, chiudendo un occhio, mi hanno lasciato andar via" . Gandi ne approfitta per scappare nuovamente, sempre a Viareggio, dove comincia a lavorare. Raccoglie olive, fa l' imbianchino, lava piatti in un ristorante. Si precipita anche in questura a chiedere asilo politico, ottenendo nel frattempo un permesso di soggiorno temporaneo. Permesso che avrebbe dovuto rinnovare dopo tre mesi. "A Natale, però, la morte di mia madre mi riporta in Iugoslavia. Speravo di farla franca come la prima volta, invece qualcuno ha fatto la spia e sono finito sotto le armi. Mi è stato risparmiato il tribunale militare grazie al fatto che l' esercito serbo ha carenza di ufficiali" . Destinazione di Gandi: Mostar, in Bosnia Erzegovina, dove i serbi combattono, oltre che contro i croati, contro la maggioranza musulmana. "Sperano di farci fuori, mettendoci gli uni contro gli altri, io che sono musulmano contro la mia stessa gente" . Gandi non si rassegna alla guerra.
Dopo tre mesi di combattimenti, approfittando di una licenza, scappa ancora. L' arrivo a Viareggio gli riserva però una brutta sopresa: la sua richiesta di asilo politico è stata annullata e sta per scadere anche il permesso di soggiorno. "In questura mi dicono che non c' è niente da fare. E' la legge, quindi devo andar via" .
Possibile veramente che non si possa più fare niente? Lucio Genovese, capo di gabinetto della questura di Lucca, spiega a Epoca: "Alla fine dell' anno scorso abbiamo effettivamente inoltrato al ministero degli Interni la richiesta di asilo politico presentata da Gandi Bryani. Probabilmente sarebbe stata accettata. Ma al momento di sottoporsi agli interrogatori e agli accertamenti necessari l' ufficiale slavo era già scomparso dall' Italia. L' abbiamo cercato e ricercato. Alla notizia che era tornato in Iugoslavia, la sua richiesta è decaduta" . Come trovare una scappatoia? In questura promettono che si tenterà di riaprire la pratica con il ministero.




Testata
Epoca

Data pubbl.
09/10/91

Numero
2139

Pagina
66

Titolo
ARRIVANO I NOSTRI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI DINO FRACCHIA

Sezione
STORIE

Occhiello
Missione Albania

Sommario
Senza armi ma con tanti viveri. Allo sbarco, evviva per tutti e qualche saluto romano. Poi però, intorno alle truppe italiane, il clima si è un po' guastato... Ecco la cronaca non ufficiale dell' operazione "Pellicano" , tra i soldati in prima linea nella seconda campagna albanese. "BRAVI ITALIANI, LAVORARE, LAVORARE, CI DICONO... LORO CHE NON FANNO NIENTE TUTTO IL GIORNO"

Didascalia
Un soldato italiano offre
sigarette a due poliziotti albanesi nel porto di Durazzo.
L' operazione "Pellicano" , che vede impegnato il nostro esercito
nella distribuzione di aiuti in Albania, è cominciata il 17
settembre. Durerà tre mesi.
"NOI IN MEZZO A LORO SEMBRIAMO GLI AMERICANI IN ITALIA DEL 1944"
Il tenenete colonnello
della Folgore, Salvatore Jacono, tra la gente di Durazzo.
Ufficiali medici dell' esercito
italiano mentre asportano una ciste a un piccolo albanese nel
Poliambulatorio numero 13 di Durazzo. La situazione sanitaria del
Paese è in condizioni disperate.

Testo
"Bravi, bentornati" . Urla, dita a "v" che inneggiano alla democrazia. I soldati italiani entrano a Tirana con una colonna di camion carica di farina. Entrano senza armi, in giubbotto antischeggia ed elmetto, scortati da due poliziotti albanesi su un Guzzi Falcone che perde colpi ad ogni accelerata. Un vigile si agita fischiando come un pazzo per far largo tra la folla che continua a gridare "Italiani, italiani" , mentre decine di braccia si sollevano in un saluto fascista. "Roba da pazzi" , borbotta un ufficiale, "qua ci prendono per i soldati di Mussolini del 1939" . Passa un giorno, e sulla colonna che trasporta la farina piovono i primi sassi. "Non tutti sono contenti del nostro arrivo" , dice un sergente. "Ci sono quelli imbestialiti per la storia di Bari. Altri che sospettano una truffa: l' Italia regala i viveri, ma il governo albanese, anziché distribure il cibo alla popolazione, pensa di venderlo" . Venderlo all' asta ai migliori offerenti, per creare un mercato, dicono le autorità, per avviare il processo economico... "Sì, va bene" , obietta Antonio, sergente maggiore di Caserta, tra i sobbalzi del Vm in marcia da Durazzo a Tirana, "ma io non ho ancora capito che ci sto a fare qui. ' Sti viveri a chi li stiamo a portà?" Sono 120 miliardi in sussidi, che il governo italiano ha promesso in tre mesi all' Albania, 186 mila tonnellate di riso, farina, zucchero, olio, carne, più sapone, medicinali, libri di testo per le scuole. Il nostro esercito, per la prima volta senza armi in terra straniera, dovrà distribuire il tutto. Nome dell' operazione: "Pellicano" . Una campagna umanitaria, forse il primo passo per trasformare l' Albania in un protettorato; per qualcuno, più prosaicamente, una vacanza. Vedi Antonio, il sergente maggiore di Caserta. La "sua" campagna è cominciata il 17 settembre, quando l' hanno imbarcato dal porto di Trieste: lui e altri 800 militari del battaglione Carso, Quinto corpo d' armata, e del battaglione Aqui, Legione centrale. "Meglio viaggiare che stare in caserma" , dice Antonio. Gli è andata due volte bene. Poteva finire a Valona dove è stato improvvisato un accampamento tra i magazzini del grano. L' hanno invece destinato a Durazzo, dove la base italiana sembra quasi un Méditerranée. Ospitata nell' ex "colonia dei pionieri" , un villaggio per i bambini albanesi in vacanza, ha il mare davanti e pini alle spalle. A tre giorni dall' arrivo degli italiani, funziona già a pieno ritmo. E' il tenente colonnello Salvatore Jacono, un parà con trascorsi in Libano, sul Golan, nel Sinai e a Damasco, che mostra il padiglione del comando, il pulmino con il centro telematico, le docce funzionanti: "In Italia continuano a far polemiche sulla nostra presenza in Albania. Ma vorrei sapere quale organizzazione civile può coordinare un' operazione così complicata. Dobbiamo distribuire viveri in 27 distretti, comprese certe zone di montagna dove senza elicottero è impossibile arrivare" . E' quasi l' ora del rancio. Su una duna di sabbia un gruppo di soldati guarda la spiaggia. C' è il filo spinato che li separa dal mare. Una cinta che serve a proteggere il campo dalla curiosità della popolazione. "Ogni giorno" , racconta Jacono, "gli albanesi si presentano a decine dai carabinieri che montano la guardia, con le storie più disparate" .
C' è chi racconta gli anni duri del regime di Enver Hoxha e chi cerca un pacchetto di sigarette. C' è anche chi resta semplicemente a guardare con il naso attaccato al filo spinato. "Ci prendono in giro, sghignazzano" , si lamenta un soldato di leva. "Bravi italiani, lavorare, lavorare, ci dicono... Loro che non fanno niente tutto il giorno" . Sciopero generale, l' hanno chiamato ad aprile per protesta contro il governo allora presieduto da Fatos Nano. Poi è diventata una specie di abitudine. Assenteismo: in attesa che il nuovo governo democratico di stabilità nazionale, lo stesso che adesso si sta giocando proprio sugli aiuti italiani le elezioni del maggio prossimo, mantenga in Albania le promesse fatte. Si giustificano gli albanesi: "Perché faticare per lo Stato con quei pochi soldi che ci dà, se c' è il sussidio di disoccupazione?" .
"Che corrisponde" , quantifica uno di loro, "all' 80 per cento del salario" . Inutilmente, un capitano italiano forte e robusto cerca di spiegare al poliziotto albanese, che lo abbraccia calorosamente: "Caro Michele, noi vi stiamo portando gli aiuti, ma voi dovete cominciare a rimboccarvi le maniche. E smettere di far sgobbare donne e bambini" . Michele fa finta di non capire: "Io, caserma, io lavorare. Quattro del mattino, io già sveglio" . Il capitano fa una smorfia. "Sveglio, e come! Stava tentando anche di depistare la prima colonna coi viveri..." . E' successo il 23 settembre, quando a Durazzo l' esercito italiano ha scaricato da una nave tedesca 2 mila tonnellate di farina, dono della Croce Rossa. Il carico, arrivato a Tirana, anziché finire ai magazzini governativi, stava rischiando un assalto della popolazione, sotto l' alto patrocinio del poliziotto albanese Michele. Se la colonna con i viveri è un bersaglio mobile, il campo di Durazzo con i suoi 300 mezzi parcheggiati, jeep, camion, elicotteri, ruspe, le sue scorte alimentari e i soldati dentro, è quasi un miraggio per la miseria albanese. Un giornalista locale, durante una cena in mensa, avverte il colonnello Jacono: "Circola già la battuta che qui sia territorio italiano. Attenti perché la popolazione potrebbe riversarsi dentro" . Come è già successo all' ambasciata, due anni fa, prima che cominciassero gli esodi in Italia? Il giornalista ride. Fatto sta che per un Paese con le scorte alimentari che rischiano di esaurirsi da un momento all' altro, i soldati italiani sono delle "casseforti ambulanti" .
Lo sa il generale Antonio Quintana, capo dell' operazione, che si lascia scappare: "Andiamoci piano con le libere uscite, con i permessi. E' vero, siamo protetti dalla polizia e dall' esercito albanese, ma ricordiamoci che non portiamo armi" . In effetti, questi erano gli accordi tra i due governi interessati. Ma, visto il quadro, basteranno davvero i sei carabinieri con mitraglietta e pistola messi a guardia del campo? Tra gli ufficiali superiori, un po' di malessere c' è: per il rischio che corrono i "ragazzi" e poi perché, senza armi, salta il codice militare, si scardinano le procedure tradizionali. Se un camion viene attaccato, ad esempio, che si fa? Gli ordini, per quelli della "Pellicano" , recitano: abbandonare tutto e darsi alla fuga. Ai 250 soldati di stanza a Valone, il tenente colonnello Umberto Dolatti ripete ogni giorno le stesse raccomandazioni: "Ragazzi, non ostentate ricchezza. Non importunate le donne, qui sono musulmani..." . Ma i soldati non ci sentono. Alle cinque del pomeriggio di domenica sono già azzimati per la prima "caccia grossa" , che a Valona darà risultati, purtroppo per loro, deludenti. "Paura degli albanesi? Ma figurati" , si sbilancia uno degli addetti alla mensa. "Li conosco bene.
E' gente tranquilla. Ci facevo il contrabbando a Brindisi: sigarette" . Qualcuno spera addirittura di concludere un affaruccio: "Oro. Mi hanno detto che ce n' è a montagne e costa due lire" .
Eppure, sul molo del porto di Durazzo, lunedì 23 settembre, la truppa che accoglie la prima nave con i viveri si guarda attorno con apprensione. Due giorni prima, hanno raccontato alcuni ufficiali della Marina italiana, che presidia il porto con un paio di motovedette più una cinquantina di uomini del battaglione San Marco, c' è stato un assalto al traghetto di linea, respinto a colpi di manganelli dai poliziotti locali. Trecento albanesi volevano fuggire, segno che l' esodo, come ha dichiarato del resto il presidente dell' Albania Ramiz Alia, non è ancora finito. I soldati italiani portano giubbotti antischegge ed elmetti. Ma tutto al momento dello sbarco sembra tranquillo. Solo la manodopera albanese che dovrebbe scaricare la nave li fa penare. "So' lenti. So' lenti" , borbotta il maresciallo Marcantonio, baffetti e occhialini di metallo. "Ce fanno morì" . Soldati sull' attenti, il giorno dopo, per l' arrivo delle autorità. Per esempio, l' ambasciatore italiano Torquato Cardilli, che spiega: "Il nostro ministro degli Esteri De Michelis l' ha detto chiaramente: i nostri aiuti arriveranno in Albania in modo direttamente proporzionale al rafforzarsi della democrazia" . Sul molo c' è anche Shane Korbeci, ex ministro del Commercio, un tempo legato al carro di Hoxha, oggi coordinatore dell' operazione Pellicano: "Tratteremo i vostri viveri come una qualsiasi merce d' importazione. Una volta immagazzinata, sarà venduta alla popolazione. A prezzi liberalizzati" . Una rete commerciale da organizzare, un sistema fiscale da fondare, una riforma economica da preparare. Ma per la gente d' Albania, l' "interscambio" con l' Italia esiste già. Traffici di auto scassate, con rottami che scorrazzano per le strade targate Macerata, Alessandria, Trieste, contrabbandi, mercatini neri ovunque. E sull' altro fronte, quello italiano, una schiera di "affaristi" , come li chiama la popolazione, che si è già fatta in Albania una testa di ponte. "Formiche che corrono all' assalto" , li definisce l' ambasciatore Cardilli. Tanti di questi si incontrano la sera, nelle sale dei principali alberghi, a chiacchierare su divanetti lisi mentre progettano "business" , contatti con il governo, persino colpi di Stato. All' Adriatiku di Durazzo, due italiani sbarcati dalla Puglia, "amici di famiglia" , lo dicono senza esitazione, "dell' ex dittatore Enver Hoxha" , promettono dossier esplosivi contro il nuovo governo democratico: "Scandali, corruzioni, i nomi di tutti gli assassini che circolano nei nuovi partiti dell' Albania. Perché, nessuno lo sa, ma questo è un Paese dove si muore ancora" . Ai militari che viaggiano sui camion, tra i buoi e le mucche tenute al guinzaglio, papere e galline che invadono le strade, l' Albania appare certamente disperata. Ma in altro senso: miseria, povertà, ignoranza. E una folla di gente che cammina, cammina da mattina a sera. Nelle vie della capitale come sui sentieri di campagna. "Noi in mezzo a loro" , dice un ufficiale, "sembriamo gli americani in Italia del 1944" . E il maresciallo Marcantonio, dopo aver distribuito qualche pacco di wu' rstel in giro: "Alla faccia dei musulmani. I wu' rstel: boni, se sò boni. E i gatti? Avete visto che in giro nun ce ne stanno: se li magnano" .
Scherzano meno gli ufficiali medici che si sono messi a lavorare negli ospedali, dove hanno trovato scabbia, epatite, cardiopatie, malattie della pelle, ma nessun farmaco e nessuna attrezzatura. Le siringhe vengono bollite e ribollite da dieci anni a questa parte, sempre le stesse, dall' ultima fornitura che il governo albanese ha avuto dalla Cina, prima di troncare l' unica allenza politica ed economica degli anni di Hoxha. Un gruppo di soldati in perlustrazione ha visto dell' altro ancora: un bunker in montagna dalle parti di Albassar, uno dei 660 mila d' Albania, con un poliziotto morto dentro. Un altro bunker, più distante, pieno di armi e munizioni. Nessuna spiegazione plausibile. Più convincente quella che si è sentita dare il tenente colonnello Jacono: il suo elicottero, atterrato dalle parti di Tropoja, ai confini con la Iugoslavia, accerchiato da una decina di soldati albanesi, ha rischiato uno sventagliata di mitra. "Ci avevano scambiato per Serbi" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
09/01/91

Numero
2100

Pagina
48

Titolo
SU QUESTA PETRA...

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
Re Hussein

Sommario
Un viaggio-guida alle meraviglie giordane per giornalisti stranieri. E un grande festival lirico tra le rovine di Jerash. In difficoltà come mediatore, e con un trono schiacciato tra Bush e Saddam, la "volpe del deserto" tenta una carta a sopresa: quella turistica.

Didascalia
Re Hussein di Giordania con la moglie Noor, un' americana
sposata nel 1978, e i loro quattro figli.

Testo
Ha guidato il suo jet personale toccando tutte le capitali arabe. Ha provato a tessere le fila di un complicato gioco diplomatico con Bagdad, Washington, l' Europa, e ora con la Siria. Ha promesso di obbedire alle sanzioni imposte dall' Occidente contro l' Irak, chiedendo aiuti alla comunità internazionale. Adesso, con un' economia che sembra quella di un Paese già in guerra, re Hussein tenta un' altra carta ancora: un rilancio del turismo per il suo piccolo dominio di deserto e sassi. Prima mossa, un viaggio-guida alle meraviglie giordane offerto a un gruppo selezionato di giornalisti stranieri. Seconda: un grande festival lirico che dovrebbe svolgersi, Bush-Saddam permettendo, dal 19 giugno al 2 luglio, tra le rovine romane di Jerash, 40 chilometri a nord di Amman. Sorprendenti gli sponsor dell' iniziativa: accanto al ministero del Turismo giordano, l' agenzia di viaggi Sun Flowers di Roma e la regione Lazio, che hanno messo a disposizione 4 miliardi di lire per edizioni in loco della Norma e dell' Otello.
L' offensiva-vacanze di re Hussein stride non poco con i venti di guerra del Golfo. Ma il governo hascemita sembra ben deciso a sostenere il festival. Perché? Per dimostrare che l' eventualità di un conflitto non turberà la vita in Giordania e perché il turismo può essere davvero una risorsa fondamentale per il futuro del Paese.
Una risorsa mai come oggi in pericolo. In occasione delle ultime feste natalizie, le casse della Giordania hanno registrato una perdita secca, causa Saddam, di circa 500 miliardi di lire. "Solo dall' Italia nel 1989 sono partiti 21 mila viaggiatori" , aggiunge Ugo Segala, rappresentante delle linee aeree giordane, "quest' anno sarebbero stati 35 mila, se l' ambasciata italiana per prima non avesse invitato i propri connazionali a disdire le prenotazioni" .
Disdette anche dagli Stati Uniti, che in più, seccati per l' avvicinamento di re Hussein all' Irak, hanno invitato al celere rimpatrio i 4 mila americani che a metà agosto si trovavano in Giordania. Morale: re Hussein, il "piccolo" sovrano di cultura inglese e sangue arabo, è rimasto ancora più solo, alle prese con le sanzioni economiche dell' Onu e a capo di un Paese travolto da ondate di profughi affamati, fino a 25 mila al giorno nei mesi estivi, provenienti dall' Irak, dal Kuwait, dagli Emirati. Più che comprensibile dunque che Hussein cerchi adesso di accreditare un' immagine nuova, meno burrascosa del suo regno, condizione indispensabile per riportarci in visita i ricchi occidentali. Ad aiutarlo nell' operazione è come sempre la moglie Noor, al secolo Lisa Haleby, l' americana sposata nel 1978 e madre degli ultimi suoi quattro figli. La trentanovenne regina, che da studentessa di architettura sfilava nelle marce di protesta contro la guerra in Vietnam, ha insistito perché il progetto del festival vada avanti, quali che siano gli esiti della crisi. Una donna di carattere. Sin dai primi giorni dell' invasione del Kuwait, Noor-al-Hussein ha curato personalmente gran parte delle relazioni pubbliche del regno, appoggiando incondizionatamente la posizione diplomatica del marito, il tentativo cioè di creare, tra i due fuochi Usa-Irak, un fronte arabo moderato, più vicino in realtà al dittatore iracheno che non a Washington. A ottobre, la regina di Amman si è spinta fino nella tana del "nemico" , il Congresso americano, per dichiarare ai suoi ex compatrioti il suo dissenso alla presenza dei marines in Arabia saudita. Ma basterà, in un frangente delicato come quello attuale, l' abilità di una affascinante donna bianca a rilanciare il turismo in Giordania, gli itinerari romani di Jerash o l' antica Via dei re che porta a Petra? Il piccolo regno di Hussein, 3 milioni e mezzo di abitanti divisi tra beduini (40 per cento) e palestinesi (60 per cento), somiglia sempre più alle retrovie di un fronte: ristoranti vuoti, locali pubblici costretti a chiudere alle 23 per risparmiare energia, migliaia di bambini che rischiano (è l' Unicef a dirlo) di morire di fame. A settembre re Hussein ha chiesto alle Nazioni Unite 2 miliardi e mezzo di dollari come contropartita per il rispetto delle sanzioni contro l' Irak. Ma le sue simpatie per Saddam Hussein, dal quale ha continuato a importare petrolio, non hanno certo spinto la comunità economica occidentale alla benevolenza.
Soffocato dal ricatto economico e politico, fallito come mediatore della crisi, re Hussein, il sovrano dalle sette vite, come è stato definito per l' incredibile numero di attentati a cui è scampato in quasi quarant' anni di regno, sa di essere forse all' ultima spiaggia e si muove di conseguenza. Così si spiegano il suo avvicinamento alla Siria, schierata dalla parte degli Stati Uniti, e appunto il tentativo di rilancio turistico del Paese. La posta in gioco? La salvezza di uno Stato che proprio sotto la gestione Hussein è diventato qualcosa di molto più importante, per gli equilibri del Medio Oriente, di quanto pensasse Churchill, che l' aveva definito "solo un deserto con un suo esercito e il suo re" .



Testata
Epoca

Data pubbl.
29/08/90

Numero
2081

Pagina
104

Titolo
BALLETTI ROSSI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Raffaele Incalza

Sezione
TEMPI MODERNI

Occhiello
COSTUME / SESSO ALL' EST

Sommario
Budapest, Praga, Mosca... Il post-comunismo apre al sesso. Tra crociere dell' amore, porno-shop e plotoni di squillo, viaggio in una rivoluzione ancora tutta da scoprire.

Didascalia
Sopra: Aneta Kreglicka, 25 anni, polacca, eletta Miss
Mondo lo scorso anno ad Hong Kong. A destra: una locandina del film
"Sex & perestrojka" , girato a Mosca dal regista francese Francis
Leroi, e interpretato anche da giovani attrici sovietiche.
Sopra e nella pagina accanto: Mariya Kalinina, 19 anni, che nel
1988 vinse il primo concorso di bellezza dell' Unione Sovietica e fu
eletta Miss Mosca. In alto, a sinistra: Helene Fiveiskova, 22 anni,
Miss XXI Secolo in un concorso internazionale tenutosi nella
capitale sovietica nel settembre 1989. In alto a destra: Larisa
Litichevskaia, Miss Mosca 1989.

Testo
Il Csobanc sembra un battello come un altro. Di giorno sta ormeggiato nel porticciolo di Siofok, sul Balaton, un centinaio di chilometri da Budapest. Di sera però le luci si accendono e la nave prende il largo sulle acque del lago, per celebrare il nuovo rito dell' amore: la porno-crociera, ultima invenzione di Laszlo Antas Voros, grande manager del sesso in Ungheria. A bordo, spogliarelliste, massaggiatrici, conigliette si prodigano, proprio nel cuore dell' ex impero comunista, in un genere di piaceri e raffinatezze che stanno facendo di Budapest, la Bangkok d' Europa. Con il crollo dei vecchi regimi, il vento dell' eros ha preso a soffiar forte da queste parti, travolgendo con plotoni di squillo, sex-shop e videocassette quel che resta del marxismo più intransigente. Il tornado è arrivato in Cecoslovacchia, sta cambiando gli scenari sovietici, turba i sogni della puritana Romania e della cattolicissima Polonia. A Praga, il sindaco Yarosloava Koran, allarmato dal giro di prostituzione che si estende sempre più, ha annunciato la scorsa settimana un' operazione di polizia per lo sgombero del centro storico: "Sono almeno venticinquemila le donne che battono il marciapiede di mestiere" , ha detto. "Ma ci risulta che ce ne siano diverse altre migliaia, casalinghe per lo più e studentesse, che lo fanno in maniera occasionale. Non è uno spettacolo edificante, perciò abbiamo deciso di concentrarle tutte sull' isola di Kampa" . In Jugoslavia il nuovo corso si consacra attraverso la didattica: trasmissioni porno a Tele Belgrado 3, giornaletti e riviste propedeutiche. Come Erotika, una raccolta di confessioni, novelle e "posizioni" per coppie desiderose di imparare. Ma la glasnost del sesso scoppiata negli ultimissimi mesi non è meno dolorosa di quella politica. Arriva all' improvviso.
Scombussola la morale privata, segnata ancora da decenni di ignoranza e tabù. Deve fare i conti con l' "analfabetismo sessuale" lamentato nel 1987 da Goniok, la rivista sovietica di critica favorevole alla perestrojka, perché c' è tutta una generazione, soprattutto in Urss, che non conosce l' uso dei contraccettivi, ha paura del proprio corpo, bolla la masturbazione come pratica borghese. Deve regolarsi su una legislazione che in molti Stati considera ancora l' omosessualità e la prostituzione come reato.
Anche in Cecoslovacchia, dove le tradizioni più democratiche hanno permesso ai gay nel 1961 di venire allo scoperto (esistono oggi quattro associazioni che alle elezioni dello scorso giugno hanno espresso un loro candidato), l' ignoranza in materia di sesso è il primo problema da risolvere. Il partito che è nato tre mesi fa, "Iniziativa erotica indipendente" , ha tutto un programma dedicato all' educazione sessuale, un manifesto dell' amore post-comunista che propaganda la contraccezione, la prevenzione dell' Aids, il diritto all' aborto. Il paradosso all' Est è infatti proprio questo: da un lato una morale laica e anticlericale, dall' altro il sesso visto come piacere piccolo borghese, addirittura pericoloso per lo spirito sano del "rivoluzionario" . "Si può fare" , spiega Simon Formanek, leader del Movimento per l' uguaglianza dei diritti dei cittadini omosessuali in Cecoslovacchia, "ma non se ne deve parlare" . Niente liberazione sessuale, e nemmeno femminismo.
L' emancipazione della donna è passata attraverso il lavoro: 90 per cento di impieghi contro il 50 per cento dell' Ovest. Ma si è trattato spesso di una necessità economica, per evitare l' accusa di "parassitismo sociale" . "Un uomo in Unione Sovietica" , dice Ljudmilla Petrusevskaja, autrice di Amore immortale, pubblicato lo scorso inverno in Italia dalla Mondadori, "non è in grado di mantenere la famiglia. Per questo le donne si sono "emancipate" , nel senso che sono state costrette a lavorare" . E i figli? "Nessuno si occupa della loro educazione sessuale. Manca il tempo" .
Risultato: in Paesi come la Cecoslovacchia, il 60 per cento delle ragazze si sposano perché incinte. E tutte molto giovani, 18 anni appena. Il tasso dei divorzi è alto: un terzo dei matrimoni fallisce entro i primi tre anni. "Ecco cosa ha prodotto il materialismo marxista" , protesta il cardinale Frantisek Thomacek. I sociologi però la pensano diversamente: la gente all' Est si sposa giovane per sentirsi autonoma. La crisi degli alloggi non dà alternativa ai ragazzi se non quella di rimanere in casa con i genitori. Mancano i luoghi d' incontro. E' impossibile anche prendere una stanza d' albergo per starsene appartati. Sostiene Tatiana Suwokowa, una giornalista della Tass che ha condotto con il collega tedesco Adrian Geiges, un' inchiesta sulla sessualità all' Est: "In Unione Sovietica un uomo e una donna non potranno mai chiedere una stanza se il loro passaporto non prova che sono sposati. Il personale degli alberghi è sempre sul chi vive quando si tratta di "morale" e di "buoni costumi" " . Per passare la notte insieme la coppia sarà costretta a versare una cinquantina di rubli in più al proprietario dell' hotel. Ipocrisie da cui l' Est sta rapidamente liberandosi, anche se nelle forme elementari dell' erotismo baraccone del sex-shop e dello spogliarello. Con una frenesia però tutta nuova, come se il problema fosse quello di recuperare il tempo perduto. Con ogni mezzo e ad ogni costo. E ci sono già grandi manovratori pronti a soddisfare il bisogno. L' inventore del battello del Balaton, ad esempio, Laszlo Antas Voros. La sua agenzia, l' Intermozaik, oltre a controllare in Ungheria il business delle riviste porno, è una vera miniera di optional erotici. Dopo la "love boat" , ha in programma il "pullman dell' amore" , un bordello itinerante che percorrerà in lungo e in largo l' Ungheria, una casa per massaggi al centro di Budapest, e una fiera internazionale della pornografia. E gli affari, a Voros, vanno benissimo. Le sue tariffe? Cinquemila fiorini, cioè centomila lire, per mettere piede sul battello dell' amore, più tremila per ogni prestazione delle "ragazze" , munite di regolare libretto di lavoro e pagate a percentuale.
Concorrenti? Alcune imprese dell' Ovest che non vogliono lasciarsi sfuggire l' occasione del nuovo mercato. Come la Beate Uhse di Hannover, la più grande casa di produzione di materiale pornografico della Germania occidentale. Si è preparata le basi commerciali all' Est, partendo subito, appena il Muro è caduto: uno sfilare di camion e agenti di vendita con cataloghi di lingerie e strumenti per soddisfare gusti e perversioni orientali. Se è vero poi quello che dice un' inchiesta di Liberation, e cioè che i tedeschi dell' Est hanno una vita sessuale due volte più attiva di quelli dell' Ovest, si capisce come l' esportazione possa diventare una vera cuccagna.
"La gente arriva in macchina, da Dresda, da Leipzig, da Weimar" , racconta Frank Friessnegg, direttore di produzione di Vto, una delle maggiori case di video d' Europa, "e se ne riparte con il cofano pieno di cassette e giornali. La Germania dell' Est è la nostra speranza: sedici milioni di potenziali consumatori" . Più quelli che vengono dall' Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Jugoslavia.
Unico ostacolo: la legislazione tedesca, che proibisce di esportare nei Paesi dove la pornografia è vietata. Come appunto Cecoslovacchia e Ungheria, che vivono su un business tollerato, ma clandestino.
Quanto clandestino? Mentre si inneggia alla nuova sessualità, la perestrojka dell' eros ha già prodotto i suoi anticorpi. A Budapest si è fatta portavoce dell' ultima crociata la professoressa Kota Beke, deputato del Forum democratico: "Bisogna frenare la pubblicazione delle riviste erotiche, chiudere le case di piacere" .
D' accordo anche la Chiesa che, forte del successo politico dei partiti d' ispirazione cattolica, rinnova la messa al bando dell' omosessualità e tenta una limitazione all' aborto, finora lecito in tutti gli Stati tranne che in Romania. L' ex regno di Ceausescu è però un caso a parte. La repressione dei costumi sessuali qui è stata totale: basti pensare alla tassa istituita per penalizzare le donne sopra i 24 anni rimaste nubili o senza figli.
La morale di Stato ha vietato per anni gli anticoncezionali, ha represso ogni forma di libertà, ha negato ufficialmente persino l' esistenza dell' Aids, fenomeno con il quale ora si trova a fare drammaticamente i conti. Come la Polonia, dove i malati ufficiali devono vivere nascosti per difendersi dai pregiudizi. E qualche volta dalle violenze. Nel villaggio di Kawetzyn cinque ragazzi affetti dalla sindrone Hiv sono stati segregati in un sottoscala con decreto ministeriale. Per proteggerli. Gli abitanti del paese li avevano minacciati, insultati, bastonati. La loro colpa: aver stretto un patto col diavolo. Neanche l' oscurantista Polonia, però, si salva del tutto dalla voglia d' Occidente che ha contagiato l' Est. L' educazione cattolica non ha impedito ad Aneta Kreglicka, 23 anni, bionda, alta, bella, di indossare uno striminzito costume da bagno e salire in passerella ad Hong Kong per vincere lo scorso anno niente meno che lo scettro di Miss Mondo. Da Mosca le hanno risposto Miss Perestrojka, Miss Coppa del Mondo, Miss Supermodella ' 90. Il capitalismo ha colpito al cuore.

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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